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Babbo Natale

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Babbo Natale, Gesù Bambino, Santa Klaus: tanti nomi diversi per il personaggio magico che la notte del 25 dicembre porta i regali ai bambini. Guido Araldo ne ricostruisce la storia.

Guido Araldo

Babbo Natale

Per quanto riguarda le tradizioni natalizie, è interessante rievocare la storia straordinaria di Santa Claus, in Italia noto come Babbo Natale. La sua origine è inequivocabilmente cristiana: si tratta di san Nicola, vescovo di Myra, decapitato ai tempi dell’imperatore Diocleziano agli albori del IV secolo, o forse sopravvissuto alla persecuzione e vissuto fino all’anno 358, esempio per tutto il bacino orientale del Mediterraneo.

La fama di San Nicola, notevole e diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, non deriva dal suo martirio, ma da un episodio leggendario: tre mele d’oro depositate sulla finestra di una stamberga, dove tre fanciulle stavano per essere avviate al “mestiere più antico del mondo” da un padre vedovo, disoccupato e disperato poiché incapace di mantenerle. Per la verità, la fama di san Nicola derivava anche da uno zampillo intermittente d’olio miracoloso, che si diceva fosse in grado di curare qualsiasi malanno, sgorgante dalla sua tomba nell’antica città di Myra, sulla costa mediterranea dell’antica Licia, nell’attuale Turchia.

Un po’ per la fontanella d’olio taumaturgico e un po’ per la storiella dei tre pomi d’oro, san Nicola divenne famosissimo nell’Impero Bizantino e successivamente tale fama dilagò in Russia, principale erede della cultura dell’impero Romano d’Oriente.

Quando l’Impero Bizantino entrò in crisi irreversibile a causa dell’invasione degli Arabi e poi dei Turchi, la città di Bari passò sotto il dominio normanno, non più soggetta all’autorità di Costantinopoli, e immediatamente si organizzò un’audace spedizione. Una nave salpò dal porto delle Puglie con 62 marinai a bordo, in compagnia dei sacerdoti Lupo e Grimoldo e navigò verso Oriente: l’obiettivo era Myra dove i marinai, con un autentico colpo di mano degno dei più audaci pirati, trafugarono il sarcofago con le spoglie di san Nicola.

Il ritorno a Bari fu un trionfo: l’8 maggio dell’anno 1087. La leggenda vuole che il sarcofago, scaricato dalla nave alla presenza di tutta la popolazione festante, sia stato adagiato su un carro trainato da imponenti buoi lasciati liberi di vagare per la città e nel luogo in cui si fermarono, fu edificata una grande basilica, degna di ospitare spoglie di cotanto santo: l’attuale cattedrale di San Nicola. Da allora, della storia dello zampillo d’oro miracoloso non se ne seppe più nulla, anche perché nel frattempo a Myra erano arrivati i terribili Turchi, con il turbante in testa e la mezzaluna sul turbante, che di santi come san Nicola proprio non sapevano che farsene.


Da quel momento la basilica barese fu meta di grandi pellegrinaggi che persistono tutt’oggi, anche se con minore intensità rispetto al passato. La notizia del trafugamento delle sante spoglie di San Nicola corse per le strade d’Europa, accompagnata dal suono festoso delle campane, e i Veneziani, invidiosi del colpo di mano messo a segno dai baresi, andarono a loro volta a rovistare a Myra, non contenti di essersi già portati a casa, da Alessandria, le spoglie dell’evangelista Marco. Erano gli anni della prima crociata, tra il 1099 e il 1100. Si trattò, più che altro, di una sosta lungo la costa della Licia al ritorno dalla Terra Senta. 

Ma potevano i Veneziani tornarsene a casa a mani vuote? Anch’essi s’impossessarono di un sarcofago e prontamente dissero che i Baresi si erano sbagliati: alcuni cristiani di Myra ricordavano che le cerimonie più importanti non erano celebrate sull’altare maggiore, ma in un altare secondario, dov’era stato sepolto san Nicola. In tal modo anche i Veneziani festeggiarono nel Canal Grande le spoglie di san Nicola costruirono una basilica, al Lido, perché in città c’era già quella di San Marco. Sorse così l’abbazia di San Nicolò: là dove finisce la laguna e comincia il mare aperto. Da allora, a San Nicolò del Lido, protettore della flotta veneziana e guardiano della città sul lato dell’Adriatico, si sarebbe svolto il rito annuale dello sposalizio di Venezia con il mare.

Passarono i secoli e, invece di decrescere, il culto di san Nicola aumentava, essendo intanto arrivato in Russia, dove riscosse un notevole successo in questo paese destinato a una grande espansione. Quando fu il turno dello zar Pietro il Grande, che volle una capitale nuova sul Baltico, San Pietroburgo, per san Nicola si aprirono orizzonti insperati. In quella città che andava sorgendo dal fango, tra acquitrini sconfinati, arrivarono le maestranze dall’Olanda, allorché lo zar ambì dotarsi di una flotta sul Mare Baltico. E quei maestri d’ascia si portarono in patria il culto di San Nicola, nonostante fossero in gran parte protestanti.



Il dono delle tre mele d’oro non era stato dimenticato e si era trasformato nell’usanza di offrire ai bambini dolci simili a quei tre bei pomi, in occasione della festa del Santo che, prima dell’introduzione del calendario gregoriano, cadeva il 16 di dicembre (data tutt’ora vigente in Russia e in tutti i paesi di tradizione ortodossa). Proprio questa data, con i tre pomi d’oro, palesa un insospettato collegamento tra San Nicola e Saturno, antichissima divinità italica il cui nome denota un riferimento a satis: soddisfazione e abbondanza. Saturno il seminatore: il sator!

L’antichissima frase che si può leggere da destra a sinistra e viceversa, dall’alto al basso e dal basso all’alto, sulla quale si sono scervellati schiere di studiosi. Probabilmente è un’antica preghiera benaugurale inneggiante al seminatore Saturno, qui chiamato Arepo, che “tiene l’opera” cosmica e ruota le stagioni. Poco nota, ma illuminante, la definizione di Saturno come “sator hominum dueorunque” (Eneide, Virgilio) ovvero padre “inseminatore” degli uomini e degli dèi. Padre primogenio dell’umanità e della stessa stirpe divina: “caelestum sator” (Cicerone nelle Tuscolanae e nel De Natura Deorum). Si consideri, inoltre, la correlazione tra satis (a sufficienza, appagamento, sazietà) e sator…

I tre pomi d’oro erano un’allusione al regno di Saturno: la famosa età dell’oro in cui c’era abbondanza sulla terra, senza carestia, fame e guerra; quando gli uomini vivevano in armonia e in pace, senza distinguersi in servi e padroni: il corrispettivo del Paradiso celeste in terra. Quelle tre mele d’oro rievocavano anche la “ricchezza di Saturno”: il dio, a Roma, era custode del tesoro dello stato, detto aerarium, depositato nel suo tempio in prossimità dell’antico foro, il centro del mondo.

Saturno era il sommo custode della ricchezza di Roma e anche un dispensatore di beni. All’asportazione dell’intoccabile aerarium, effettuata da Pompeo con Cesare alle porte di Roma, veniva fatta risalire la fine della stessa Repubblica.


C’erano poi i tre doni elargiti da Saturno quando, esiliato dall’Olimpo, giunse in Italia accolto con tutti gli onori dal dio Giano che, addirittura, gli offrì parte del suo regno. Questi tre doni riguardavano l’agricoltura, la fondazione delle prime città e la capacità straordinaria della preveggenza, tipica di Saturno e cara agli aruspici etruschi. Probabilmente, in origine, questo dio era il più importante dei numina: gli dèi tutelari di Roma, che soltanto in seguito, a contatto con la cultura greca e principalmente con l’ellenismo, acquisì le caratteristiche di Kronos, diventando padre di Giove.

Proprio in suo onore, a dicembre, si celebrava la più antica e chiassosa delle feste: i Saturnali, che inizialmente duravano un giorno soltanto, il 16 o il 17 di dicembre, data illuminante se si considera la festa ortodossa di San Nicola, per poi prolungarsi di 15 giorni in epoca imperiale, quando i festeggiamenti a Roma sembravano non finire mai. San Nicola è tuttora raffigurato in solenni abiti vescovili, con lunga barba bianca non estranea a Saturno.

Per quanto riguarda i paesi nordici, il collegamento atavico di san Nicola non è con Saturno, ma con Odino. La tradizione antica di quei popoli vuole che Wodan (Odino) si cimentasse in grandi battute di caccia in occasione del solstizio d’inverno, in compagnia dei guerrieri più valorosi, morti in terribili battaglie. I bambini lasciavano i loro stivaletti accanto al camino, dopo averli riempiti di rape e carote per sfamare il cavallo volante del dio Odino, il mitico Sleipnir, ricevendone in cambio ciambelle e dolcetti. Quest’usanza di lasciare gli stivaletti dei bambini accanto al camino persistette nel tempo e non venne meno quando il cristianesimo subentrò al paganesimo, mandando in pensione il dio Odino o Wodan. Gli stivaletti non erano più lasciati accanto al camino, ma sotto le finestre, nella speranza che i folletti, inviati da San Nicola, li riempissero di dolciumi per i bambini che erano stati buoni, mentre lasciavano pietre a quelli che non si erano comportati bene.

Anche l’area tedesca presentava simili tradizioni invernali riferite ai bambini, che da Odino transitarono in san Nicola. Nell’iconografia tradizionale il nordico dio Odino, assai simile al più meridionale Saturno e quindi a Nicola, presentava identica barba bianca, nonostante fosse guercio. Tutto lascia supporre che in questa straordinaria peregrinazione medievale, il culto di san Nicola sia arrivato nei Paesi Bassi molto prima dei maestri d’ascia che rientravano da San Pietroburgo.


Un archetipo collettivo ben radicato; al punto che, quando in questa terra dilagò la riforma protestante, san Nicola non fu messo all’indice, né cancellato. Chi avrebbe avuto il coraggio di farlo? Chi poteva mandare in pensione un vecchietto che offriva frittelle e dolcetti ai bambini nei rigori dell’inverno? Ancora oggi, in Olanda, il 6 dicembre è tradizione offrire ai bambini doni: giorno in cui si festeggia san Nicola.

L’Olanda costituì uno snodo importante per il culto di san Nicola. Gli Olandesi lo portarono sulle coste del nuovo mondo, nella colonia della Nuova Olanda al di là dell’Oceano Atlantico, quando fondarono Nuova Amsterdam che sarebbe diventata New York, allorché arrivarono gl’Inglesi a metà del XVII secolo.

Gli Olandesi amavano chiamare san Nicola Sinterklaas, storpiatura di Sint Nicolaas (san Nicola), e gli Inglesi, per quanto protestanti come gli Olandesi, non osarono trascurare quel vecchietto che rendeva felici i bambini per un giorno. Lo adottarono pure loro e nello slam newyorkese Sinterklaas divenne Santa Klaus; ma fecero coincidere la tradizionale offerta di frittelle e i dolcetti con la festa del Natale, a loro più congeniale. Il resto lo realizzò la famosa multinazionale Coca Cola, che acquisì Santa Klaus come simbolo commerciale invernale, vestendolo di un giubbone rosso con pellicciotto bianco: metamorfosi che si collega probabilmente ad antiche leggende della Northumbria, dove un vecchio saggio dalla folta barba bianca, peraltro molto simile all’iconografia di Saturno e Odino, raccontava storie ai bambini, accanto al camino.


Connessa a san Nicola è la figura dolce e gentile della signorina benvestita e sorridente che si trova sovente nelle cartoline natalizie. Un tempo era popolarmente nota come «ragazza da marito» o «zitella». Nel Medioevo san Nicola era il grande patrono delle fanciulle “da marito”. Ancora oggi nella regione della Lorena le ragazze nubili si recano la sera della vigilia del 6 dicembre al santuario di Saint-Nicholas-de-Port per “camminare sulla buona pietra”. Poco lontano, nell’antica Provins, la città delle grandi fiere medioevali, le fanciulle aprivano e chiudevano simbolicamente il chiavistello della locale cappella di San Nicola cantando un antico ritornello: “Patron des filles, Saint-Nicolas, mariez-nous, ne tardez pas” (Patrono delle fanciulle, san Nicola, sposateci, non indugiate).

Poi venne la progressiva “americanizzazione planetaria”, conseguenza della Seconda Guerra mondiale, e il Santa Klaus della Coca cola fu esportato in tutto il mondo. Un processo che nei paesi di tradizione cattolica ha tradotto Santa Klaus in Babbo Natale, e ha finito per sostituire Gesù Bambino nella distribuzione dei doni ai bambini nella magica notte del 24 dicembre. Un vecchietto bonario e gaudente, che sembrava apprezzare prolungate soste nei pub, andò evolvendosi nello “spirito di bontà del Natale” per opera dello scrittore Charles Dickens. Davvero un viaggio singolare nel tempo e nello spazio quello di San Nicola - Santa Klaus - Babbo Natale! A mio modesto parere, era più poetico Gesù Bambino


(Dal volune: Mesi Miti Mysteria)

L'Olandese

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Auguri di Buone Feste a tutti gli Amici di Vento Largo con questa piccola storia.

Giorgio Amico

L'Olandese

Lo chiamavano l'Olandese, perchè da giovane era andato a lavorare in Olanda. Non si era mai davvero capito se fosse un semplice soprannome, un'usanza antica in quella valle, o una presa in giro. Qualunque cosa fosse, per tutti era l'Olandese, e questo bastava.

Si ostinava a lavorare quattro fasce di terra pietrosa. In alto sopra il paese. Non lo faceva più nessuno ormai. E questo aggiungeva un elemento di stranezza a quel nome che si portava dietro.

L''Olandeise, quellu du Cian de prie. Dicevano in paese. E la cosa suonava strana anche per chi lì era nato e cresciuto. Strana e ridicola. Che senso aveva continuare ad affannarsi su una terra ingrata che non rendeva nulla? Meglio scendere a valle, vivere in mezzo agli altri e non in alto, tra quei monti, come un eremita. A meno che uno non fosse fuori di testa o non avesse qualcosa da nascondere.

Su questo il paese si divideva. Solo i vecchi non si ponevano domande. Seduti in fronte all'ultimo sole sotto i platani della piazza parlavano fra loro di tutto e di niente. Guardavano venire la sera con occhi che avevano visto tutto. Guerra e miseria. Una fame antica e tenace e poi il tempo del consumo e dello spreco. Nulla poteva stupirli, neppure l'Olandese, quello du Cian de prie.

Come al solito, scese in paese che il giorno era finito da un pezzo. Ad una svolta della strada gli apparve il mare, lontano al termine della valle, al fondo della piana, dopo le luci gialle del casello dell'autostrada. Ritrasse subito lo sguardo. Troppe luci. Troppa gente. Troppo rumore. Troppe case. Una costa distrutta, perduta per sempre. Un altro mondo.

Parcheggiò la macchina nello spiazzo asfaltato sotto le vecchie case del borgo e salì per il vicolo stretto che portava alla piazzetta dove c'era l'unico caffè del paese. La sera era calda, senza un alito di vento. Attraversò la piazza lentamente, guardando davanti a sé.

Bona, Olandeise. Qualcuno lo salutò. Rispose con un cenno del capo.

Il bar era caldo e accogliente. Un tempo, forse, era stato una stalla o magari una cantina. Un soffitto a volta di mattoni ricordava quei tempi. In un angolo lo sfarfallio delle luci su un albero di plastica ricordavano che si era a Natale. Una ragazza in minigonna si mosse da dietro il banco.

Il solito, disse lui, senza guardarla.

Il vino era forte e aspro. Sapeva di salmastro e di vento, i sapori di quella terra.

Beveva lentamente, assorto nei suoi pensieri. Pensava a quel paese, a come era stato e a cosa era diventato. Un non luogo, senza più anima né storia. Quattro case di pietra meta in estate di turisti frettolosi e distratti. Eppure non era stato sempre così. Quelle antiche pietre avevano visto tempi migliori. Anni di miseria, certo, ma anche di vita.

Finì il suo vino. Poi andò al banco a pagare.

Attraversò la piazza e imboccò il vecchio vicolo che portava al parcheggio. Salì in macchina, mise in moto e riprese la strada di casa che si inerpicava con tornanti stretti lungo la montagna. Alla prima svolta, in alto, sopra il paese, gli apparve una luna bianchissima.

Appoggiato all'uscio di casa, l'Olandese fumava. Una leggera brezza saliva dal mare e increspava i rami degli ulivi. Pace in terra agli uomini di buona volontà, annunciava l'angelo nei presepi della sua infanzia. Una promessa o forse solo una speranza, a lenire la quotidiana fatica del vivere. Generazioni intere ci si erano aggrappate con fede.

In basso i latrati di un cane squarciavano il silenzio della valle. Buon Natale anche a te, pensò. Il mare lontano era una lastra d'ardesia striata d'argento. La notte era calda. Non sembrava neppure inverno.



Ho pensato a Natale

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Ho pensato a Natale
davanti a un girasole
passato appena è il solstizio
che è sempre nascita e inizio
e piena viene l’estate
dalle mani dorate.
Il mio Natale era inverno,
l’inverno dei ricordi
di quando ero bambino
e avevo mio padre vicino.
Natale dei soldatini di terracotta
dei libri di avventura
in quella casa oscura
della mia infanzia benedetta.
Oggi, senza padre, senza figli
e niente che assomigli
alla gioia che cercavo
ho pensato a Natale
davanti a un girasole
solitario, segreto,
specchio di un’altra vita
tra luce e buio fiorita.
Cosa è per me Natale?
È questo girasole.
È questo che mi ripeto.
È questo che il cuore vuole?


Giuseppe Conte

AUGURI!!!!!

L'ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri

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    Il martirio di Sant'Orsola

Che cosa successe alla pittura in Italia dopo la scomparsa del Merisi?Alle Gallerie d'Italia, a Milano, in mostra il suo ultimo capolavoro e le opere di molti artisti che preferirono, ai chiaroscuri, la luce fiamminga.

Chiara Gatti

Caravaggio e la scuola anti-Caravaggio

Con o senza Caravaggio. La storia dell'arte è andata avanti comunque. Il mito della dittatura imposta dalla sua personalità e dal suo talento è vero fino a un certo punto. Il genio cambiò le sorti della pittura nei luoghi dove visse, lavorò, incise nella coscienza dei contemporanei con opere pubbliche e con la sua presenza carismatica. Ovvero Napoli, Roma e l'Italia meridionale. Tutto il resto rimase immune. Sopratutto città con una grande tradizione e un carattere già forte. Come Genova o Milano. Sostiene questa tesi un po' spiazzante la mostra L'ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri.

Napoli, Genova e Milano a confronto. 1610- 1640 allestita alle Gallerie d'Italia di piazza Scala a Milano (fino all'8 aprile), a pochi passi dalla esposizione monografica Dentro Caravaggio studiata da Rossella Vodret per Palazzo Reale. Qui il curatore, Alessandro Morandotti, specialista del Seicento, gioca in controtendenza per dimostrare l'indipendenza di autori straordinari, proiettati in altre direzioni, influenzati da altre correnti, lontani dall'onda d'urto del Merisi. Impermeabili al suo potere.

Il percorso, perfetto e chiaro nella scansione degli scenari geografici, raccoglie oltre 50 opere e costruisce una triangolazione fra le aree che, da un lato, assorbirono il carico di una lezione epocale, dall'altro lato, la ignorarono. Senza rimpianti. Il confronto su cui si apre la scena, nella prima sala, conferma la teoria. L'ultimo capolavoro del maestro, il Martirio di sant'Orsola realizzato poco prima della sua morte, partì da Napoli e approdò a Genova nel 1610. Ma nessuno lo vide. O quasi.

    Vouet, Davide

Il principe Marco Antonio Doria, finanziere illuminato, sempre in viaggio verso sud per interessi economici e affettivi, comprava quadri dipinti all'ombra del Vesuvio, dai seguaci di Caravaggio: il Battistello (spicca un Battesimo di Cristo dalla pelle di bronzo) o lo spagnolo Jusepe de Ribera (uno splendido Sant'Andrea col bicipite tornito).

Quando accolse il Martirio nel suo palazzo, un blasonato amico genovese lo ammirò e, colpito dal soggetto, ne commissionò una versione al miglior pittore del momento in città, Bernardo Strozzi che, a cinque anni di distanza dal modello (era il 1615), lo interpretò, lo stravolse, ne diede una sua lettura dinamica e vivace.

Niente a che vedere con l'atmosfera livida di Caravaggio, impegnato a scolpire la morte nel volto e negli occhi della Santa, piegata su se stessa per sfilarsi la freccia dal costato. Strozzi puntò sull'abbandono estatico al martirio. Un abbraccio aperto verso il cielo, trascendente e mistico, svela il modo di dipingere, dai toni cangianti e luminosi, di una Genova che stava incubando la cultura di un barocco festoso, grazie alla scia di novità seminata dal passaggio di Pieter Paul Rubens.

Nel 1605 l'artista fiammingo di stanza in Italia, aveva infatti licenziato La Circoncisione, un dipinto monumentale per la Chiesa del Gesù accanto a Palazzo Ducale, accelerando così l'innesco dell'arte barocca. Genova, dopo Roma, fu il terreno dove si manifestò in modo più precoce.

La risposta alla narrazione contratta, alle tenebre dilaganti, alla brina delle luci di Caravaggio, prese corpo negli impasti briosi, nelle pennellate gagliarde, nella teatralità dei gesti, nei sentimenti espressi e non inghiottiti tragicamente dall'oscurità.

Due universi opposti. La Salomé di Strozzi dello Staatliche di Berlino sfoggia una delicata crudeltà nel viso pietoso della donna. Le Vergini dai capelli rossi di Giulio Cesare Procaccini, coi colli lunghi e flessuosi, sono eleganti come statue greche. Non sono umili popolane rubate ai drammi dei bassifondi.

Le due scuole di pensiero indirizzarono anche i gusti dei committenti, generando schieramenti all'interno delle stesse famiglie. I Doria ne sono l'esempio. Marco Antonio abbracciò il sistema dell'arte partenopeo e fortissimamente volle Caravaggio tutto per sé.

    Rubens, Ritratto di Carlo Doria

Al contrario, suo fratello Giovan Carlo, che coltivava rapporti in Lombardia, diede forma a una collezione vastissima. Immortalato da Rubens in un tempestoso ritratto a cavallo, di cui il critico Roberto Longhi scrisse «inconsapevole della furia elementare che lo circonda, sembra astrarsi in una meditazione non mondana», fu lui il fautore convinto del successo di Procaccini. Procaccini offrì la sponda a Strozzi nella ricerca di un linguaggio dalla natura calorosa, contagiandolo coi modi del suo manierismo emiliano, con l'abilità nello sfilacciare la pennellata e blandire le carni purpuree. L'estasi della Maddalena, prestato dalla National Gallery di Washington, è un dipinto di burro: lei è sensuale, i putti sono cremosi.

Anti-Caravaggio, votato a una pittura di tocco e di dettaglio, fresca e pizzicata, si radicò sul territorio dispensando un insegnamento che andò ben oltre la fiammata del Merisi. Sono venti i quadri di Procaccini in mostra. È il nome il più rappresentato, scelto per rafforzare il concetto che si legge in sottotraccia.

Non è vero che questi pittori non capirono Caravaggio. Scelsero semplicemente l'alternativa. E approdando liberi su un'altra riva dell'arte. Avevano nel cuore e nelle dita punti di riferimento diversi. Due apostoli di Rubens della Galleria Pallavicini di Roma, spiegano la sua capacità di eseguire le figure infervorate dei discepoli che, al contrario di Caravaggio, non passarono inosservate, come denuncia l'indagine psicologica dei personaggi nella spettacolare Ultima Cena di Procaccini.

    Procaccini, Ultima cena

Un Cristo con la croce di Anton van Dyck custodito a Palazzo Rosso, tutto anima e carne, porta sulla scena il nome di un altro maestro delle Fiandre che, negli anni Venti, infuocò con la sua presenza le vicende dell'arte nell'Italia settentrionale.

Approdati all'ultima sezione della mostra, il percorso chiude con un colpo di coda. Se Caravaggio non riuscì a incidere subito quando fece irruzione nel palazzo dei Doria l'eredità sedimentò ed emerse oltre trent'anni dopo.

Le grandi tele dai lumi lancinanti, la Flagellazione o la Cattura di Cristo, dell'olandese Matthias Stomer, furono acquistate da un altro genovese lungimirante che le scoprì in Sicilia e le portò in patria dove Gioacchino Assereto le intercettò e ne replicò i bagliori. Il tormento di Caravaggio aveva sedotto nuovi adepti.


La Repubblica – 15 dicembre 2017

Tu y todos. Il volto e il cuore del Che Guevara

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Alla Fabbrica del Vapore a Milano una grande mostra ripercorre la vita del Che. Due anni di lavoro per invitare alla lettura dei documenti e alla riflessione, per scoprire la persona dietro al personaggio.

Luciano del Sette

Tu y todos. Il volto e il cuore del Che Guevara

‘Che/ Che Guevarà/ Che Guevara vincerà’ scandivano in coro e in corteo i ragazzi italiani del Maggio ’68. Sette mesi prima, Ernesto Che Guevara aveva smesso per sempre di combattere. Sconfitto insieme ai suoi guerriglieri nella foresta boliviana, era stato assassinato il nove ottobre 1967 nel villaggio di La Higuera dai soldati governativi. Sapevano, i ragazzi dei cortei, di quella morte. Ma con il loro grido collettivo affermavano l’eternità delle idee del Che, alimentando la crescita di un mito.

L’aura leggendaria intorno al giovane medico argentino, figlio della buona borghesia e protagonista della rivoluzione cubana accanto a Fidel, avevano contribuito a disegnarla due libri pubblicati da Feltrinelli tra il ‘67 e il ’68: La guerra di Guerriglia e Diario in Bolivia. Due libri, e poi un’immagine che può essere considerata forse la più celebre nella storia della fotografia del Novecento.

Il quattro marzo 1960 la nave da carico francese Le Coubre, ancorata nel porto de L’Avana, esplode con il suo carico di armi. Oltre cento i morti. Il giorno successivo, sul palco della manifestazione popolare contro la strage ordinata dalla CIA, vicino al Che e a Fidel ci sono Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, in visita sull’isola.


La foto di Alberto Korda verrà tagliata dopo la morte di Guevara, ricavandone un ritratto che si diffonderà nel mondo intero. Quanti milioni di magliette, da lì in poi, sono state vendute e continueranno ad esserlo, è conto impossibile da fare. Certo è, al contrario, che il viso e lo sguardo, il nome stesso dell’uomo, stampati sul cotone, sono andati progressivamente perdendo di significato. Fino a diventare, orrendo e abusato sostantivo, un’icona pop.

Sul fronte opposto, chi Guevara lo ricorda bene, ha letto i suoi scritti e qualcuno tra le centinaia di saggi che lo riguardano, ne ha chiuso la figura nei ‘limiti’ del combattente, dell’uomo votato all’utopia, di un moderno Cristo delle genti.

Né il Che delle magliette, né, soltanto, il Che con il fucile. Questo potrebbe essere, davvero semplificando, l’assunto sul quale è stata costruita la mostra Che Guevara, tu y todos, in corso a Milano presso la Fabbrica del Vapore.

Scrive nell’introduzione al catalogo Daniele Zambelli, direttore artistico della mostra «È indicativo che non si riesca a normalizzarlo, a ‘digerirlo’ (il Che, ndr), se non con forzature più orientate a tranquillizzare noi stessi: romantico, utopista fanatico, movimentista ingenuo, sono tutte etichette che raccontano la nostra ignoranza più che qualcosa di esaustivo su di lui. Dopo due anni di lavoro, quello che mi rimane di questo dialogo ideale con Ernesto Che Guevara è l’aver scoperto un uomo intenso che ha messo tutto sé stesso al servizio di un’idea ‘stramba’, quella di un’umanità che ha come imperativo morale l’evolvere verso una società più giusta. Dietro al personaggio… ho scoperto la persona… L’obbiettivo della mostra non è alimentare l’epicità del personaggio. Meno che mai schierarsi in uno sterile dibattito/ giudizio etico morale sulle sue scelte di uomo pubblico e dell’uomo nella sua vita privata…. Ambisce piuttosto a stimolare… una riflessione sulla storia di un uomo certamente fuori dal comune, sulle sue domande, le sue urgenze e su un periodo storico cruciale per comprenderne l’attualità».


Tre le soglie fisiche da varcare nella dimensione di Che Guevara tu y todos. Le parole di Zambelli portano a dare spazio autonomo alla prima, oltre la quale il visitatore è chiamato a sfogliare le pagine virtuali di quattro grandi libri. Gli estremi temporali che li uniscono sono il quattordici giugno 1928 e il luglio 1956, date della nascita del Che e della sua adesione al movimento di Castro per la liberazione di Cuba dalla dittatura di Fulgencio Batista.

Grazie ai piccoli prodigi delle tecnologie digitali, sul bianco di ogni pagina si materializzano vecchie e preziose fotografie, pagine di quaderni, certificati, pagelle scolastiche, gli elenchi dei libri letti che Ernesto compilerà durante tutta la sua vita, diari di viaggio dattiloscritti, passaporti… Nel gioco dell’interazione, le mani possono ingrandire, spostare, accostare, confrontare, uno straordinario patrimonio d’archivio proveniente dal Centro de Estudios Che Guevara.

Negli elenchi dei libri si incontrano i romanzi di Emilio Salgari e Jules Verne, le opere di Sigmund Freud lette ad appena quattordici anni. In mezzo alle carte burocratiche compaiono l’esonero dal servizio militare a causa dell’asma bronchiale e il tesserino di medico.



L’immensa galleria delle foto racconta di una giovinezza già inquieta che cerca risposte dentro un viaggio argentino solitario in sella a una bici, e con Alberto Granado in America Latina sulle due ruote della Ponderosa. Attraversando Guatemala, Colombia, Venezuela, Cile, il futuro Che sente lo schiaffo bruciante della miseria, dei soprusi, delle guerre orchestrate da multinazionali come la United Fruits. Città del Messico, 1956, due foto ritraggono Guevara e Castro in carcere. Fidel, esiliato dopo il fallito assalto alla caserma Moncada, sta riorganizzando la lotta per rovesciare Batista. Città del Messico, 1956, lettera di Ernesto alla madre “… Un giovane leader cubano mi ha invitato ad aderire al suo movimento, un movimento che era di liberazione armata della sua terra, e io, naturalmente, ho accettato. Il mio futuro à legato alla rivoluzione cubana. O vinco con loro, o muoio lì”.



Che Guevara. Tu y todos.
Milano, Fabbrica del Vapore, Via Procaccini 4,
fino al primo aprile 2018.
Per informazioni mostracheguevara.it.



Essere bambini nel Medioevo

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Nell'ultimo libro di Chiara Frugoni la famiglia, la vita in città, il traffico e lo smaltimento dei rifiuti, il ruolo delle donne e soprattutto la condizione dei bambini a partire dai giochi. Un grande affresco della vita quotidiana nel medioevo.

Maria Bettetini

Essere bambini nel Medioevo


Un mondo alla rovescia: le donne più fortunate, sane e colte sono le monache. Le mogli, povere o ricche, serve o principesse, erano minacciate e spesso uccise dal parto, anche uno ogni due anni, tanto più numerosi quanto alta era la mortalità dei bambini. Il Medioevo sembra stupire, eppure ancora oggi così vivono e muoiono donne e bambini non in pochi casi isolati, e un secolo fa così andava in diverse zone d’Europa. Ora però quello che desideriamo è un’immersione nella quotidianità del Medioevo, per conoscere, per osservare, anche per fare paragoni sul modo di prendere la vita e la morte.

La nostra è una guida d’eccezione, molto nota anche ai lettori non specialisti per la grazia con cui da anni ci accompagna nelle case e nelle vite dei Medievali, dei grandi, come San Francesco, dei piccoli, come i bambini cui è dedicato questo ultimo suo lavoro. Vivere nel Medioevo ha infatti come sottotitolo Donne, uomini e soprattutto bambini.

Lo studio di fonti scritte e, soprattutto, iconografiche è sufficiente a renderci partecipi della vita delle famiglie, in particolare dei bambini, vissuti nei secoli che vanno dal quinto al quindicesimo, all’incirca. Ancora non sappiamo bene come definire cronologicamente questa Età di Mezzo, questi mille anni che spesso si vorrebbero eliminare dai programmi scolastici, che sembra siano stati solo una sgradevole interruzione tra lo splendore dell’Impero romano e la riscoperta dei classici.

Frugoni non usa mezzi termini: i bambini morivano, i genitori lo sapevano e a loro si affezionavano solo col tempo. Nessun sogno durante l’attesa, nessuna aspettativa per il futuro, la gravidanza di “dolce” aveva poco, anche in termini sociali. Se poi sopravvivevano, allora sì, a poco a poco diventavano amati, forse coccolati, però per breve tempo: le femmine erano subito messe a lavorare in casa, quasi servette del resto della famiglia, dei fratelli e del padre. I maschi, molto presto, forse a sette-otto anni, andavano a bottega o nei campi, niente scuola, niente vacanze, pochi giochi.



Eppure lunghe pagine sono dedicate dall’autrice proprio ai giochi dei bambini in epoca medievale, complici dettagliate miniature di bimbi che vanno in slitta su mascelle di cavalli e su altre ossa pattinano, che corrono sui trampoli, volano in altalena, catturano farfalle con l’ausilio di strani cappucci. Complice soprattutto un dipinto di Peter Brueghel del 1560, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Tardo, rispetto al Medioevo “tecnicamente” inteso, ma non discosto dalla realtà dei secoli precedenti: il quadro rappresenta circa ottanta giochi, usati da più di cento bambini.

Non c’è tenerezza, i bambini non sono belli, né paffuti, né rosei, hanno piuttosto l’aria goffa di chi non è ancora del tutto umano. A Frugoni interessa mostrare, tra le altre cose, la quasi assenza di oggetti costruiti apposta per il gioco: i cerchi sono presi dalle botti, i sassi non han bisogno altro che di essere raccolti, le trottole e le girandole potevano essere fatte anche dai bambini più grandi. Per nuotare si usava come salvagente una vescica di maiale gonfiata, per giocare al mercante una bilancia sottratta forse ai genitori.


Non erano capaci, i medievali, di costruire giocattoli? Non è certo questo il problema. Ma perché dedicare tempo e fatica a un “mercato”, come diremmo oggi, così instabile (come sapere se questi bambini sarebbero arrivati all’età del gioco) e, soprattutto, così poco durevole, considerati i pochi anni che intercorrevano tra lo svezzamento e l’impiego nel lavoro.

Oggi, le famiglie si modellano sull’arrivo, sulla crescita, sulla costruzione del futuro dei figli. Nel Medioevo, l’arrivo di un figlio era accettato solo come metafora della imponderabilità del volere divino: quale dei bambini sarebbe nato sano e poi sopravvissuto, avrebbe la madre superato infezioni e altre problematiche legate al parto, chissà.

Vita e morte non erano sentite come realtà lontane e antitetiche, necessariamente vivere comportava un continuo incontro col morire. Se qualcuno avesse inteso non pensarci, sarebbe stato richiamato alla realtà dalle danze della morte di cui abbiamo ancora superbi esempi a Pisa, a Palermo, nelle chiese alpine. Alle malattie si devono poi aggiungere le scellerate abitudini di costringere il neonato in fasciature strettissime, di nutrirlo spesso in maniera inadeguata, di farlo dormire nello stesso letto della balia, una pigrizia che spesso portava al maldestro soffocamento del piccolo.

Erano tristi e soli, per questo, i bambini? Non sembrerebbe, da come giocano, nuotano, si arrampicano, danzano nelle immagini a noi giunte. Erano abbandonati a se stessi, forse sì. Ma per poco, a breve un superiore, forse un parente, forse un padrone, avrebbe tolto definitivamente quelle ore d’aria di cui era bene godessero finché potevano.


E madri e padri? Curiosi, per noi, alcuni aspetti della vita familiare. Il letto era il centro della quotidianità, di giorno come di notte. A letto, oltre a svolgere le attività che ci sembrano consone al luogo, si mangiava, si riceveva, si dava ospitalità, era normale dormire almeno in tre o quattro per letto, anche negli alberghi. Non, o forse non solo, in vista di promiscuità che i novellieri hanno saputo ben raccontare, ma soprattutto in fuga dal freddo e dagli spifferi, vero e proprio incubo di case senza vetri, protette da legni e tendaggi.

Ecco perché le pitture, che pur rappresentano una coppia legittimamente nuda nel letto, non mancano di dipingere i due sposi con in testa un pesante cappello di lana. Si può capire come la vita tra le mura di un convento fosse ritenuta più calda e sicura. E, come si diceva in apertura, di maggior soddisfazione per la donna.

Chiara Frugoni paragona il ruolo delle regine, al grado massimo della scala sociale però sempre e solo in quanto mogli del re, a quello delle monache. Nel caso, per esempio, della moglie di Carlo il Calvo, abbiamo il frontespizio di una Bibbia, datata circa 870. Carlo, il re, è grande il doppio dei quattro personaggi che gli sono accanto, tra questi la moglie, non sappiamo nemmeno se la prima, Ermintrude, o la seconda, Richilde. Ben differente la pagina vergata da una innominata monachella di Essen, in cui chiede alla superiora Felhin di poter rimanere sveglia tutta la notte per continuare a studiare con la maestra Adalu. Fehlin lo concede, entrambe scrivono in perfetto latino. Siamo nel decimo secolo, ancora le università non hanno proibito l’istruzione alle donne, ancora i magistri non temono la rivalità delle magistrae.

Il Sole 24Ore – 3 dicembre 2017


Chiara Frugoni
Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini
il Mulino
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Politica e guerra. Le due facce del potere

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Pubblicati gli scritti sulla guerra del filosofo empirista scozzese. Tre saggi di cui uno racconta il suo viaggio in Europa e in Italia nel 1748. La politica e la guerra come le due facce del potere, una realtà che accomuna le monarchie assolute alle repubbliche democratiche. E dunque un testo ancora per molti versi attuale.


Giulio Giorello

Povera Italia oberata di tasse Così la commiserava Hume


«Credo che in Europa, da San Pietroburgo a Lisbona, da Bergen a Napoli, il mio nome venga menzionato solo in termini positivi per quanto riguarda la morale e l’ingegno. Tra gli inglesi, invece, neanche uno su cinquanta si dispiacerebbe se venisse a sapere che stasera mi sono rotto l’osso del collo». Forse è «perché sono scozzese», concludeva nel 1764 David Hume.

I suoi tre Scritti sulla guerra (1745-1748), ora in libreria per l’attenta cura di Spartaco Pupo (Mimesis), offrono un ritratto insolito di uno dei maggiori rappresentanti dell’empirismo, qui alle prese con questioni di tattica e strategia. Non viene meno l’acume filosofico: «Una guarnigione, più o meno debole, in un luogo scarsamente fortificato (…), non è che la sintesi di tutte le debolezze». E come «siamo inibiti dalla logica di ricercare più di una ragione necessaria alla spiegazione di qualsiasi fenomeno», così ci appare ovvio «considerare del tutto inutile una terza causa», cioè «un infido governatore», quando si tratta di capire come sia caduta Edimburgo nelle mani dei ribelli.

Il primo scritto, finora inedito in italiano, è la difesa che Hume ebbe a scrivere del «prevosto» (il capo degli amministratori) della capitale scozzese, l’amico Archibald Stewart. Nel 1745 il «Giovane Pretendente» — Carlo Edoardo Stuart, nipote del re Giacomo cacciato con la «Gloriosa Rivoluzione» del 1688-89 — era sbarcato sulla costa occidentale della Scozia e aveva formato un esercito di oltre 2.500 uomini, soprattutto highlander (ovvero guerrieri delle «terre alte», che Hume giudica «soldati integrali in tutto, tranne che nell’arte della disciplina»). Nell’autunno eccoli a Edimburgo e per il prevosto sarebbe irresponsabile tentare la resistenza! Il 30 novembre Stewart — nota Pupo — «viene tratto in arresto dai ribelli con l’accusa di aver resistito; quando la rivolta fallisce, è imprigionato per il motivo opposto: essersi arreso». Sarà prosciolto solo il 2 novembre 1747.


Agli inizi del 1746 Hume ha accettato di far parte di uno staff che dovrebbe accompagnare una spedizione, «inizialmente progettata contro il Canada» (allora possesso francese) e poi mutata in un’incursione sulle coste della Bretagna per distrarre l’esercito nemico impegnato nei Paesi Bassi. Il 24 luglio scrive che «dipendiamo ancora dai venti e dai ministri»! Un mese dopo l’ordine è di distruggere Lorient, la bretone «città dei porti». Nel resoconto che però non darà alle stampe (e che finora è rimasto anch’esso inedito in italiano) Hume narra della follia di dirigersi verso una «costa sconosciuta, marciare su un Paese sconosciuto e attaccare le città sconosciute della nazione più potente al mondo». Il 28 settembre «le truppe vennero tutte reimbarcate».

E il terzo scritto? «Si ricavano grandi vantaggi dal viaggiare, e niente è più utile a rimuovere i pregiudizi», dice Hume in una lettera al fratello John del 7 aprile 1748, mentre naviga lungo il Danubio. Fa parte di una missione che mira a rinsaldare le alleanze della Gran Bretagna. In Olanda Hume ha preso atto della disfatta dei «repubblicani», decisi alla pace con l’invasore francese «anche a prezzo della schiavitù e della sottomissione», e della rinascita del Paese sotto il principe di Orange, statolder (alla lettera, «luogotenente») dei Paesi Bassi; ha proseguito visitando città tedesche «protestanti» o «cattoliche» che siano; è giunto a Vienna, «un po’ piccola per essere una capitale». Con Trento è in Italia. A maggio visita Mantova e Cremona, i cui cittadini sono gravati da tasse «esorbitanti oltre ogni limite». Di Milano e di Torino si riserverà di raccontare a voce; del resto, «non ho neanche disfatto le mie valige». Ad Aquisgrana è stata firmata la pace (18 ottobre).

   
Pupo ricorda che per Hume il «governo civile segue cronologicamente oltre che logicamente al governo militare anche nella riposizione dell’autorità in una sola persona». Lo Hume monarchico è anche pronto a riconoscere che la guerra può venir giustificata come mezzo per impedire a uno Stato di assumere i caratteri di una monarchia universale. Scriverà nel 1752 che lo scontro armato è scoppiato quando una potenza ha tenuto «più all’onore della supremazia sugli altri che alle speranze di autorità», e che tale conflitto può venir evitato se tale potenza deve fare i conti con qualche «confederazione, spesso composta dai suoi stessi ex amici e alleati».

Pupo precisa «che Hume non cerca pretestuosamente di promuovere il dominio dell’Inghilterra sul mondo, come pure è stato insinuato da qualche suo interprete». Lo prova il suo atteggiamento nei confronti delle colonie nordamericane, la cui libertà gli appare «inevitabile» e «desiderabile». La Dichiarazione di indipendenza di quelli che diverranno gli Stati Uniti d’America verrà adottata il 4 luglio 1776; Hume si spegnerà il 4 agosto. Aveva scritto già nel Trattato della natura umana che «l’accampamento è il vero padre della città». Che avrebbe detto, però, del ruolo di guida sotto il profilo bellico rivendicato negli ultimi due secoli dai presidenti di quella «confederazione»? E di ogni pretesa del «destino manifesto» a imporre un ordine, seppur «democratico», a tutte le altre potenze di questo nostro «imperfetto» mondo?



Il Corriere della sera – 17 dicembre 2017

Chiesa cattolica e Massoneria. L'ossessione diabolica

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Un articolo interessante sulla Massoneria, documentato e rispettoso del dato storico, privo di quell'ossessione del complotto, con cui solitamente viene trattato l'argomento. Va detto, comunque, che la condanna papale del 1738 si comprende solo nel quadro della lotta aperta tra hannoveriani e stuardisti per la corona inglese. Non a caso il pretendente al trono, Giacomo Stuart, cattolico, viveva in esilio in Italia sotto la protezione del papa. In questo contesto l'espansione rapidissima della Massoneria al di fuori delle isole britanniche venne valutata dalla Chiesa come un tentativo dell'Inghilterra protestante di destabilizzare i sovrani cattolici. Nell'Ottocento, dopo la rivoluzione francese e l'attacco repubblicano a tutti i troni (cattolici e protestanti), gli ideatori del complotto massonico non saranno più i protestanti inglesi ma i “perfidi giudei”. La Massoneria diventa la "Sinagoga di Satana". Una teoria che con gli adattamenti del caso è ancora oggi in circolazione.

Paolo Mieli

Lo spettro massonico


Perfino Gioacchino Belli, che pure fu un implacabile fustigatore del malcostume nello Stato pontificio, ebbe sentimenti non simpatizzanti nei confronti della massoneria e condivise al fondo l’ostilità della Chiesa ai liberi muratori. Nel 1838 Belli scrisse un sonetto, Li rivoltosi , in cui lasciò trasparire la propria diffidenza per i massoni: «Chiameli allibberàli o fframmasoni/ O ccarbonari, è sempre una pappina/ È sempre canaijaccia ggiacubbina/ Da levàssela for de li cojjoni». Segno che il pregiudizio antimassonico si diffuse nell’Ottocento anche in ambienti che non possono essere considerati di stretta osservanza cattolica.

Nel saggio Dalla condanna al dialogo: tre secoli di relazioni tra Chiesa e massoneria — che uscirà nel libro, edito dal Mulino, curato da Giorgio Fabre e Karen Venturini, La Chiesa tra restaurazione e modernità (1815-2015) — Fulvio Conti ricostruisce le condanne della Chiesa a partire dalla lettera apostolica In eminenti (1738), con la quale, esattamente un secolo prima del sonetto del Belli, papa Clemente XII stabiliva il divieto, pena la scomunica, di affiliazione alla massoneria e ad altre associazioni dello stesso tipo «contrarie alla sicurezza dei regni» nonché — a suo dire — in grado di causare «mali gravissimi non solo alla tranquillità degli Stati, ma anche alla spirituale salvezza delle anime».



La massoneria aveva all’epoca 21 anni. Il suo atto di nascita, ricorda Conti, viene infatti comunemente individuato nella decisione adottata da quattro logge inglesi, il 24 giugno 1717, di dar vita alla Grand Lodge of London. Sei anni dopo la «loggia madre» si dotò di un corpo di norme statutarie, Constitutions of the Free-Masons , codificate dal reverendo James Anderson, pastore della Chiesa presbiteriana scozzese.

La Chiesa cattolica intuì immediatamente che quello dei «Liberi muratori» era un fenomeno con grandi potenzialità di proselitismo e si sentì minacciata. Nel 1739, l’anno successivo a quello della succitata lettera del Papa, un editto del cardinale Giuseppe Firrao, segretario dello Stato pontificio, ribadì il divieto per i fedeli di affiliarsi a quelle «perniciosissime aggregazioni», minacciando la confisca dei beni e addirittura la pena di morte per coloro che non avessero obbedito all’ingiunzione del pontefice. Proprio così: la pena di morte. Punizioni che per di più avrebbero dovuto essere inflitte, secondo l’editto, «irrimediabilmente e senza speranza di grazia».

Ma queste disposizioni caddero sostanzialmente nel vuoto. E, anzi, durante la guerra di Successione austriaca (il conflitto che tra il 1740 e il 1748 consacrò, su versanti opposti, Maria Teresa d’Asburgo e Federico II di Prussia) «ideali e modello associativo della libera muratoria», scrive Conti, «conobbero una grande espansione grazie alla nascita di logge militari, che ebbero una particolare diffusione nel mondo germanico».



Così il successore di papa Clemente, Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum Pontificum nel 1751 si sentì in dovere di aggiungere di suo uno specifico invito a tutti i sovrani e ai governi a che bandissero la massoneria. Tra i più lesti ad accogliere l’esortazione papale, in quello stesso anno, furono Carlo di Borbone a Napoli e Ferdinando VI a Madrid. Nel contempo però — a bilanciamento dell’iniziativa pontificia — si ebbe una certa sovrapposizione tra le idee della massoneria e quelle dell’Illuminismo.

Poi la Rivoluzione americana del 1776 presentò, secondo Conti, «la realizzazione empirica, nell’elaborazione costituzionale e nella pratica di governo, dei valori espressi dalla cultura dell’Illuminismo». E della massoneria. La Gran loggia d’Austria giunse a proclamare che «ogni loggia era una democrazia», mentre la massoneria danese negli anni Sessanta affermava che la «libertà repubblicana» era un bene oltremodo prezioso. Nel 1779 la loggia parigina Noef Soeurs, a cui era affiliato Voltaire assieme a molti altri intellettuali, accolse con grandi elogi Benjamin Franklin e presentò i propri appartenenti come «cittadini della democrazia massonica».

E a ridosso della Rivoluzione francese — come ha individuato Giuseppe Giarrizzo in Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento (Marsilio) — non pochi segmenti europei dell’universo liberomuratorio divennero vere e proprie «strutture terroristiche» dirette a favorire la conquista francese dei Paesi confinanti, nonché l’avvento di governi repubblicano-rivoluzionari in vari Stati italiani e tedeschi, in Svizzera e in Austria.

È in questo contesto che viene pubblicato, nel 1797, il celeberrimo libro del gesuita Augustin Barruel considerato primogenito di ogni teoria «cospirazionista»: Memorie per una storia del giacobinismo . In esso viene esposta la tesi del complotto massonico che sarebbe stato all’origine della Rivoluzione francese. Tesi che nella seconda metà del Novecento sarebbe stata oggetto di un importante studio di Reinhart Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese (Mulino) e per certi versi anche della Critica della Rivoluzione francese (Laterza) di François Furet.

Conti ritiene che queste ipotesi interpretative siano suggestive, ma debbano essere contestualizzate e fortemente circoscritte nel tempo e nello spazio. Senza indulgere «alla costruzione di simili teoremi, i cui passaggi risultano talora difficilmente dimostrabili», l’influenza della massoneria sulla Rivoluzione francese «appare tuttavia indubbia… sia dal punto di vista ideologico (basti pensare all’apporto dato dalle logge alla diffusione dell’idea egualitaria e alla sperimentazione di forme di rappresentanza democratica), sia sotto il profilo organizzativo, con molte figure del mondo liberomuratorio che rivestirono contemporaneamente ruoli direttivi durante l’esperienza rivoluzionaria o nel giacobinismo europeo».

Successivamente — ha notato Franco Della Peruta in un saggio che compare nel volume, curato da Aldo Alessandro Mola, La massoneria nella storia d’Italia (Atanòr) — tutti quelli che raccolsero le bandiere della rivoluzione fecero propri metodi organizzativi e simboli massonici. In toto o quasi, ha scritto Giarrizzo. Ma, secondo Della Peruta, i rivoluzionari si differenziavano dalla massoneria per la pratica attivistica e cospiratoria. Sotto questo aspetto «il terreno sul quale germinarono non è tanto quello delle logge dei Franchi muratori quanto piuttosto quello delle congiure repubblicane del 1794-95, delle cospirazioni patriottico-unitarie del 1798-99, delle esperienze giacobine».


Il periodo napoleonico, prosegue Conti, vide la massoneria divenire «un fenomeno à la page», svuotata del messaggio cosmopolita delle origini e «impegnata apertamente a sostenere i disegni espansionistici dell’impero». Napoleone la utilizzò come strumento di governo e «nelle terre cadute sotto il suo dominio favorì la diffusione delle logge, che si riempirono di militari, di burocrati e di funzionari del regime».

Nel 1805 fu fondato a Milano un Grande Oriente d’Italia che «sancì l’aggregazione delle numerose logge sotto un unico centro organizzativo nazionale». Il ruolo di gran maestro, «ad eloquente testimonianza degli stretti legami esistenti fra potere politico e cariche massoniche», fu affidato a Eugenio di Beauharnais, appena insediato come viceré del Regno d’Italia. Qualche tempo dopo si costituì un Grande Oriente napoletano che, fra il 1806 e il 1808, fu guidato dal re di Napoli Giuseppe Bonaparte e, in seguito, da Gioacchino Murat. Conti accredita le stime secondo cui «nei territori italiani a egemonia francese si contarono circa ventimila affiliati, in larga parte funzionari civili e militari», che frequentarono le logge assieme ai rappresentanti dei ceti emergenti dei commerci, delle imprese e delle professioni.

E riprende le tesi di Gian Mario Cazzaniga — curatore di La massoneria. Storia d’Italia, Annali, 21 (Einaudi) — secondo cui l’adesione alle logge fu per molti un fenomeno di convenienza ma, ad un tempo, esse costituirono un veicolo di circolazione delle idee liberali e un «laboratorio dell’unità nazionale».

È sempre Cazzaniga a mettere in evidenza la «doppia realtà» della massoneria milanese e di quella napoletana: «Da una parte una adesione di massa, superficiale e provvisoria, a liturgie più dinastiche che muratorie, dall’altra una più ristretta e convinta rete liberale di spirito repubblicano, figlia spirituale degli Idéologues e degli Illuminati di Baviera, non senza presenze dell’esoterismo cristiano, che prepara ed anticipa le battaglie per le riforme costituzionali e per l’indipendenza nazionale».

Ma, come documenta Aldo Alessandro Mola in Storia della massoneria italiana (Bompiani), dopo la sconfitta del Bonaparte e in epoca di Restaurazione la Libera muratoria cedette gradualmente il passo ad altre associazioni segrete. Rimase, per così dire, sullo sfondo.


La massoneria fu sostanzialmente inerte tra il 1830 e il 1870. Inoltre — mette in chiaro l’autore — «non ebbe alcun coinvolgimento diretto nelle prime due guerre di indipendenza e, più in generale, non prese parte alcuna alla cospirazione patriottica e dei moti risorgimentali». Di qui, il paradosso. Mentre «la massoneria risultava di fatto pressoché annientata, la Chiesa continuava a vedere in essa l’oscura ispiratrice di tutti i suoi principali nemici: il liberalismo, la democrazia repubblicana, il movimento patriottico che si batteva per l’Italia unita con Roma capitale, il laicismo positivista e materialista».

Di questa bizzarria si accorse Gaetano Salvemini, che nel febbraio 1914 così scrisse ad Alessandro Luzio: «La leggenda che il Risorgimento italiano sia stato opera della massoneria è stata creata dai clericali, i quali, incapaci di rendersi conto di questo fenomeno, lo attribuirono al diavolo» (la lettera è riportata in un libro dello stesso Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano , edito da Zanichelli).

Ma Pio IX e il suo successore Leone XIII continuarono a osteggiare senza tregua i Liberi muratori. Lo stesso fecero i Papi successivi. In Francia dal 1884 nacquero associazioni e giornali (cattolici) antimassonici. Nel 1887 «La Civiltà Cattolica» annunciò la formazione di una Lega per combattere la massoneria. Che poi confluì nell’Unione antimassonica, la quale nel 1896 tenne un convegno a Trento, città (all’epoca austriaca) che nel 1545 aveva ospitato il Concilio antiluterano.

Adesso — anche per effetto dell’offensiva cattolica — il clima era cambiato e, dopo l’avvento al potere della Sinistra (1876), la massoneria ebbe ben cinque presidenti del Consiglio: Depretis, Crispi, Zanardelli, Fortis e Boselli. Oltreché gli amministratori di alcune importanti città, primo tra tutti il sindaco di Roma (tra il 1907 e il 1913) Ernesto Nathan. All’avvento del fascismo, per avviare il percorso che avrebbe portato nel 1929 ai Patti lateranensi la Chiesa di Pio XI pretese e ottenne da Mussolini la messa al bando delle «associazioni segrete». E impose a don Sturzo le dimissioni dalla segreteria del Partito popolare, accusandolo di favorire, con il suo antifascismo, proprio la massoneria. Cosa che provocò una risentita lettera del sacerdote l’8 luglio del 1923.

E neanche dopo la caduta del fascismo, la fine della guerra e il ripristino in Italia della democrazia le cose cambiarono. Né con Pio XII, né con Giovanni XXIII. Fu solo all’epoca di Paolo VI che si allentò la presa. Nel 1974 una lettera del prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede, il cardinale croato Franjo Seper, all’arcivescovo di Filadelfia, pur ribadendo il veto ai fedeli di iscriversi ad associazioni massoniche, affermava che la scomunica doveva applicarsi soltanto a «quei cattolici iscritti ad associazioni che veramente cospirano contro la Chiesa».



Il gesuita Giovanni Caprile fece notare che implicitamente si ammetteva l’esistenza di «associazioni massoniche che nulla hanno di cospiratorio contro la Chiesa e contro la fede». Le cose si fermarono lì. Ma quando nel 1978 morì Paolo VI, la «Rivista massonica» pubblicò un corsivo anonimo in cui si leggeva: «È la prima volta — nella storia della massoneria moderna — che muore il capo della più grande religione occidentale, non in istato di ostilità coi massoni».

Nel 1980 la Conferenza episcopale tedesca, dopo sei anni di incontri con esponenti delle Grandi logge di Germania, dava alle stampe una «Dichiarazione circa l’appartenenza di cattolici alla massoneria» in cui si accusava la Libera muratoria di non essere «mutata nella sua essenza» e si dichiarava che l’adesione ad essa metteva «in questione i fondamenti dell’esistenza cristiana».

Successivamente tutte le principali personalità della Chiesa, fino a Joseph Ratzinger, hanno ribadito — pur senza particolare enfasi — la condanna della massoneria. Finché, a sorpresa (quantomeno per i toni), nel febbraio 2016 è comparso sul «Sole 24 Ore» un articolo del cardinale Gianfranco Ravasi dal titolo Cari fratelli massoni che ha riproposto le aperture della stagione di Paolo VI. Ma i tempi di una deposizione delle armi che possa essere considerata definitiva appaiono ancora lontani.


Il Corriere della sera – 27 dicembre 2017

Iosif Brodskij. Vita da poeta

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Un'esistenza lacerata: la fuga dal Kgb, l'esilio a New York e l'Italia, l'odio per il regime e l'amore per le donne (e per il whisky). Iosif Brodskij sembrava un "huligan", un maledetto, ma coltivava un'idea classica della poesia.

Silvia Ronchey

Vita da poeta

Quando, all'inizio degli anni Ottanta, Iosif Brodskij cominciò a frequentare intensamente Roma, prima grazie agli inviti al festival di poesia che all'epoca organizzava Franco Cordelli, poi come resident fellow all'American Academy, la persona che era, o il personaggio che interpretava, apparivano molto diversi dall'immagine di Poet Laureate che in seguito si sarebbe affermata nella percezione dei molti e appassionati lettori e nella stessa costruzione di sé del massimo poeta russo del suo tempo.

Brodskij era un huligan, nello specifico senso letterario che la parola ha nella lingua russa e che è stato rivendicato da più d'uno dei suoi più o meno maledetti poeti: un teppista. Il suo abbigliamento era trasandato fino alla provocazione, la camicia sempre fuori dai jeans sformati dalle cui tasche, pur perennemente indigenti, estraeva banconote appallottolate in disordine insieme a foglietti di appunti e materiali vari. Erano sempre spettinati i capelli rossi sul lentigginoso viso askenazita che in seguito, nella seconda e più composta identità assunta dopo il Nobel ottenuto 30 anni fa, nell' 87, avrebbe preso ad assomigliare nei tratti, come riferiva lui stesso con orgoglio, a quello di un compassato attore britannico, Michael Caine, ma che all'epoca era sempre un po' gonfio, per via della vita disordinata, della salute trascurata, dell'amore per il whisky.


Nel Village di New York, dove da poco abitava, aveva imparato uno slang americano che unito alla cantilena della parlata russa, esercitata alla musicalità dalla pratica ancestrale e quasi liturgica che coltivava nella recitazione delle sue poesie, venata dalla erre moscia, incalzata dall'affannosità di tutto quanto diceva o faceva, risultava a molti italiani, che lo ammettessero o no, solo in parte comprensibile.

Che fosse o no influenzato da un classico della poesia della sua terra, Le confessioni di un teppista (in russo huligan) di Sergéj Esenin, quell'uomo di quarant'anni, già da otto costretto all'espatrio dalla Madre Russia, si compiaceva di un'immagine di sé trasgressiva, provocatoria, cinica. "Io porto la mia testa spettinata /come un lume a petrolio sulle spalle", cantava Esenin, alludendo alla lanterna di Diogene, il cinico errante. "Mi piace che mi grandini contro / la fitta sassaiola dell'ingiuria".

A Brodskij l'ingiuria non era stata risparmiata in patria, dove alla brillantezza e alla fama precoce si era affiancata fin dall'inizio la persecuzione del regime: accusato di "parassitismo", aveva sperimentato, in misura più o meno acuta, quasi tutte le nequizie riservate ai dissidenti: le ingerenze del Kgb, le reclusioni negli ospedali psichiatrici, l'esilio, la condanna ai lavori forzati. Anche se quest'ultima gli aveva permesso, come amava ripetere non senza civetteria, di perfezionare con agio il suo inglese, in ogni caso in quel divoratore di libri, sensibile come pochi alla bellezza letteraria, all'intelligenza, al pensiero, la formazione accademica, come d'altronde già quella scolastica, era rimasta incompleta.

Nonostante i grandi incontri che lo avevano formato, in Russia anzitutto con Anna Achmatova, appena fuoriuscito con l'amato Auden e poi con gli altri poeti anglosassoni, quel cittadino di Leningrado cresciuto nel sogno estetico di Pietro il Grande era assetato di cultura classica.


A Roma era venuto a cercarla. Dall'alto del Gianicolo in cui viveva, ospite dell'American Academy, in un villino circondato dai pini e perennemente affidato al caos tranne che per il tavolo da studio, vedeva Roma, con la sua distesa di cupole, come una lupa o un'altra grande fiera femmina distesa a offrire le sue tante mammelle. Brodskij vi si allattava: di cultura, di arte, di bellezza, di usi e costumi europei che a lui, "barbaro scita" come ridendo si proclamava, apparivano esotici e a volte detestabili. Ma i gesti di irrisione e trasgressione che spesso compiva ai danni di quello che a torto o a ragione identificava con l'establishment borghese del vecchio mondo erano in realtà dettati da timidezza e soggezione. Davanti alle opere d'arte lo sguardo scintillante di sfida si disarmava in uno stupore infantile.

Cercava la storia, cercava la bellezza, ma soprattutto cercava un viso di donna. Vagando tra i dipinti della Galleria Borghese o di Palazzo Corsini o dei Musei Vaticani andava in cerca, diceva, di una certa Madonna di Perugino i cui tratti in un qualche tempo, in un qualche libro, gli erano parsi identici a quelli della moglie che aveva lasciato in Urss insieme al figlio bambino. Era soggiogato da quella ricerca, che non avveniva solo nei musei e non riguardava solo le figure dipinte. Della natura femminile della Città eterna lo attraevano e interessavano anche le espressioni viventi. Ne traeva diversi nutrimenti. A qualcuna chiedeva di fargli da guida nel mondo intricato della cultura antica.

La prima raccolta italiana delle sue poesie era apparsa nello Specchio Mondadori nel '79, tradotta da Giovanni Buttafava, che era anche, a Roma, il suo migliore amico. Era stato lui a procurargli in seguito una collaborazione all'Espresso, articoli pubblicati a cadenza regolare che dedicava per lo più ai grandi autori della letteratura occidentale che via via andava scoprendo e conoscendo.

La sua curiosità era illimitata quanto concreta e fattiva. Non cercava erudizione, ma alimento alla scrittura critica oltre che alla poesia. Quando aveva chiesto di leggere le poesie di Giovan Battista Marino, un autore che sospettava essere l'equivalente poetico dell'arte barocca che amava contemplare nelle sue passeggiate, e gli era stata consegnata la costosa copia da microfilm dell'opera omnia ottenuta dalla Biblioteca Vaticana, era scoppiato a ridere. Non sapeva che farsene di un'edizione critica, voleva leggere due o al massimo tre poesie.

In ogni caso, nonostante la sua prodigiosa capacità di comprensione della struttura fonetica delle lingue, il ritmo dell'italiano di Marino gli era apparso ostico, se non decisamente fastidioso. Diverso il caso del prediletto Kavafis, che cercava di leggere in greco, o degli autori bizantini, ai quali si era appassionato, particolarmente i memorialisti di corte, come Michele Psello, che aveva letto per intero in traduzione inglese. Il transfert fra la burocrazia bizantina e la nomenklatura sovietica si sarebbe affacciato in un saggio apparso pochi anni dopo, Fuga da Bisanzio, ma anche, qua e là, in vari altri suoi scritti.


Dalle perlustrazioni incessanti, e spesso defatiganti per il suo cuore malato, della triplice anima della città, antica, rinascimentale e barocca, ad affascinarlo di più era forse il passato classico, in cui si faceva condurre con fiducia e meticolosità e dalla cui suggestione figurativa era alimentata l'attrazione per i poeti della Roma antica.

Virgilio, per cominciare, poi Orazio, gli elegiaci, soprattutto Properzio. Ma era Ovidio, amava dire, l'autore del miglior verso di tutta la storia della poesia, oltreché sintesi ultima del problema dell'amore: Nec sine te nec tecum vivere possum, citava in latino, scandendo esattamente la metrica. "Non posso vivere né con te né senza di te".

Non era chiaro, né per Ovidio né per Brodskij, se quel tu designasse effettivamente una donna, se la questione riguardasse l'amore umano o non invece quell'eros, tormentoso, distruttivo, autodistruttivo, che lega il poeta alla sua arte, così difficilmente conciliabile con la vita.

Quando la morte ha còlto Brosdkij, precocemente, come lui stesso si aspettava, di notte e istantaneamente, come da sempre si augurava, ha trovato sul suo tavolo da studio un volume aperto dell'Antologia Palatina.


La repubblica – 19 novembre 2017

Parole nel temporale. Poesie inedite di Josif Brodskij

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Parole nel temporale. Tre poesie inedite di Josif Brodskij

PIOGGIA D'AGOSTO

In pieno giorno comincia d'un tratto a farsi buio
e un paltò di cumuli si trasforma in pelliccia
dalle spalle incorporee. Sotto la sferza della pioggia
un'acacia si fa troppo chiassosa.
In questo crepitio si percepisce non ago e filo, ma
certamente qualcosa di inerente al cucito, forse una Singer,
mischiato con un annaffiatoio arrugginito: e un geranio
denuda vertebre e cervice di una cucitrice.
Com'è familiare il fruscio della pioggia! Come rammenda
bene gli strappi nel logoro paesaggio, che sia pozzanghera,
pascolo, radura in mezzo al bosco, dintorni di un villaggio
- affinché non sfuggano alla vista
per via della distanza. Pioggia! Servomotore della miopia,
cronista medioevale senza cella, che mangia di magro avidamente,
terreno argilloso costellato, come una penna senza manoscritto,
dai tratti cuneiformi e dal vaiolo.
Voltare le spalle alla finestra e scorgere il pastrano con spalline
sulla gruccia marrone, la volpe argentata gettata sul divano,
la frangia della tovaglia gialla che è resuscitata, vinta l
a legge gravitazionale,
e riveste il tavolo da pranzo dove a tarda sera noi tre
sediamo a cena, e tu con voce sonnolenta, la stessa
mia, solo un po' smorzata dall'abisso degli anni,
dici: « Ma che temporale » .

Autunno 1988



IN MEMORIA DI MIO PADRE: AUSTRALIA

Sei tornato in vita, l'ho sognato, e sei partito
per l'Australia. Con una tripla eco la voce
ripeteva: " Mi senti?", lagnandosi del clima
e della carta da parati: l'alloggio non lo affittano,
peccato non sia in centro, ma è vicino all'oceano,
un terzo piano senza l'ascensore, però col bagno,
le gambe sono gonfie, " Ma ho dimenticato le ciabatte":
ricezione chiara, il tono indaffarato;
e all'improvviso nella cornetta un ululato: " Adelaide,
Adelaide!", crepitio, sbatacchio come d'imposta
contro una parete, sul punto di sganciarsi dai suoi cardini.
Eppure è meglio questo della cenere soffice
del crematorio nel barattolo, del suo pegno;
meglio questi frammenti di voce, di monologo,
e i tentativi di fingerti asociale, questa volta,
la prima da quando ti sei mutato in fumo.

1989



UNA CARTOLINA

Il paese è così popolato che i poligami e i pluriomicidi
se la passano liscia, e dei disastri aerei
si parla ( di solito nel tg della sera) solo quando accadono
nelle zone boschive — le difficoltà d'accesso
si fanno più gravi se permeate da sensibilità ambientalista.
I teatri sono gremiti, sale e palcoscenici.
Un'aria non è mai cantata da un unico tenore:
ne impiegano sei alla volta, o uno grasso al pari di sei.
Lo stesso vale per gli enti pubblici, con gli uffici illuminati
tutta notte; si fanno i turni, come in fabbrica,
ostaggi del censimento. Tutto è pandemico.
Ciò che è amato da uno lo amano in molti,
che sia un atleta, un profumo, o la bouillabaisse.
Quindi, qualsiasi cosa tu dica o faccia è patriottica.
Anche la natura sembra aver preso nota del comune denominatore,
e quando piove, il che è raro, le nubi si attardano più a lungo
non sugli stadi dell'esercito e della marina, ma sul cimitero.

1994

Ritornare da Auschwitz. La tragedia degli ebrei italiani

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Un libro racconta le peregrinazioni degli ebrei superstiti che rientrarono in italia dai campi di sterminio, tra solidarietà e indifferenza. Molti emigreranno clandestinamente in Palestina.

Mario Toscano

Ritornare da Auschwitz. La tragedia degli ebrei italiani


Al termine della Seconda guerra mondiale, circa un milione di cittadini italiani attendeva con ansia di rientrare in patria. Erano prigionieri di guerra catturati dagli eserciti alleati tra il 1940 e il 1943, militari fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, lavoratori coatti, deportati politici e razziali. Un Paese devastato dalla guerra e dalla sconfitta e una società alle prese con la propria ricostruzione politica, materiale e morale, dovevano impegnarsi nel favorire il ritorno e il reinserimento di una massa di persone provata da esperienze drammatiche e da terribili sofferenze.

Alla scarsezza delle risorse disponibili, si aggiungevano le conseguenze della condizione di Paese sconfitto: l’Italia, infatti, non poteva organizzare direttamente missioni di soccorso, in particolare per i deportati, ma limitarsi all’assistenza dei reduci nel momento in cui rientravano nei confini nazionali. In questo drammatico contesto, particolarmente difficile era la situazione dei pochi ebrei sopravvissuti alla deportazione (meno di 700 su oltre 8.000 deportati). Perseguitati e deportati in quanto ebrei, non tornavano né in quanto italiani - formalmente non rientravano nella categoria dei reduci - né in quanto ebrei - non essendo prevista per essi nessuna iniziativa specifica. Le delicate e complesse problematiche di questa vicenda sono affrontate con rigore e sensibilità in un volume di Elisa Guida (La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah, Viella, 2017), che integra i dati forniti dalla documentazione archivistica con le testimonianze individuali, illuminando gli aspetti istituzionali della questione con le suggestioni, le immagini e gli stimoli offerti dalle esperienze degli scampati allo sterminio.


Ampia attenzione è dedicata alla lunga marcia verso casa dei sopravvissuti al lager di Auschwitz, segnata da storie drammatiche, tra cui spicca la dettagliata ricostruzione di quella del sedicenne Piero Terracina, che offre una vivace testimonianza sul ruolo potenziale delle istituzioni e dei loro rappresentanti nel contribuire a lenire le ferite inferte dalla deportazione. Ricoverato nel sanatorio di Soci, sul mar Nero, appresa casualmente la notizia della presenza di un rappresentante diplomatico italiano a Mosca, il giovane avviò una corrispondenza - rinvenuta nell’archivio del ministero degli Esteri - alla quale l’ambasciatore Pietro Quaroni rispose con parole di conforto ed esortazione, utili a mitigare il clima incerto e difficile che dominava l’attesa del ritorno.

Attraverso lo studio delle vicende individuali, Guida illustra con cura le condizioni (la salute, l’età, la solidarietà) che potevano favorire il difficile ritorno a casa, e soprattutto indaga sul suo significato di viaggio interiore, di parentesi tra due fasi drammatiche dell’esistenza, nel richiamo frequente al racconto paradigmatico di Primo Levi.

Una tregua tra la guerra da cui si usciva e quella che si profilava per continuare a vivere, in cui esplodeva il contrasto tra il mondo esterno e il mondo interiore dei sopravvissuti; affioravano il timore e le angosce di fronte alla prospettiva di rientrare in case vuote di persone e di affetti e il divario incolmabile tra il sogno e la realtà del rimpatrio, esplicitato da tanti episodi che testimoniavano il disinteresse diffuso per i tormenti patiti, come documenta la delusione di un sopravvissuto al momento del rientro in patria: «che c’eravamo messi in testa?». Una domanda drammatica che non può essere lenita, alla quale questo volume fornisce un inquadramento storicamente adeguato e umanamente partecipe.


La Stampa – 28 dicembre 2017



Medioevo al femminile. Santa Caterina da Siena.

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Medioevo al femminile. André Vauchez fa il punto, per Laterza, sulla tormentata personalità della mistica senese: autrice di un gigantesco epistolario

Francesco Stella

Santa Caterina. Lettere ed estasi, dossier aperto

Uno dei luoghi comuni più triti e infondati sul Medioevo è che alle donne fosse impossibile studiare, scrivere, incidere sulla vita pubblica. A differenza del millennio greco-romano, nel quale le personalità intellettuali femminili si contano sulle dita di una mano, quello medievale ha avuto invece poetesse, epistolografe, musiciste, viaggiatrici, drammaturghe, teologhe, autrici di trattati medici e naturalistici, mistiche, oltre che donne di potere smisurato e di fortissima personalità politica e religiosa (Matilde di Canossa, Eleonora d’Aquitania e tante altre) inimmaginabili nel mondo antico.

Come ha ricordato Ludovico Gatto nel suo Le grandi donne del Medioevo, «la storiografia più recente ha bandito vieti stereotipi per affrontare la questione delle donne con più obiettività», riferendosi ai rilanci della questione femminile medievale proposti da Duby, Pernoud, Skinner, Perrot, Bertini, Lazzari e altri/e; ma nel campo della letteratura mediolatina sono fiorite iniziative spesso poco conosciute anche alla medievistica professionale, come l’archivio digitale Epistolae, curato alla Columbia University da Joan Ferrante fino al 2014, che raccoglie centinaia di lettere scritte nel Medioevo da o per donne.


Se nel 1984 Katharina M. Wilson ospitava nella sua antologia Medieval Women Writers 15 autrici, nel 2011 un progetto presentato da Patrizia Stoppacci ai programmi di finanziamento della Commissione Europea e ancora inedito ne individuava circa 150 nel solo ambito latino, in un panorama che ovviamente restava a dominanza maschile – ma non molto diversamente da quanto avveniva nell’Illuminismo e ancora nel primo Novecento e, in ampie regioni e culture del mondo, ancora oggi.

Il cliché ha lasciato emergere dall’oscuramento dei luoghi comuni solo gigantesse del firmamento culturale come Rosvita di Gandersheim (X sec.), Ildegarde di Bingen, Eloisa, la filosofa amante e corrispondente di Abelardo (XII), e in campo francese Christine de Pizan. Da pochi mesi si può contare sulla traduzione italiana del trattato ginecologico di Trotula, salernitana dell’XI secolo. Ma per tre o quattro nomi che varcano la barriera dei pregiudizi, quanti restano e resteranno ignorati per forza d’inerzia?

Una di quelle che non è stato possibile oscurare è Caterina Benincasa, nata a Siena probabilmente nel 1347, ventiquattresima di venticinque figli e morta proprio a trentatre anni, nel 1380, dopo una vita intensissima di sofferenze, battaglie civili, religiose e politiche, esperienze estreme e slanci ideali grandiosi nella loro ambizione quanto ingenui nella loro base analitica, priva di una comprensione chiara dei meccanismi economici e di potere che stavano dietro le posizioni di papi e sovrani e che non potevano essere modificati solo sulla spinta di principi morali. Testimone impaurita di visioni cristiche fin da bambina, a quindici anni aveva deciso di fare voto di castità dopo la morte per parto della sorella Bonaventura, nome tragicamente antifrastico.


Osteggiata dalla famiglia per la sua vocazione (come accadeva spesso, fa notare Gatto, sia alle donne che agli uomini) e trattata come una pazza, si creò nel mutismo asociale dell’adolescenza una «cella» interiore che restò sempre il suo rifugio, anche quando i genitori cambiarono strategia concedendole una stanza personale per la meditazione e portandola a curarsi alle terme che oggi si chiamano Bagni Vignone.

Per esercitare la sua religiosità itinerante in forme almeno apparentemente regolari aderì alla confraternita femminile dei domenicani (le cosiddette Mantellate), veste bianca e mantello nero, la via più leggera e autonoma possibile per impegnarsi in un ordine, che non comportava vita di comunità né particolari obblighi formali.

La sua anoressia radicale (si alimentava di acqua e di un impasto di «erba» che spesso vomitava), la sua insonnia, le sue visioni cruente (col cuore di Cristo estratto dal suo corpo e trapiantato nel proprio, bevendone il sangue), il sospetto che nascondesse le stigmate e il suo carisma di guaritrice del corpo ma soprattutto dell’anima (con consigli e colloqui ripetuti fino alla risoluzione del problema) le crearono una fama di santità che non si limitò alla consolazione di marginali della sua città ma, dopo una visione in cui Cristo la invitava ad andare «fra la gente», si applicò allo scenario politico: prima attaccando aspramente la conflittualità delle fazioni comunali senesi, poi criticando il degrado della Chiesa, con l’intento di placarne la rissosità e favorire il ritorno del papato a Roma, garanzia di una più libera «internazionalità», e infine incoraggiando l’organizzazione di una crociata contro i Turchi, che non si realizzerà mai.

Talvolta il suo intervento di ambasciatrice era richiesto, ma più spesso era guardato con sospetto dalle autorità signorili o comunali a causa della sua asprezza e della fedeltà alla Chiesa, che era corpo sociale ma anche entità politica.


Tutte queste relazioni e i loro retroscena sono descritti con chiarezza e rigore da André Vauchez, uno dei massimi esperti di agiografia medievale, in Caterina da Siena Una mistica trasgressiva (Laterza «i Robinson / Letture», tr. L. Falaschi, pp. 228, 20,00), che fa il punto delle conoscenze su questa tormentata personalità. Come si concretizzava la sua azione? Soprattutto scrivendo: Caterina produsse il più gigantesco epistolario femminile (e uno dei più voluminosi in assoluto) che ci sia rimasto da quell’epoca: 383 lettere in volgare senese, di cui 8 conservate in minuta (non di sua mano ma sicuramente di sua dettatura).

Questo non significa che non potesse scrivere perché donna: significa che, nel Medioevo come in altre epoche antiche e moderne, la scrittura epistolare era un’attività professionale anche quando gli autori erano maschi, e la delega della sua esecuzione non conseguiva da analfabetismo.

«Questa lettera, e un’altra ch’io vi mandai – confessa al suo consigliere spirituale e poi biografo Raimondo da Capua – ho scritte di mia mano in su l’Isola della Rocca, con molti sospiri e abbondanzia di lagrime… considerando la Providenzia … la quale … ha proveduto con darmi l’attitudine dello scrivere, acciocché discendendo dall’altezza, avessi un poco con chi sfogare il cuore, perché non scoppiasse». Addirittura ci sono testimonianze di suoi cancellieri che scrivevano contemporaneamente tre lettere diverse sotto dettatura simultanea, alternata a estasi improvvise, dell’instancabile Caterina. Si rivolse a papi, signori, re e prelati, comandanti militari e governanti locali, non sempre si sa con quale accoglienza – e qualche volta irruppe nelle loro assemblee, sempre ascoltata con rispetto e diffidenza, per far sentire il suo richiamo: ma qualunque fosse la reazione del destinatario, le copie che lei ne conservava avevano una circolazione secondaria che creava comunità di ascolto e propagazione efficaci quanto un sistema radio a consolidarne l’autorità magisteriale.



L’edizione di queste lettere, patrimonio prezioso e precoce della prosa nazionale, come dell’altra sua opera Dialogo della divina Provvidenza, è uno dei problemi insoluti della filologia italiana. L’Istituto di Studi Italiani per il Medioevo ha in corso da tempo un grande progetto di edizione critica, basato sui 55 manoscritti noti più altri 10 scoperti di recente, con individuazione di quelli risalenti alla mano di uno dei segretari di Caterina, Neri di Landoccio Pagliaresi. Ma si tratta di un’operazione scoraggiante e complessa anche per la difficoltà di concordare un metodo per operare scelte testuali in una lingua che era in formazione e non aveva ancora raggiunto uno standard grafico riconosciuto.

Grazie anche a queste lettere Caterina fu oggetto, da viva e dopo la morte, di un culto lento a crescere ma vivissimo, che ebbe i suoi punti di più strutturata irradiazione nelle biografie scritte e diffuse dal potente ordine domenicano, nelle traduzioni delle agiografie e del Dialogo in altre lingue vernacolari, nella canonizzazione del 1461 seguita da una serie di iniziative artistiche e monumentali, finché Pio IX ne fece la patrona secondaria di Roma, Tommaseo ne ripubblicò le lettere presentandola come uno dei grandi geni della lingua italiana, Mussolini la proclamò patrona d’Italia, Paolo VI dottore della Chiesa e poi Giovanni Paolo II patrona d’Europa insieme a santa Brigida di Svezia.

Di questa carriera travolgente quanto inattesa fa parte la realizzazione della cosiddetta Cappella della Testa, nella chiesa di San Domenico a Siena, allestita fra 1466 e 1475 per onorare la reliquia del capo di Caterina. Gli elementi di questa cappella creano un complesso simbolico di difficile decifrazione che diventa ora finalmente comprensibile grazie al volumetto di Gioachino Chiarini Il calice e lo specchio (Nerbini, pp. 143 con 63 tavole illustrate, euro 30,00).


I due punti su cui Chiarini getta una luce definitiva sono i personaggi nel sottarco del Sodoma, a lungo interpretati come profeti biblici o Padri della Chiesa e oggi decriptati come Aristotele e Platone, entrambi già raffigurati sulla facciata del duomo senese e pochi anni dopo, come si sa, nella Scuola di Atene di Raffaello, al cui fianco il Sodoma compare nello stesso dipinto. L’altro punto è la proliferazione, sia in questo affresco che nella figurazione pavimentale, di simboli della cultura alchemica, conosciuti dalla traduzione latina del Corpus Hermeticum dovuta a Marsilio Ficino (1473) e da opere ermetiche umanistiche, e già attestati nel Duomo. Il pavimento rappresenta una figura umana – ispirata al Torso Belvedere – in mezzo ad animali sullo sfondo di una foresta di alberi da frutto (a grappoli di tre) in asse con sole e luna, figura nella quale Berenson aveva riconosciuto Orfeo e invece Chiarini individua l’essere umano primigenio, adamitico, di sessualità ancora indefinita, che impugna uno specchio simbolo dell’anima, con accanto un cratere, immagine del fonte battesimale e del calice della passione.

Le quattro fiere vanno lette come i quattro gradi dell’opera alchemica (nero, bianco, giallo e rosso) e il pellicano, uccello che si ferisce per nutrire i piccoli, come Cristo. La cappella della Testa diventa così fusione sincretica e armonica, nelle intenzioni, di culture e sottoculture classiche, bibliche ed esoteriche con cui l’umanesimo reinterpreta e forse tradisce il drammatico sogno medievale di Caterina e la sfuggente esperienza della sua fragile radicalità.


Il Manifesto/Alias – 23 luglio 2017

Foglie di palma. Charles Bukowski e il Capodanno del depresso

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Ci avviciniamo alla fine dell'anno, la “Grande Festa” secondo l'antropologo Vittorio Lanternari. Vento largo la festeggia a suo modo, riprendendo tre punti di vista diversi sul Capodanno. Il primo è quello di chi le Feste le vive male e rifiuta di farsi coinvolgere nell'euforia generale che un po' lo disturba, Insomma, il Capodanno del depresso.


Charles Bukowski

Foglie di palma

A mezzanotte in punto
1973-74
Los Angeles
ha cominciato a piovere sulle
foglie di palma fuori dalla mia finestra
i clacson e i fuochi d’artificio
erano svaniti
e tuonava.
ero andato a letto alle 21.00
spente le luci
tirate su le coperte –
la loro letizia, la loro felicità,
le loro urla, i loro cappelli di carta,
le loro automobili, le loro donne,
i loro ubriachi dilettanti…
la notte di Capodanno mi atterrisce
sempre
la vita non sa nulla degli anni.
adesso i clacson si sono ammutoliti
e i fuochi d’artificio e i tuoni…
tutto è finito in cinque minuti…
odo soltanto la pioggia
sulle foglie di palma,
e penso:
non capirò mai gli uomini,
ma è andata
anche questa.



(Da: Charles Bukowski, So benissimo quanto ho peccato, Guanda)

La grande abbuffata di Capodanno degli antichi Romani

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Come festeggiavano il Capodanno i Romani? A tavola, naturalmente. Ce lo racconta Guido Araldo.

Guido Araldo

Il Capodanno

Si dice che anticamente nella notte di san Silvestro: il momento in cui la faccia destra di Giano subentra a quella sinistra, fosse usanza contare i soldi, auspicando un anno ricco e prospero. Un’altra antica tradizione vuole che a mezzanotte tra l’anno vecchio e l’anno nuovo si bruciasse il ginepro nel camino (oppure il quadrifoglio), la cui cenere andava sparsa sull’uscio di casa all’alba, come gesto benaugurale. Allo stesso modo, alla stessa ora, andava bruciato il ramoscello di vischio appeso sull’uscio di casa in occasione del Natale. Infine, sempre all’alba dell’anno nuovo, si attribuiva un valore divinatorio alla prima persona che s’incontrava, fatta eccezione per i famigliari. Meglio incappare in una donna, che in un uomo, e se la donna era una vecchia, sarebbe stato un anno fortunato.

I Romani annoveravano il Capodanno tra i dies fasti: un giorno positivo, giorno di gioia da segnare con pietruzze bianche, in cui scambiarsi doni tra fronde di alloro e di agrifoglio; piante tradizionalmente benaugurali. Vale la pena ricordare che a Roma persistettero a lungo due calendari: uno consolare – istituzionale con l’anno che iniziava alla festa di Giano, il 1° gennaio; l’altro popolare, quotidiano, lunare ancora oggi attestato da computo dell’epatta, che iniziava il 1° marzo.

All’alba del primo giorno dell’anno, al dio Giano, signore delle calende di gennaio, veniva offerta una focaccia di miele coperta da foglie di ginepro dorate: nota con il nome di ianual. Un’offerta solitamente accompagnata da brocche colme di latte e vino. L’augurio era palese: un anno nuovo dolce come il miele, con abbondanza di prodotti rappresentata dal latte e dal vino. Quest’ultimo includeva anche l’augurio di un anno caratterizzato dal buonumore. Né mancava, nei casi migliori, il dono di monete per alludere alla speranza in un futuro imminente particolarmente ricco e prospero.

Un rito propiziatorio, rivolto a Giove, prevedeva il sacrificio di un toro bianco; poiché Giano non gradiva i sacrifici animali e il sangue che scorre copioso, privilegiando fragranti focacce e brocche di buon vino. Com’era consuetudine antichissima, durante questo rito erano proferiti i voti solenni dei consoli, cui sarebbe spettato il governo dello stato per l’anno entrante.

In seguito, in epoca imperiale, ai voti dei consoli si assommarono quelli dei senatori, che al primo gennaio rinnovavano il giuramento di lealtà e fedeltà nei confronti dell’imperatore. A sua volta, l’imperatore esprimeva solennemente i vota pulica sacrificando a Giove due grandi buoi bianchi con corna dorate; poi, al tramonto, riceveva sul Campidoglio le strenae: offerte in denaro da parte del senato e del popolo. Da queste offerte trae origine la parola strenna, regalo.

L’usanza che al tramonto del 31 dicembre o al 1° gennaio si tenessero festose veglie e banchetti benaugurali, si evince dai severi divieti emessi delle autorità ecclesiastiche cristiane, appena la nuova religione giunta dalla Palestina s’impose come culto dominante. Le veglie all’imbrunire del 31 dicembre e i fastosi banchetti del 1° gennaio sono documentati dall’autore latino Lucio Giunio Moderato Columella: un’usanza diffusa in tutto l’impero romano.


Ieri, come oggi, il cenone del 31 dicembre era un allegro convivio di buon auspicio, affinché l’anno incipiente fosse abbondante di raccolti e frutti, permettendo d’imbandire ricche tavolate; foriero di felicità e prosperità. Lo scrittore latino accenna anche ai compitalia: riti agresti itineranti con soste presso i crocicchi; autentiche feste mobili durante le quali presso i tempietti in bivi, trivi o quadrivi venivano deposti gli attrezzi agricoli rotti, affinché fossero distrutti, mentre quelli in funzione ricevevano una sorta di benedizione, in previsione del nuovo anno, con l’auspicio di buoni raccolti. Solitamente questi riti si concludevano con banchetti benaugurali davanti ai Lari, attorno al focolare sacro di un grande cascinale, di una villa, di un villaggio, di un quartiere cittadino. Più dubbia l’usanza, durante i compitalia, di bruciare un gomitolo di lana o un fantoccio di paglia, gettandoli nel fuoco presso un crocicchio.

Nell’anno 64 a.C. i festeggiamenti alle calende di gennaio furono vietati a Roma per i disordini che generarono; ma la popolarità di quelle veglie e di quei banchetti era tale che furono ben presto reintrodotti. Nel 389 un editto dell’imperatore Teodosio ufficializzò il Capodanno come festa imperiale, nonostante la proibizione dei culti pagani. Va precisato che l’anno nuovo, all’epoca, non iniziava a mezzanotte, ma all’alba, con il levar del sole. La tradizione di far iniziare l’anno nuovo a mezzanotte è piuttosto recente.

Sempre al 1° gennaio era usanza gettare una manciata di grano e un boccale di vino nel focolare domestico o nei falò pubblici, per propiziarsi una buona annata invocando Cerere e Giano, in Grecia venivano invocati Demetra e Dioniso. La danza che si teneva attorno al fuoco, con il “rito” del salto sulle fiamme, aveva sicuramente una valenza magica. Non si deve dimenticare che Dioniso nei riti orfici era il dio della rinascita dopo la morte causata dei Titani: il dio ricomposto con le ceneri dei Titani che lo hanno divorato, e per questo atto sacrilego fulminati da Zeus, con la fiammella divina del suo cuore palpitante sopravvissuto, l’anima. Concetti che anticiparono di secoli il cristianesimo e non a caso nelle catacombe di Priscilla Gesù il buon pastore è raffigurato sia come Orfeo con la cetra in mano che come Dioniso, e nelle mani il calice colmo di vino del dio e il pane di Demetra… In seguito il calice di Dioniso si evolse in epoca medievale, in ambiente bretone, nel mito del Santo Graal.

In una data imprecisata, in tarda epoca imperiale, veglie e banchetti sembrarono non bastare e s’impose la voga di chiassose sfilate, durante le quali i più giovani bussavano alle porte delle case inneggiando a Giano e augurando una buona annata. In cambio di quell’augurio ricevevano un compenso in focacce, vino e forsanche denaro. Un’usanza che ben presto dilagò in tutto l’impero romano. Della degenerazione di questi cortei, con torme di ragazzini che correvano questuanti di casa in casa, indossando maschere di animali e cantando amene filastrocche, fornisce una preziosa testimonianza san Massimo, primo vescovo di Augusta Taurinorum (Torino). Con orrore il buon vescovo stigmatizzava la diffusa abitudine di molti uomini nel travestirsi in donna, in tutto e per tutto, con le conseguenze che ne derivavano; come pure di camuffarsi in bestie, se non addirittura in mostri, emettendo urla selvagge e impressionanti.

Lo scrittore Ginzburg rievoca un’omelia contro i festeggiamenti delle calende di gennaio nel giorno dell’Epifania dell’anno 400, tenuta dal vescovo Asterio di Amasea in Cappadocia; il quale non soltanto lamentava l’abitudine di scambiarsi doni all’inizio dell’anno, ma condannava aspramente l’usanza di dividersi in gruppi e andare di casa in casa, tra vari schiamazzi, pretendendo denaro. All’incirca nella stessa epoca a Ravenna, che aveva sostituito Roma nel ruolo di capitale dell’Occidente Romano, sono documentati cortei in occasione del capodanno con travestimenti mitologici e animaleschi, degni del più sfrenato carnevale, nonostante si vivesse ormai in epoca cristiana.


L’usanza del travestimento animale, con corna di cervo e zanne di cinghiale, era tipico principalmente dell’Italia Settentrionale e della Provenza, esteso anche in Catalogna fino alle rive dell’Ebro. Un’usanza che lascia trasparire la persistenza di un archetipo celtico, quando in pieno inverno s’inneggiava e si sacrificava a Cernunnos, il grande cervo saturo di valenze magiche. Similmente, alle idi di gennaio, si sacrificava al dio solare Lug, raffigurato solitamente in compagnia di un cinghiale, sostituito in seguito da sant’Antonio abate con il maiale.

Si era soliti, a Capodanno, bruciare il fantoccio di una vecchia: la vetula, che probabilmente rievocava il personaggio ancestrale etrusco di Anna Perenna. Un fantoccio che subì due metamorfosi: la prima nella Befana e la seconda nella vecchia della Quaresima, che subentra con una grande scopa di saggina al fantoccio del Carnevale bruciato pubblicamente la sera del Martedì Grasso.

Fu all’inizio del V secolo che le autorità ecclesiastiche intrapresero una vera e propria lotta contro il capodanno, inteso come pericoloso residuo di paganesimo, difficile da estirpare: la Natività e l’adorazione dei Re Magi dovevano bastare. Un’autentica guerra che nell’anno Mille sembrava definitivamente vinta e che, invece, mille anni dopo era irreversibilmente persa.



(Dal volume: Mesi Miti Mysteria)

La Rivoluzione russa e l'arte. Da Djagilev all'astrattismo. 1898-1922

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   Malevic, Stazione senza fermata

Un secolo dopo l'Ottobre sovietico, a Gorizia, un ampio percorso espositivo racconta le innovazioni nel mondo della cultura visiva Dalla figura chiave di Sergej Djagilev allo sviluppo dell'Astrattismo.

Lea Mattarella

Quegli artisti che sconvolsero il mondo


Non è facile raccontare cosa successe nel campo delle arti in Russia negli anni che precedono e seguono la Rivoluzione del 1917. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento in Europa si assiste alla nascita del modernismo, all'affermarsi di un'arte d'avanguardia che rifiuta il passato e reinventa il presente. La Russia non sta certo a guardare, ma la sua posizione, non soltanto geografica, è, per certi versi, unica e irripetibile.

La mostra La Rivoluzione russa. L'arte da Djagilev all'astrattismo. 1898- 1922, aperta da domani a Gorizia negli spazi dei Musei Provinciali, Palazzo Attems Petzenstein fino al 25 marzo, curata da Silvia Burini e Giuseppe Barbieri, ci trascina in un universo, che al pubblico occidentale è in parte quasi sconosciuto. Noi, tra i pittori russi, amiamo e padroneggiamo soprattutto gli esuli, coloro che raggiunsero Parigi, capitale della cultura visiva del tempo, come Kandinskij o Chagall.

Affacciarsi tra le opere e i desideri di una nazione che sta per trasformare completamente se stessa è un viaggio incantato, alla scoperta di doni, prestiti, contatti, negazioni, battaglie, riconciliazioni tra Oriente e Occidente. E non solo.

Per semplificare la lettura, rendendola anche più poetica, i curatori hanno diviso la rassegna in sei sezioni, ognuna intitolata a un anno ritenuto fondamentale nei grandi cambiamenti avvenuti nelle arti visive, ma anche nella poesia, nel cinema, nella fotografia, nel teatro, nelle tecniche ancora tutte da inventare. Una Russia che diventa Unione Sovietica esplode di innovazioni e di speranze sotto i tutti i fronti. Non andrà a finire benissimo. Neanche nel campo dell'arte.

    Aleksandra Ekster, Composizione. 1914. 

Dopo essere diventata un gigantesco laboratorio di sperimentazione di forma e materiali, il Paese capisce che a una dittatura del proletariato deve corrispondere una nuova arte. Questa non dovrà avere nulla a che vedere con il gusto borghese degli anni precedenti e dovrà invadere l'esistenza, non restarne separata per cui agli artisti tocca il compito di progettare un vero e proprio nuovo stile di vita. Anche se le premesse sembrano buone, la soluzione più semplice per il regime finisce per essere rappresentata dal busto in bronzo di Lenin realizzato da Natan Al'tman nel 1920 qui esposto: un ritorno all'immagine e, per di più, celebrativa.

Prima si era assistito a una vera rivoluzione alla quale avevano partecipato tutti gli artisti, anche gli esuli che allo scoppio della prima guerra mondiale o dei combattimenti dei bolscevichi, tornano in patria a fare la loro parte. In mostra non manca il capolavoro di Kandinsky: si chiama Lago ed è del 1910, periodo in cui il grande pittore si avvia verso l'astrazione. È un quadro dominato dall'oscurità e sembra diviso in due parti. A sinistra le pennellate di colore sono libere da qualsiasi forma, vivono di vita propria, mentre a destra compaiono ancora quelle immagini come la chiesa o le barche a remi che Kandinskij, negli anni successivi, non abbandonerà ma stilizzerà sempre di più, lasciandone pochi segni, piccole tracce.

Tutto ha inizio con un impresario teatrale, Sergej Djagilev, che nel 1898 fonda una rivista che chiama Il mondo dell'arte (è così intitolata la prima sezione della mostra). Nel frattempo organizza esposizioni tra la Russia e l'Europa. Vuole mettere in contatto due mondi lontani. La sua terra era stata fino a quel momento estremamente chiusa e Djagilev decide di mostrare ai suoi concittadini cosa stava succedendo in Francia, in Germania, in Inghilterra. Ma non gli basta. La sua ambizione è anche quella di diffondere l'arte del suo Paese in Europa. Lo farà con i Balletti russi, un'invenzione straordinaria – a cui collaborano coreografi, musicisti, scenografi, pittori – che ebbe un grandissimo successo soprattutto a Parigi, dove molti artisti francesi iniziarono a collaborare con lui.

Picasso, che viveva in Francia dall'inizio del Novecento, lo incontra nel 1917 e realizza per i suoi Balletti le scenografie e i costumi di Parade che Apollinaire definisce il primo balletto cubista. Nei manifesti in mostra è documentato il grande lavoro dell'impresario che lavorò con Stravinskij e con Satie.

    Vasilij Kandinskij, Lago, 1910 

L'itinerario esplosivo in cui ci accompagnano i curatori non comprende solo la pittura, ma anche libri, manifesti, oggetti di arte applicata che, soprattutto dopo la rivoluzione, diventano espressione della nuova arte: ecco porcellane con la falce e martello o scatolette in cartapesta laccata che raffigurano mietitrici atteggiate come figure sacre dell'antichità, sorridenti e felici, prive di qualsiasi traccia di fatica, accompagnate sempre dai simboli del mondo che cambia.

Tra gli artisti russi più importanti ci sono Larionov e la Gončarova, una coppia che lavorerà insieme con alcune fondamentali diversità. Lei è strettamente legata al recupero del folklore russo (lo si vede anche nei suoi bozzetti teatrali), mentre lui è più attratto dall'avanguardia europea. Per quanto differenti i due rispondono all'appello del tempo: cambiare, abbandonare il passato, inventare un nuovo linguaggio. Così come lo faranno le cosiddette Amazzoni: un gruppo di donne (Rozanova, Udal'cova, Ekster, etc.), che in mostra danno una bella prova del loro occhio potente, capace di guardare lontano. Proprio negli anni Dieci si ha la svolta dal cubo-futurismo all'astrazione. E avviene soprattutto con Malevic che nel 1915 scopre sul suo cammino il Quadrato nero su fondo bianco. «Mi sono trasfigurato nello zero delle forme», dichiara convinto.

Siamo a un punto di non ritorno? Forse lo saremmo stati se il regime sovietico, come tutte le dittature, non avesse capito quanto può servire un'arte asservita alla propaganda. Quindi si combatte tra chi nega l'autonomia dell'arte e chi la sostiene con determinazione. Non ci sono vincitori, ma quello a cui abbiamo assistito è uno dei racconti più suggestivi di un inizio secolo sorprendente che qui a Gorizia ci affascina con ogni genere di oggetto.


La Repubblica – 20 dicembre 2017

Antonio Gramsci, Odio il Capodanno

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Anche Gramsci come Bukowski detesta il Capodanno, ma il suo rifiuto della festa come gioia obbligata è diverso. Non è un ritrarsi dalla gioia sterotipata e un po' coatta della massa, ma il riflesso di un giovanilistico vitalismo filosofico che molto deve alla lettura di Bergson e di Sorel.

Antonio Gramsci

Odio il capodanno

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.

E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.


Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.

Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.

Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.

L'Avanti, 1 gennaio 1916


Capodanno 1942. Nome in codice "Casablanca"

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Casablanca non fu solo il film mitico che tutti portiamo nel cuore, ma un tassello di una campagna psicologica decisa da Roosevelt per coinvolgere a fondo il popolo americano nella guerra contro la Germania nazista.

Roberto Brunelli

Nome in codice “Casablanca”

Non tutte le feste di capodanno sono uguali. L’America viveva nella paura di un attacco degli U-Boot nazisti, e quella sera del 1942 alla Casa Bianca apparvero anche Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, con il loro carico di dolente passione. Non di persona, certo: il presidente Roosevelt aveva organizzato una proiezione privata di un film che fino ad allora si poteva vedere in un solo cinema a New York City.

Quella pellicola s’intitolava Casablanca e avrebbe cambiato la storia, diventando strumento di una strategia nel momento in cui la guerra era sull’orlo di una svolta — che porterà alla sconfitta di Hitler — ma anche crocevia di eventi in cui si mischiano la propaganda e l’industria del sogno hollywoodiano, i destini dei potenti e le speranze di chi cercò di fuggire dal nazi-fascismo, le ambizioni di visionari produttori cinematografici ed il lavorio di un manipolo di sette sceneggiatori che aggiustavano di continuo lo script seguendo la cronaca bellica.

Casablanca non è mai stata solo una commovente love story tra il titolare di un café américain e una bella ragazza norvegese con la minaccia nazista sullo sfondo. Ma ora è il giornalista tedesco Norbert F. Pötzl — con il libro Casablanca 1943, appena uscito in Germania — a condurci in mezzo all’intreccio sviluppato tra il film-icona di Michael Curtiz e la geopolitica a cavallo tra il 1942 e il 1943.



E l’uomo che sta al centro di questa girandola è proprio Roosevelt: mostrare alla Casa Bianca e portare nei cinema d’America il triangolo tra il tormentato Rick, l’appassionata Ilsa e l’eroico capo-partigiano Victor Laszlo faceva parte di un piano che avrà il suo apice nel vertice segreto che si tenne proprio a Casablanca, pochi giorni dopo la proiezione alla Casa Bianca: fu qui che Roosevelt e Churchill decisero come cambiare i destini del conflitto e abbattere il mostro nazista. Qui fu pianificato lo sbarco in Sicilia e furono poste le basi del D-Day in Normandia e qui Roosevelt fece la famosa dichiarazione sulla “resa incondizionata” della Germania come unico possibile esito della guerra. Ma fu anche qui che venne prefigurato, di fronte ad un nervoso De Gaulle, il volto postbellico dell’Europa.

È Casablanca il filo rosso che tiene insieme la trama di Roosevelt. Tutto comincia, racconta Pötzl, con la Warner Bros, che da anni sosteneva il presidente nel tentativo di convincere l’America della necessità di entrare in guerra contro Hitler, forzando l’umore non-interventista del Paese («Scommetto che stanno dormendo tutti, ora a New York», dice Rick Blaine al mitico Sam, metafora di un’America chiusa nell’ isolazionismo).

Ecco che i fratelli Warner sfornano film propagandistici a catena: Confessions of a Nazi- Spy (1939) e Il sergente York (1941), ma sarà “Casablanca” a fare il boom, nonostante nel frattempo l’America fosse davvero entrata in guerra. Non solo perché a milioni si identificarono nel destino dei migranti del film in fuga dall’orrore hitleriano, ma perché la pellicola era baciata dal furore degli eventi: la vera Casablanca, fino ad allora in mano ai collaborazionisti di Vichy, era stata liberata dagli Alleati mentre il film era in produzione, tanto da indurre la Warner ad anticiparne drasticamente l’uscita.


Ma non è solo questo. Senza contare l’ungherese Curtiz e i fratelli Epstein, i gemelli ebrei americani che firmarono con Howard Koch lo script, quasi tutta la troupe di Casablanca era composta da migranti, compresi Paul Henreid (Laszlo), Conrad Veidt (maggiore Strasser), Peter Lorre (il furfante Ugarte), l’inglese Claude Rains (capitano Renault), ovviamente la svedese Ingrid Bergman. Scelta anche questa non casuale, dato che Roosevelt, dice Pötzl, aveva un debole per la principessa norvegese Märtha, a sua volta di origini svedesi.

Il caso più clamoroso è quello della coppia Marcel Dalio e Madeleine LeBeau, che interpretavano il croupier Emile e la verace Yvonne: esattamente come Rick e Ilsa, avevano dovuto lasciare Parigi con l’avanzata dei tedeschi, per arrivare dopo molte peripezie a Lisbona, da cui riuscirono a imbarcarsi per le Americhe, proprio come i tanti esuli del film, tutti in attesa a Casablanca dopo aver fatto tappa a Marsiglia, per arrivare nella capitale portoghese, da dove prendere un aereo per New York.

Ma è nella meravigliosa scena della Marsigliese che la vita dei suoi interpreti si fa tutt’una col destino di Casablanca. Racconta l’attore Dan Seymour che, mentre si girava la sequenza in cui i clienti del Rick’s Café cantano a squarciagola l’inno francese, vide che tutti i suoi colleghi piangevano davvero: «Di colpo mi accorsi che erano tutti profughi».


La repubblica – 30 novembre 2017

Pablo Neruda, Ode al primo giorno dell’anno

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Neruda è un poeta come Bukowski e un rivoluzionario come Gramsci. Anche per lui Capodanno è un giorno come gli altri, ma vissuto nel segno della speranza. Un sentimento che facciamo nostro. Auguri a tutti gli Amici e le Amiche di Vento largo.

Pablo Neruda

Ode al primo giorno dell’anno

Lo distinguiamo dagli altri
come se fosse un cavallino
diverso da tutti i cavalli.
Gli adorniamo la fronte
con un nastro,
gli posiamo sul collo sonagli colorati,
e a mezzanotte
lo andiamo a ricevere
come se fosse
un esploratore che scende da una stella.
Come il pane assomiglia
al pane di ieri,
come un anello a tutti gli anelli: i giorni
sbattono le palpebre
chiari, tintinnanti, fuggiaschi,
e si appoggiano nella notte oscura.
Vedo l’ultimo
giorno
di questo
anno
in una ferrovia, verso le piogge
del distante arcipelago violetto,
e l’uomo
della macchina,
complicata come un orologio del cielo,
che china gli occhi
all’infinito
modello delle rotaie,
alle brillanti manovelle,
ai veloci vincoli del fuoco.
Oh conduttore di treni
sboccati
verso stazioni
nere della notte.
Questa fine dell’anno
senza donna e senza figli,
non è uguale a quello di ieri, a quello di domani?
Dalle vie
e dai sentieri
il primo giorno, la prima aurora
di un anno che comincia,
ha lo stesso ossidato
colore di treno di ferro:
e salutano gli esseri della strada,
le vacche, i villaggi,
nel vapore dell’alba,
senza sapere che si tratta
della porta dell’anno,
di un giorno scosso da campane,
fiorito con piume e garofani.
La terra non lo sa: accoglierà questo giorno
dorato, grigio, celeste,
lo dispiegherà in colline
lo bagnerà con frecce
di trasparente pioggia
e poi lo avvolgerà
nell’ombra.



Eppure
piccola porta della speranza,
nuovo giorno dell’anno,
sebbene tu sia uguale agli altri
come i pani
a ogni altro pane,
ci prepariamo a viverti in altro modo,
ci prepariamo a mangiare, a fiorire,
a sperare.
Ti metteremo
come una torta
nella nostra vita,
ti infiammeremo
come un candelabro,
ti berremo
come un liquido topazio.
Giorno dell’anno nuovo,
giorno elettrico, fresco,
tutte le foglie escono verdi
dal tronco del tuo tempo.
Incoronaci
con acqua,
con gelsomini aperti,
con tutti gli aromi spiegati,
sì,
benché tu sia solo un giorno,
un povero giorno umano,
la tua aureola palpita
su tanti cuori stanchi
e sei,
oh giorno nuovo,
oh nuvola da venire,
pane mai visto,
torre permanente!


(Pablo Neruda, Terzo libro delle odi, 1957)  

Tango, camminare insieme in un abbraccio

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Immigrati, creoli ed ex-schiavi dell'Africa, nasce nella marginalità uno dei balli più sensuali. Musica, canto, ballo, in ogni parte del mondo le sue espressioni raccontano una storia più lunga.


Alessandra Pigliaru

Tango, camminare insieme in un abbraccio


«I milioni d’immigrati che si sono riversati su questo Paese in meno di cent’anni non solo generano i due attributi del nuovo argentino, il risentimento e la tristezza, ma preparano anche l’avvento del fenomeno più originale della zona del Plata: il tango». In queste poche parole di Ernesto Sábato, preparate per la prefazione al volume di Horacio Salas, El Tango (1986), vi sono alcuni elementi utili per capire da dove venga quel segno culturale, sociale e popolare incarnato dal tango – ballo, musica e canto.

A QUALSIASI LATITUDINE lo si incontri infatti, il suo costante presentarsi nella storia con un successo senza pari gli ha conferito il carattere di luogo simbolico immortale. Le parole di Sábato (che nel 1963 scrive l’ormai classico Tango, discusión y clave) descrivono brevemente le origini meticce del fenomeno che a partire dal XIX secolo, tra Buenos Aires e Montevideo, vede immigrati, creoli ed ex-schiavi dell’Africa approdare nelle città argentine. Sono «minuti artigiani della notte», come li chiama Davide Sparti in un libro prezioso e complesso del 2015 (Sul tango. L’improvvisazione intima) e contribuiscono a formare una narrazione mobile e imprendibile, conflitti sociali e trasformazioni in atto (sulle tangenze politiche da segnalare invece un volume di Dimitri Papanikas, La morte del tango, edito quattro anni fa).


In una estrema indigenza trova origine ciò che oggi comunemente viene chiamato tango, che è sì «allegoria dell’unione» ma anche quella «vertigine del tocco», come suggerisce il nome, in cui si sorprendono tanti fantasmi al lavoro. A partire dalle creature che popolano le milonghe di tutte le parti del mondo, dalla Finlandia al Giappone, grandi metropoli e sagre di provincia. Questa invasione, dotata di una convivialità gentile che segue il respiro graffiante e caldo del bandoneón, appartiene a una pratica sociale inarginabile, al contempo sonnambulismo dei sensi che pure si cercano senza sosta. Incantando di felicità chi almeno una volta ha varcato la soglia di una sala dove si balla il tango. La stratificazione storica, politica e anche geografica del tango attiene allora a un approfondimento che negli anni molta letteratura ha descritto.


Oltre al più noto Borges, Meri Lao e moltissimi altri , sarà utile un volume recente che proprio da quella origine sempre spostata racconta. Tango. Storia e corpi di una cultura migrante di Francesca Auteri (Villaggio Maori edizioni, pp. 166, euro 15, prefazione di Fernando Gioviale) si innerva tra remembranza e olvido per suggerire una possibile lettura trasversale tra le parole dei cantores, scandite nelle fasi che coprono l’arco lungo di più di un secolo.

Tra la Vieja Guardia (1900-1920) facendo emergere i temi centrali dei primi testi per scoprire l’abbandono della terra natia, che è sempre querida, all’amore sfortunato per una donna, ricordo e dimenticanza si espandono e diventano passaggi decisivi anche nella fase della Nueva Guardia (1920-1940) che deflagra di malinconia per il ritorno e a cui – nel 1934 – Carlos Gardel dedica l’intramontabile Volver.


Auteri offre una lettura piuttosto interlineare della questione, nelle ricorrenze e nei principali autori e parolieri, da Enrique Santos Discépolo a Luis César Amadori ed Eduardo Moreno, solo per citarne alcuni. E se José María Contursi segna La Época de oro (fino alla fine degli anni ‘50), è Juan Pablo Marín (autore di testi e musica, basta pensare a quel capolavoro dello struggimento che è Fueron tres años del 1956) a restituire la cifra del periodo cosiddetto «moderno» in cui – fino agli anni ’80 – vi è la frenata argentina di luoghi di ritrovo per ballare.



DOPO QUESTO PERIODO, seppure vergato da trasformazioni che già le canzoni di Gardel avvertono come spartiacque, quella narrazione culturale si affolla. Ne dà conto, con una notevole ricognizione delle fonti, dei pionieri e dei protagonisti, il volume di Sabatino Alfonso Annecchiarico, Tango Tano. I migranti italiani nel tango argentino (Mimesis, pp. 236, euro 20), illuminando la composizione del flusso migratorio e affondando le radici proprio in Italia. È tuttavia già negli anni Settanta – in particolare per merito di Astor Piazzolla, «il rivoluzionario che fece ruzzolare la luna per Callao» – che si celebra il passaggio esplicito alla libertà. La diffusione è già inarrestabile, da tempo. L’Europa, come il resto del mondo, conoscono oggi ciò che forse non era più nelle intenzioni delle origini, sempre e per fortuna impure, ma che mette in scena qualcosa che al fondo resta lo stesso. Camminare insieme in un abbraccio, diverso da qualsiasi altro si sia creduto di aver conosciuto fino a quel momento, non importa se tra uomini e donne o appartenenti allo stesso sesso.

Allora cos’è che svetta nella storia così diversa in cui si è radicato? Cosa accade precisamente quando i due corpi dei ballerini si avvicinano? E soprattutto chi sono e di cosa devono dotarsi oltre al piacere di danzare? In un esperimento didattico importante lo racconta Bruna Zarini che, facendo seguito a una specifica richiesta, comincia – ormai molti anni fa – nella sua scuola bolognese il Tango al buio (come recita anche il titolo del libro, pubblicato per iacobellieditore, pp. 108, euro 12.90).



SI TRATTA DI CORSI laboratoriali per non vedenti (ideati insieme all’amica Gaby Mann). Squadernando così uno dei capisaldi della pratica che si deve rispettare in una milonga, mirada e cabeceo. L’oscurità richiamata nel titolo non è però la condizione di deprivazione della vista, per immedesimarsi nell’altro, Zarini propone di ballare al buio così che, vedenti e non, abbiano un terreno comune su cui confrontarsi.

Quanto sia cruciale «il vedere» nel tango lo spiega bene chi spesso lo affronta a occhi chiusi. Una coppia di ballerini di cui uno o entrambi chiudono gli occhi, significa affidamento al sentire, totale abbandono all’altro, sviluppo di altri canali che non siano quelli tradizionali della vigilanza dell’io. In questa direzione, ciò che ha reso efficace il lavoro di Bruna Zarini è stato comprendere che il tango può essere davvero il procedere insieme a cuore aperto, facendo delle proprie vulnerabilità una forza, perché sono i corpi a non essere mai ciechi quando esercitati all’empatia. Lasciando da parte il territorio spesso agonistico o inarrivabile delle esibizioni, chi balla il tango lo fa per sporgersi verso una prossimità e rendere conto di un saper trattenere e farsi trattenere.



PARTENDO da questo presupposto, non solo la vista risulta un senso secondario; quando si incontra qualcuno con cui si balla bene ci sono cose di cui si tace, è un’esorbitanza della cura di sé nei tre minuti di una canzone, o moltiplicati nella grazia di una tanda (nel caso ci si trovi in una milonga), riuscire ad allestire campi sterminati di desiderio nei confronti di chi si accoglie tra le braccia, alchimia gratuita dello stare in presenza, facendo circolare passioni sottili e altrettanto volatili. Accogliere tutto e, alla fine, lasciarlo andare, evaporare. Con gratitudine.

Ecco una delle ragioni che rende questa esperienza diversa da quella di qualsiasi altro ballo: sapere che se la nostra strada terrestre va percorsa spesso in solitudine, partire dall’almeno due risulta più interessante. Padroni ciascuno e ciascuna della propria differenza sessuale, perciò in libertà. Fosse solo nel gioco di pochi e imperfetti istanti, camminando stringendosi in un abbraccio che rende più sopportabile la fatica del mondo e delle relazioni che lo abitano, spostandone il peso. In fondo è solo un breve filo di felicità che balugina in una notte qualsiasi, eppure ha la potenza carsica di muovere interi popoli. E lo fa da più di un secolo.


Il manifesto – 21 dicembre 2017

Guido Ceronetti. Per sempre fedele al sogno dei Catari

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I Catari continuano ad affascinare l'Occidente. In un'intervista rilasciata a La Repubblica Guido Ceronetti parla del suo rapporto con la chiesa catara. Riprendiamo il passaggio.

Guido Ceronetti

Sono l’ultimo eretico, per sempre fedele al sogno dei catari”

Intervista di Anna Bandettini

(...)

Cosa la lega alla chiesa catara?
«È una vocazione molto giovanile. Avevo letto un libro di storia catara trovato su una bancarella e sono stato attratto dalle sue tradizioni e leggende. Ho seguito per anni i Cahiers d'Études Cathares che sono diventati una rivista steineriana, perché i catari di oggi sono tutti steineriani.
L'unico pellegrinaggio, a parte Santiago di Compostela, che mi affascina tuttora è a Montségur, dove si svolse l'atto finale della persecuzione contro i catari. Era ed è tuttora un luogo fondamentale. Io ho avuto la visione dell'Angelo che dice "perché non vieni?". Per questo mi resta la speranza di una leggenda: che a chi è legato alla chiesa catara alla fine della vita vengano due uomini misteriosi a impartirgli il consolamentum, che vale per la vita e per la morte».

Ma che cerimonia è?
«So che un cristiano come Dostoevskij, dio lo benedica, che ha ricevuto o si è impartito il consolamentum, chiese solo di avere in mano o di farsi leggere il Vangelo di Giovanni. I catari rifiutavano i sinottici come non validi, mentre quello di Giovanni era il loro libro sacro».

Qual è il suo libro sacro?
«Per me lo è anche il Versetto della Luce del Corano. È ispirato».

E da cosa capisce che è ispirato?
«Dalla bellezza. La bellezza è sempre un segno di presenza angelica. E quel libro, l'An- Nûr, ha tracce del divino. Mi hanno chiesto tante volte cosa è il divino. Rispondo il segreto, il mistero della vita umana».

(...)


La Repubblica – 20 dicembre 2017
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