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Russia 1917. La nascita di un'avanguardia tra sogno e realtà

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    Malevic, Testa di contadino (1928)

La rivoluzione d'Ottobre suscita un'ondata gigantesca di fervore intellettuale e artistico. Si vuole che l'arte diventi parte della vita quotidiana. Ci penserà Stalin a normalizzare la situazione. Il tramonto della democrazia sovietica sarà anche la fine delle avanguardie artistiche. Il suicidio di Majakovskij chiude un'epoca. L'arte diventa propaganda di regime (realismo socialista) e l'artista d'avanguardia un nemico del popolo.



Giuseppe Dierna

La nascita di un'avanguardia tra sogno e realtà

Scrive orgogliosamente Vladimir Majakovskij nel luglio del 1920, mentre in Russia ancora imperversa la guerra civile: «Noi avanziamo/ lava rivoluzionaria». I poeti e i pittori dell'Avanguardia (galassia composita che annovera futuristi, suprematisti, costruttivisti, produttivisti) con quella Rivoluzione si erano fin dall'inizio identificati. Li legava l'idea di un'attività collettivistica, il sogno di una rifondazione totale dei linguaggi dell'arte come della politica, l'intento di rompere con la tradizione, benché in campo artistico la dirigenza, da Lenin a Stalin, sarà invece sempre alquanto tradizionalista.

La Rivoluzione scatenerà ancor più le potenzialità degli artisti, fornendo materiali, mezzi e atelier, e offrendo loro anche il monopolio nella formazione delle nuove leve, per cui le istituzioni artistiche saranno all'inizio guidate da Kandinskij, Rodčenko, Chagall, Malevic. A differenza delle avanguardie occidentali (dadaisti, futuristi…), gli artisti russi entrano quindi nei gangli del potere, hanno la possibilità di realizzare il loro progetto totalizzante.

    Realismo socialista

Perché, allora, nel giro di poco più di un decennio questa sintonia scompare e dell'iniziale esplosione avanguardistica sopravvivono (talvolta anche in senso letterale) solo i fotomontaggi di Rodčenko, la grafica di El Lisickij e alcuni progetti architettonici costruttivisti? Certo, il centralismo politico che si stabilizza in Urss con Stalin all'inizio degli anni '30, sotto la guida (ormai) unica del Partito, non può certo sopportare le spinte autonomiste e la pretesa avanguardistica di guidare lo sviluppo della cultura. Ma non basta.

A scalzare l'Avanguardia dalla sua posizione dominante contribuiranno anche le antiche spinte tradizionaliste di quei sostenitori di una "cultura proletaria" riuniti fin dal '17 nel Proletkul't, peccato originale della Rivoluzione, e che – indifferenti ai problemi della "forma artistica"– nell'arte vedevano solo uno strumento educativo. Rimasti sottotraccia per più di un decennio (persi in dispute interne e in rivoli scissionistici), ad essi farà riferimento Stalin nella sua riorganizzazione della cultura anche in chiave anti-avanguardistica.

Se si guarda poi più da vicino alle vicende dell'Avanguardia russa, ci si accorge di quanto essa stessa abbia collaborato alla propria fine. Non sarà infatti il potere ma la parte "vincente" dell'Avanguardia (i costruttivisti di Rodčenko) ad emarginare in pochi anni le varianti più "spiritualiste" (da Malevic a Kandinskij), e questo in nome di una diversa visione "politica".

     Chagall, La rivoluzione

E ancora: negli anni '20 il dominante gruppo costruttivista-produttivista – ma anche il raggruppamento attorno all'importante rivista LeF (tra i collaboratori: Osip Brik e B. Arvatov, a dirigerla: Majakovskij) – nel loro tentativo di realizzare l'utopia di un'arte legata alla produzione industriale (che alla figura dell'artista sovrapponeva quella dell'artista-ingegnere) e approfittando di una linea politica nei primi anni post-rivoluzionari non del tutto univoca in campo culturale, erano sempre più penetrati nei territori del potere, rivendicando la propria funzione (politicamente) rivoluzionaria e propugnando un'"arte come metodo di edificazione della vita", convinti che spettasse a loro – gli artisti dell'Avanguardia – guidare quel processo. Una confusione che sarà loro fatale: dopo gli iniziali tentennamenti, il Partito si riprenderà con fermezza il proprio ruolo.

Come spiegava alcuni anni fa Boris Groys, sarà Stalin – con la sua dittatura, e con l'invenzione del realismo socialista – a concretizzare il sogno avanguardistico, il «passaggio da un'arte della rappresentazione della vita alla sua trasfigurazione nel quadro di un progetto estetico-politico totale».

Nell'aprile del '32 una risoluzione del Comitato Centrale scioglie tutti i raggruppamenti artistici e li riunisce in megaorganizzazioni controllate dallo Stato. Per gli artisti sovietici il sogno rivoluzionario finisce qui.


La repubblica – 20 dicembre 2017

Addio a Lea Mattarella, una vita per l'arte e per le donne

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Ci mancheranno i suoi articoli che riprendevamo spesso, l'ultimo ancora il 30 dicembre. Aveva una capacità rara di collegare arte e vita, cultura e società.

Piera Matteucci

Addio a Lea Mattarella, una vita per l'arte e per le donne


Sapeva di essere malata da tempo, ma questo non le ha impedito di occuparsi, fino alla fine, della sua grandissima passione: l’arte. Lea Mattarella, critica e collaboratrice storica di la Repubblica, e prima ancora della Stampa, si è spenta oggi all’età di 54 anni.

Lunghissima la sua carriera come docente dell’Accademia delle Belle Arti, che l’ha portata in tutte le principali città italiane. Dopo Napoli, Macerata, L’Aquila, finalmente Roma.

Ma l’impegno di insegnante era solamente uno dei tanti che Lea onorava con dedizione e passione. Sulle pagine del nostro quotidiano sono tantissimi gli articoli con la sua firma. L’ultimo è comparso appena domenica scorsa suRobinson su una mostra allestita a Palazzo Braschi, a Roma, su costumi, disegni e bozzetti realizzati da grandi artisti per il teatro dell’Opera.

Il suo sguardo a tutto tondo sull’arte, però, si soffermava con particolare attenzione sull’universo femminile. Era stata curatrice, in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unita' d'Italia, dell’esposizione ‘Le donne che hanno fatto l’Italia’ al Vittoriano, nella quale avevano trovato spazio i premi Nobel Grazia Deledda e Rita Levi Montalcini, ma anche Luisa Spagnoli che inventò il bacio Perugina, Ernestina Paper, prima laureata in medicina dell'Italia unita, e Alfonsina Strada, che nel 1926 corse con gli uomini il Giro d'Italia.

A chi le chiedeva quale fosse l’insegnamento tratto dal mondo del giornalismo e quali fossero i legami con l’attività di critico d’arte, rispondeva che tra i due ‘mestieri’ non ci sono poi differenze così profonde, ma insisteva nel dire che chi scrive dovrebbe essere in grado di fare entrambe. “Io devo molto ai giornali. Mi hanno insegnato la chiarezza, perché se devi ‘tradurre’ una cosa per un lettore che non ha la tua formazione, questa deve essere chiarissima innanzitutto a te. Poi la stessa chiarezza io mi sforzo di portarla nei testi critici, perché io voglio essere capita. Quando uno non è chiaro è perché non ha chiaro che cosa vuole dire”, aveva detto in un’intervista rilasciata alcuni anni fa al sito ‘Giornale dell’arte’.

E le parole nei suoi articoli, come nei suoi testi, prendevano la forma di immagini, talmente chiare da apparire davanti agli occhi di chi quelle parole le leggeva.

Lea aveva ancora tanti progetti, che la consapevolezza del male non aveva fermato: libri, mostre e recensioni che non voleva lasciare chiusi in un cassetto.


http://www.repubblica.it/

Il vangelo gnostico di San Tommaso

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    Caravaggio, San Tommaso

Vento largo entra nel suo decimo anno. Scopo del blog era far circolare idee e suscitare discussioni. Qualche volta ci riusciamo e la cosa, ovviamente, ci fa molto piacere. Ieri un post dedicato ai Catari ha visto reazioni contrastanti. Per Guido Araldo il testo di riferimento dei Catari non è il Vangelo di San Giovanni, ma quello apocrifo di Tommaso. Ne deriva di conseguenza il carattere gnostico di questo movimento religioso. Una tesi argomentata con grande ricchezza di idee e di riferimenti culturali nel testo che proponiamo oggi agli amici che ci seguono.

Guido Araldo

San Tommaso

In Occidente la fama di san Tommaso è legata a un brano del Vangelo secondo san Giovanni (20, 24-29) per aver dubitato, di fronte a Gesù risorto, della sua resurrezione. Forse non aveva tutti i torti. In realtà san Tommaso può essere ritenuto importante per due dei tre Vangeli a lui attribuiti, entrambi gnostici, più un suo Apocalisse e per gli Atti sempre a lui risalenti.Trattasi del Vangelo secondo Tommaso o Quinto Vangelo, il libro del contendente noto anche come il libro dell’atleta Tommaso e l’Apocalisse di Tommaso.

Soltanto Giovanni, tra gli evangelisti, ricorda l’apostolo Tommaso, il cui nome in aramaico significa "gemello", corrispondente a Didimo in greco; mentre gli altri evangelisti “ufficiali”, Marco Matteo e Luca si limitano ad annoverarlo tra i dodici apostoli.

Analizzando tutti i testi evangelici si evince una contraddizione di fondo tra cristiani gnostici e cristiani ortodossi o cattolici. I primi, infatti, erano esoterici, mentre gli altri protendevano per una diffusione essoterica del messaggio cristiano, cioè aperta a tutti, non limitata ad iniziati.

Gli gnostici, per loro stessa impostazione culturale, erano disinteressati, se non contrari, alla formazione di caste sacerdotali che avrebbero finito per monopolizzare il cristianesimo, imbrigliandolo e trasformandolo in uno strumento di potere. Una funzione non trascurabile del Vangelo secondo san Giovanni sarà quella di designare, tramite la parola di Gesù, le figure degli apostoli e dei loro successori, in seguito i vescovi, come gli unici capaci di rimettere l'uomo i propri peccati (20,22/23), in grado di poter giudicare e salvare l'anima. Questo tardo vangelo, ovviamente il più importante, determinerà un cambiamento radicale nel cristianesimo. Permetterà a una Chiesa trionfante e intollerante di costituire una casta sacerdotale millenaria, dotata di un potere enorme, spirituale politico economico su tutti i cristiani.

A questo punto il vangelo secondo Tommaso era scomodo. Tommaso, l'apostolo più onesto e meno credulone, che non terrorizza gli uomini con l’incubo di un giudizio universale, che nel suo vangelo rivendica il nosci te ipsum, la necessità di conoscere se stessi prima di diventare cristiani, colui che afferma che il regno dei cieli non è altrove, ma qui sulla terra, dentro di noi, deve essere dimenticato anzi, i suoi seguaci devono essere perseguitati.

    Vangelo di Tommaso

Cosa c’insegna Tommaso? Che per redimerci, per rinascere, la vera resurrezione non riguarda Gesù, ma tutti noi: la fiammella divina che sta in noi e che non possiamo lasciare spegnere simile a Lucignolo in Pinocchio, diventando ciuchi. Chi non compirà questo percorso rimarrà ignorante di se stesso e non incontrerà Dio. La purezza di Tommaso non è adatta a formare una chiesa potente, assoluta. Colui che veneriamo come santo: Ambrogio di Milano, fu il più accanito nemico del vangelo di Tommaso, fino ad indurre lo stesso imperatore, sul quale esercitava un’indubbia ascendenza, a decretare la pena di morte per chiunque venisse trovato in suo possesso. La stessa persecuzione attuata novecento anni dopo da papa Innocento III, il più assolutista tra i papi, nel confronto dei Catari, eredi del Vangelo secondo San Tommaso.

Numerosi furono i seguaci di san Tommaso agli albori del cristianesimo, soprattutto nella parte occidentale dell’impero romano d’Occidente, nelle Gallie, inclusa l’Italia Settentrionale, in Spagna e in Britannia. Non a caso Ireneo, vescovo di Lione e primate delle Gallie, campione della nuova casta sacerdotale “ortodossa e cattolica”, già nell’anno 180 non esita a porre il suo vangelo nella lista dei libri eretici da bruciare (Adversus haereses). Forse non è un caso se la tradizione postuma vuole san Tommaso apostolo in Persia e in India, il più lontano possibile dalle Gallie, dalla Spagna e dalla Britannia.

Emblematico il passo dell’incredulità di Tommaso nel Vangelo secondo san Giovanni: Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli rispose: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi si rivolse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù allora gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».

Tommaso dimostra di non avere fede! Di non credere per sentito dire. È uomo di conoscenza. Esempi di fede sono quelli di Abramo e più ancora Isacco. E l’evangelista Giovanni condanna questo desiderio di verifica, includendo in questa condanna qualsiasi ricerca razionale di conoscenza tra uomo e Dio, cara agli gnostici. Secondo san Giovanni si deve credere ciecamente al messaggio cristiano della resurrezione e non dubitare e cercare di capire. Proprio questo passo evangelico attesta come il Vangelo di Giovanni sia inequivocabilmente postumo rispetto al Vangelo di Tommaso e ne costituisca una critica. Lo stesso accenno ai chiodi è indiretta testimonianza di un vangelo tardo, elaborato in occasione del Concilio di Nicea, quando non si ricorreva più alla crocefissione come pena di morte: nei secoli precedenti il tormento della croce avveniva per appendimento, con corde, rarissimo se non ignoto l’uso dei chiodi.

    Il Concilio di Nicea

La fede! Nel suo trionfo sugli gnostici il cristianesimo ufficiale decretò la fine non soltanto dei miti classici, sostituiti da racconti biblici con la nuova cosmogonia della Genesi, ma il trionfo della pistis: quel credere che per gli gnostici, amanti del logos, è senza ragione, per sentito dire, proprio come nella vicenda di san Tommaso: il livello più basso della conoscenza umana, tipico degli incolti (l’atto d’accusa mosso da Celso ai Cristiani fanatici: Il discorso di verità). Il mondo romano, spiccatamente universalista, che aveva forgiato il grande impero cominciava lentamente a collassare nel proprio interno attraverso una lunga regressione culturale: un’esperienza mai più sperimentata nella storia, se non in questi tempi con la società planetaria, Come non ricordare le parole di Giacomo Leopardi? “Quello che uccideva il mondo era la mancanza dell’illusione. Il cristianesimo lo salvò non con una verità, ma con una nuova illusione”.

In realtà, tanto successo fu determinato dall’abbandono dell’esoterismo culturale, che inizialmente caratterizzava il cristianesimo, per un essoterismo volgare e generalizzato: non più sacre iniziazioni individuali con relativi percorsi di maturazione interiore, ma la facile promessa dell’immortalità a una popolazione analfabeta, amorfa e denazionalizzata. Un abisso tra la bellezza dell’estasi gnostica, comprensibile a pochi iniziati, e il rassicurante e totalizzante profetismo testamentario, facilmente comprensibile a folle immense riunite in assemblee dominate da una casta sacerdotale che ripetitivamente si autoincensava in rituali scopiazzati dai misteri eleusini (il pane e il vino…).

Accadde così che universalmente s’impose un’ortodossia intesa come totale acquiescenza ai dettami della chiesa trionfante: “i principi del libero pensiero furono respinti nella convinzione che ogni conoscenza umana proviene da Dio”. Emblematiche a riguardo le conclusioni di Agostino da Ippona, secondo il quale la mente umana, gravata dal peccato originale, è limitata nella sua capacità di pensare autonomamente e necessita della guida dei sacerdoti. Per molti secoli ogni forma di pensiero indipendente fu brutalmente soppressa e tacciata d’eresia

Il Vangelo secondo Tommaso, recentemente scoperto in Alto Egitto a Nag Hammadi con altri vangeli gnostici, raccoglie 121 detti di Gesù, noti come loghia da logos. Molti studiosi lo ritengono tra i più antichi vangeli noti, se non il più antico, per la mancanza di una narrazione e per la sua stessa struttura totalmente indipendente dagli altri vangeli. Per alcuni studiosi potrebbe essere stato scritto mentre Gesù era ancora in vita, non essendoci cenno alcuno alla crocefissione. Inoltre il genere letterario di questo vangelo, “la collezioni di detti”, è tipica del I secolo: lo stesso uso di parabole, prive di digressione allegorica, attesta la sua precedenza rispetto i vangeli canonici.



Un libro quasi privo di significato se non si tiene conto costantemente del percorso iniziatico esoterico: un messaggio che indica il Regno di Dio immanente nel mondo corrotto poiché opera di un demiurgo inferiore, e indica il modo per elevarsi da esso. Questo il regno dei cieli: la beatitudine interiore durante la vita terrena, preludio per una buona morte nella speranza della rinascita secondo la metempsicosi tipica delle dottrine neopitagoriche e neoplatoniche.

Nulla da condividere con il Paradiso e la resurrezione dei morti alla fine dei tempi. La luce di Gesù, autentica illuminazione, dev’essere cercata qui, sulla terra, e non in maniera propedeutica per l’accesso in un luogo fantasioso, immaginario, utopico. Il regno di Dio è dentro di noi e occorre scoprirlo ed esplorarlo in un percorso iniziatico costellato dai loghia sapienziali di Gesù riferiti in terza persona: "Gesù disse".

Il Vangelo secondo san Tommaso è probabilmente il più il più completo insegnamento gnostico del Cristianesimo. «Io vi darò ciò che occhio non ha veduto e orecchio non ha udito e mano non ha toccato e non ha mai dimorato nel cuore dell'uomo».

Come già accennato, il cristianesimo gnostico di questo Vangelo non prefigura la risurrezione dei corpi, ma una rinascita spirituale, assai simile ai mysteria eleusini e orfici. Un messaggio sospeso tra comunità esseniche, attive in Palestina ai tempi di Gesù, e confraternite gnostiche pitagoriche – platoniche, attive nella grande città di Alessandria in Egitto, per la comunanza d’ideali di povertà, vegetarianismo, astinenza sessuale, nella certezza di rinascita a nuova vita.

Lo gnosticismo, che fu una corrente di pensiero più greca che ebraica, caratterizzò il cristianesimo delle origini: ne costituì l’essenza, dotandolo di una religiosità fortemente iniziatica ed esoterica: più focalizzato sugli insegnamenti di Gesù che sulla sua vicenda terrena. Il Vangelo secondo Tommaso palesa una derivazione greca ermetica, priva della cosmologia mitologica di eoni, tipica in altri testi gnostici cristiani, che lo rende unico e straordinario.

Nel Vangelo di Tommaso Gesù è inteso come messaggero del Padre celeste in questo mondo ostile e malvagio, in cui l’umanità è bestia, peggiore delle stesse bestie. La sua missione non coinvolge l’intera umanità, irrimediabilmente perduta nel mondo malvagio di Yahweh: un’umanità che non può essere salvata, ma riguarda soltanto “gli eletti”: gli iniziati, i battezzati. In origine il battesimo era un rito fortemente iniziatico, che non differiva dai riti eleusini o orfici, concesso esclusivamente in età adulta soltanto a coloro che erano ritenuti idonei a riceverlo: i meritevoli. Soltanto in seguito, dovendolo impartire a masse ignoranti, fu svilito a pura formalità, e per essere infine riservato a neonati inconsapevoli.

Il Vangelo secondo Tommaso si presenza come una testimonianza diretta del Messia: «Sono queste le parole segrete che Gesù, il vivente, ha proferito e che Didimo Tommaso ha messo per iscritto». Identico incipit dell’altro vangelo attribuito a Tommaso, quello dell’atleta: «Sono queste le parole segrete che il Salvatore ha detto a Giuda Tommaso e che io stesso, Matteo, ho messo per iscritto, mentre passeggiavo, li udii discorrere insieme». In sintonia con il Vangelo di Giuda, anch’esso fortemente gnostico: «Spiegazione segreta della rivelazione che Gesù rese conversando con Giuda per una settimana, tre giorni prima di celebrare la Pasqua». Così pure nel vangelo gnostico di Maria, più precisamente Maria Maddalena: “Sorella, noi sappiamo che il Signore ti amava più delle altre donne. Comunicaci le parole del Salvatore che tu ricordi. Quelle che tu conosci e che noi ignoriamo, che non abbiamo udito” domandò Pietro e Maria Maddalena rispose “Quello che a voi è nascosto io comunicherò!” Ma Pietro dubitava: Gesù ha forse parlato in segreto a una donna prima che a noi? Ci dobbiamo ricredere tutti e ascoltare lei? Forse l’ha anteposta a noi?”

A cosa alludono queste parole segrete? Si tratta di un messaggio diverso dai vangeli tradizionali canonici: la salvezza può essere conseguita tramite l’abbandono del mondo umano bestiale, percorrendo una via iniziatica soggettiva nella propria interiorità, per conseguire che cosa? Il nosce te ipsum tipico degli gnostici e riconoscersi nella bellezza sublime di figli del Padre celeste, dopo esserci lasciati alle spalle le seduzioni del demiurgo inferiore artefice di questo mondo, identificabile tanto negli Dei pagani quanto nel Dio mosaico dell’Antico Testamento. Così inizia l’evangelo di Tommaso, annunciante la buona novella: “Gesù disse: chiunque trovi la spiegazione di queste parole non gusterà la morte”. “Gesù disse: Colui che cerca non cessi di cercare, finché non avrà trovato e allora sarà commosso, e quando sarà commosso contemplerà e regnerà sul Tutto”.

Secondo questi insegnamenti l’itinerario iniziatico avviene attraverso alcune: la comprensione di se stessi, l’adeguamento del proprio comportamento ai loghia di Gesù annunciati dal Vangelo di Tommaso, la conseguente elevazione mistica, l’immedesimazione nella bellezza redentrice di Dio e la partecipazione consapevole all’universo cosmico caratterizzato da poesia armonia e amore.

    Socrate

I testi gnostici attribuiti a Tommaso non furono estranei alla diffusione di una dottrina morale nota come encratismo: una religiosità nuova che, come già accennato, ebbe vasta diffusione nelle estreme terre occidentali dell’Impero Romano, soprattutto in Gallia, Spagna e Britannia, nei secoli III e IV, fino all’editto di Teodosio che decretò la pena di morte per tutti coloro che la professavano. Nel IV secolo Epifanio da Salamina attesta come gli Atti di Tommaso costituissero il testo più importante per i cristiani gnostici encratici. La parola greca enkràteia allude al «controllo di sé tramite la continenza», nell'accezione di Socrate, ovvero la capacità di padroneggiare istinti e passioni bestiali, intraprendendo un percorso iniziatico focalizzato eticamente sulla conoscenza di se stessi (il nosci te ipsum caro ai filosofi greci) alla ricerca della beatitudine del Padre Celeste.

Una ricerca gnostica intrisa di religiosità pauperistica, basata sulla purezza soggettiva in un mondo carnale dominato dal male: la stessa teologia che in seguito contraddistinse i Catari. Si tratta di un pensiero che ha le sue radici nella scuola pitagorica, fortemente iniziatica, nella rigorosa religiosità degli Esseni e nella scuola filosofica cinica che ebbe grande diffusione nell’Impero Romano.; forsanche nel remoto ascetismo indiano.

Tale fu la diffusione dell’encratismo cristiano connesso al vangelo di san Tommaso, che fu percepita come una minaccia per la classe sacerdotale sempre più trionfante, esattamente come accadde per i Catari nel XIII secolo. Quale parallelismo tra l’editto dogmatico dell’imperatore Teodosio e la crociata cismarina indetta contro gli albigesi da papa Innocenzo III. Il dogmatismo imposto dal Concilio di Nicea non tollerava altro che se stesso. Il cristianesimo, in origine simile a molti torrenti impetuosi (lo gnosticismo formato da innumerevoli limpidi ruscelli, fu imbrigliato da rigidi dogmi in un grande lento fiume che non avrebbe mai visto il mare della rinascita, per perdersi in un’immensa palude stagnante.

Gli gnostici encratici miravano alla purezza interiore, esattamente come i Catari, loro eredi, distaccandosi dalla materia corrotta e bestiale, opera del demiurgo malvagio artefice del mondo identificato in Yahweh negli gnostici cristiani e in Satana nei Catari. Come negare una velata sintonia con i riti orfici? Come non ricordare che la più antica raffigurazione di Gesù nelle catacombe di Domitilla corrisponde esattamente ad Orfeo: senza barba, giovane, con la lira in mano?



Gli gnostici cristiani ambivano ravvivare la scintilla divina che sta in noi: l’apollineo cruore di Dioniso dei riti misterici, liberandola dalla materia corrotta del corpo forgiato dal fango del demiurgo inferiore, corrispondente alle ceneri dei Titani dello gnosticismo pitagorico – platonico. Nei casi estremi, rari, si spinsero all’eccesso, similmente ai Catari: non soltanto rifiutavano di nutrirsi della carne di altri esseri viventi, come peraltro consigliato dagli esseni, i pitagorici, i riti iniziatici diffusi nell’Impero Romano, ma si spinsero a contestare il matrimonio, l’unione carnale tra uomo e donna, e al limite rinunciavano a procreare.

Nell’Apocalisse di Tommaso, similmente all’Apocalisse di San Giovanni accettato a Nicea e tuttora testo fondamentale della Chiesa, echeggia fortissimamente “Hic sapientia est! Qui habet intellectum, computet numerum bestiae. Numerus enim hominis est et numerus eius sescenti sexaginta sex”: Qui sta la Sapienza! Chi ha intelletto computi il numero della bestia. Perché è il numero è dell’uomo (dell’umanità), e il suo numero è 666). Un’umanità perduta: pochissimi gli eletti che saranno salvati per aver appreso i loghia segreti di Gesù ed essersi comportati di conseguenza. Una speranza di salvezza che prefigura la predestinazione, anche se ciascuno di noi sarà giudicato secondo le proprie opere.

Straordinario e illuminante l’ultimo logos del Vangelo di san Tommaso dove a parlare eccezionalmente è l’apostolo Pietro, che esorta: “Maria (Maddalena) sia allontanata da noi, poiché le donne non sono degne della Vita!” Gesù gli risponde “Ecco, io la trarrò a me in modo di fare anche di lei un maschio, affinché anch’essa possa diventare uno spirito vivo simile a voi maschi. Poiché ogni donna che diventerà maschio è degna di entrare nel Regno dei Cieli”.


Quante aberranti interpretazioni di questo passo! A cominciare da mito androgino platonico. Il messaggio è semplice: la donna, similmente all’uomo, è degna dell’illuminazione cristiana e merita d’intraprendere il viaggio iniziatico del soggettivo perfezionamento, che la conduce alla beatitudine della conoscenza divina rendendola simile agli uomini. La Maddalena non deve essere respinta, come propone non a caso Pietro e come continua la Chiesa trionfante, ma dev’essere accolta con la stessa dignità dell’uomo. Sono note, agli albori del cristianesimo, donne sacerdotesse raffigurate inequivocabilmente nelle catacombe.


L'anarchico e l'ebreo. Storia di un incontro

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    Chagall, Il violinista

Pochi sanno che tra la fine del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo s'è verificato un fenomeno di alto interesse storico e culturale: l'incontro apparentemente incongruo di due tradizioni estranee, quella anarchica e quella ebraica. Eppure quell'incontro c'è stato, dando luogo a un vero e proprio movimento ebraico-libertario, con decine di migliaia di militanti sparsi lungo la diaspora yiddish, tra la Russia e le Americhe. Nel 2000 a Venezia un Convegno internazionale, organizzato dal Centro Studi Libertari/ Archivio «G. Pinelli» di Milano, in collaborazione con il Centre International de Recherches sur l’Anarchisme (CIRA) di Lausanne ne ha ricostruito storie e percorsi. Materiali raccolti in un volume di Eleuthera di cui proponiamo il saggio introduttivo.

Amedeo Bertolo

Anarchia ed ebraismo

Tra la fine del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo s’è verificato un fenomeno di alto interesse storico e politico: l’incontro incongruo di due tradizioni culturali apparentemente estranee, quella anarchica e quella ebraica.

È un incontro poco noto e ancor meno studiato. Eppure c’è stato, soprattutto (ma non solo) in un contesto socio-storico abbastanza definito: dapprima nella «Zona» di residenza coatta (cioè quella parte, polacca, ucraina, baltica, ecc. dell’allora impero zarista) che è stata culla della cultura yiddish, vale a dire dell’ebraismo est-europeo. Poi, in modo via via crescente e quasi esplosivo, il processo di reciproca attrazione fra cultura ebraica e utopia anarchica si manifesta nella massiccia emigrazione yiddish verso l’Europa occidentale e le Americhe.

È soprattutto in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Argentina che il nascente movimento operaio ebraico, a cavallo dei due secoli, viene organizzato in modo quantitativamente significativo secondo
linee qualitative di ispirazione (o quanto meno fascinazione) anarchica. Decine di migliaia sono i membri delle organizzazioni sindacali e culturali libertarie, in Nord e in Sud America, e decine di migliaia sono i lettori di giornali anarchici yiddish. Tanti. Troppi per non essere qualificati come fenomeno storico, come «incontro storico». Perché questo sia avvenuto è tutto da indagare e discutere, e quest’antologia è un forte contributo a questo lavoro, il primo di tale ampiezza, a quanto ci risulti.



Cantava Léo Ferré, in Les Anarchistes: «Y’en a pas un sur cent et pourtant ils existent. / La plupart Espagnoles, allez savoir pourquoi». Chissà perché. Anche per il caso spagnolo, di forte incontro tra un popolo e l’idea anarchica (un incontro, uno dei pochi, di superamento di quell’«uno per cento»), ci sono stati vari tentativi di spiegazione, soprattutto di storici di formazione marxista che non riuscivano a digerire quella eccezione alle loro impostazioni storico-dialettico-materialiste.

Così, ad esempio, è stata addotta a spiegazione l’iberica tradizione religioso-messianico-apocalittica. Ma questo può forse valere per i contadini anarchici dell’Andalusia, non certo per gli anarco-sindacalisti catalani. Oppure la tradizione comunalista e federalista, repressa e risorgente. Oppure...

Così, anche per l’anarchismo ebraico ci sono stati e ci sono tentativi di ricondurre lo «strano incontro» a una tradizione messianico-apocalittica (prevalentemente chassidica, ma in realtà ricorrente). Oppure, interpretazione compatibile ma non necessariamente congruente con la precedente, l’incontro viene spiegato con l’impatto tardo-illuministico (cioè della Haskalah, la versione ebraica dell’illuminismo) su una cultura fortemente messianica. Per cui, il «popolo del verbo», il popolo della parola, scopre che la «parola» non è di dio, ma dell’uomo: un anarchismo come accelerato disincanto e reincanto del mondo...

La rivoluzione salvifica (secondo altre «parole», secondo un altro «libro») come nuovo messianismo? Ma, allora, come si spiega il fatto che l’anarchismo yiddish (quello più prossimo alla cultura messianica) si sviluppa secondo linee decisamente laiche (o dichiaratamente ateistiche) e positivistiche, poco o nulla millenaristiche? E come si spiega il fatto che, se c’è stato un anarchismo ebraico «religioso», «mistico» e comunque più tardo-romantico che neo-razionalistico, lo si trovi non nel movimento yiddish ma fra libertari mitteleuropei «assimilati», (ad esempio Landauer, Scholem, Buber...)?

Scrive Löwy, in proposito: «A partire dalla fine del XIX secolo, nella cultura ebraica della Mitteleuropa si vede apparire una corrente romantica... che si sentirà attratta più dall’utopia libertaria che dalla socialdemocrazia». E aggiunge che «una complessa trama di legami unisce romanticismo, rinascimento religioso ebraico, messianismo, rivolta culturale antiborghese e antistatalismo, utopia rivoluzionaria, socialismo, anarchismo».

Dunque, un intreccio complicato di fattori socio-culturali è più verosimile, come spiegazione dell’«incontro», che non una causa. Se no, come spiegare altri – e non marginali – aspetti dell’«incontro» come, ad esempio, l’emergere negli Stati Uniti di intellettuali libertari – di seconda generazione yiddish – come Paul Goodman, Julian Beck, Noam Chomsky, Murray Bookchin, Paul Avrich... di alta levatura e originale contributo di pensiero, in quantità e qualità superiori alle aspettative «statistiche»? Si tratta di figli di emigrati ebrei est-europei, certo, ma «emergono» quando ormai il movimento anarchico yiddish è sulla via del tramonto (Goodman) o è già tramontato definitivamente.

E, soprattutto, sono di formazione culturale tutt’altro che messianica e più americana, senza dubbio, che est-europea. Tra l’altro, è stata proprio questa «esuberanza» quali-quantitativa di intellettuali libertari di origine ma non, perlomeno apparentemente, di cultura ebraica che ha stimolato il Centro Studi Libertari di Milano a iniziare una riflessione e poi a organizzare quel Convegno internazionale di studi da cui è nata quest’antologia.

Un’altra spiegazione è stata data all’incontro tra l’anarchico e l’ebreo: la dimensione comunitaria e insieme individualistica della cultura e della vita ebraica (una coppia di contraddizione solo apparente, tipica anche dell’anarchismo).



Soprattutto viene sottolineata la natura comunitaria degli shtetl e dei ghetti. Scriveva Arnold Mandel, a proposito dell’ambiente anarchico francese: «Il mondo a parte degli anarchici, questo “nostro mondo”, mi faceva pensare, per certi tratti similari, a un milieu ebraico arcaico... In questo ambiente ho trovato virtù che erano presenti nella vita del ghetto». Ma «l’origine etnica e religiosa era priva di importanza».

Paradossalmente, quello che inizialmente attrae gli ebrei verso il movimento anarchico, cioè quella indifferenza alle origini etniche, quel cosmopolitismo (più ancora che internazionalismo: «nostra patria è il mondo intero», come dice una canzone anarchica italiana) diventerà, a un certo punto della strana storia dell’incontro, un elemento di disaffinità se non di inconciliabilità. È quando la «diversità» culturale ebraica comincia ad affermarsi anche in ambito libertario, ma soprattutto quando questa riflette in modo sempre più accentuato le più generali istanze nazionalistiche del movimento sionista, che anche nell’anarchismo yiddish dell’emigrazione si aprono fratture teoriche e pratiche di grande rilievo. Che raggiungono il loro apice con la fondazione dello Stato di Israele.

Nel frattempo... Nel frattempo, cioè tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, avvengono molte cose che, in modi diversi ma talora concomitanti e sinergetici, segnano l’evolversi e poi di fatto il chiudersi dell’«incontro» di cui stiamo parlando. C’è, nell’Europa occidentale, un rigurgito di antisemitismo (caso esemplare l’affare Dreyfus) che frustra le ipotesi assimilazionistiche. C’è, nell’Europa orientale un macabro e apparentemente inarrestabile ripetersi di pogrom. C’è la Rivoluzione russa. C’è, infine e del tutto ovviamente l’immane pogrom della Shoah.

Nell’emigrazione yiddish, oltre e talora insieme al sionismo, vanno facendosi egemoniche le organizzazioni politiche e sindacali socialdemocratiche e comuniste. In Israele i kibbutz, costituiti secondo principi sostanzialmente anarchici, prosperano ma disconoscono le loro radici libertarie... C’è, infine, l’integrazione culturale, linguistica, economica, sociale, politica dei figli di quei (non più) miserabili immigrati dell’Europa dell’Est, quella carne da sweat-shop che tanto ha contribuito alle organizzazioni e alle lotte libertarie. Quegli «emarginati» che sognavano una triplice emancipazione: in quanto proletari, in quanto stranieri, in quanto ebrei. Salvo eccezioni, anche notevoli, lo strano e magico incontro tra l’anarchico e l’ebreo è finito o s’è banalizzato.

(Da: Amedeo Bertolo (cur.), L'ANARCHICO E L'EBREO storia di un incontro, Eleuthera, Milano, p. 7-10)



Oltre che in libreria il volume può essere acquistato presso la casa editrice al seguente indirizzo: www.eleuthera.it


Italo Calvino e il regno fatato delle fiabe

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Nel 1956 Italo Calvino pubblicò la prima grande raccolta di fiabe italiane. Nel 1988 uscì postuma la raccolta dei suoi studi sulla fiaba come genere letterario. Riprendiamo un vecchio articolo (apparso in quell'occasione) che offre un quadro complessivo del percorso di Calvino autore di fiabe da quando, ormai in crisi con il PCI, trovò nel folklore una via di uscita dal realismo soffocante della cultura di sinistra di quegli anni.

Luigi Malerba

Con Calvino nel regno della fiaba


Nei primi anni Cinquanta, quando Calvino ricevette dall' editore Einaudi l'incarico di compilare, pescando nel nostro repertorio folcloristico, una grande raccolta di fiabe italiane sul modello dei fratelli Grimm, aveva pubblicato da poco Il visconte dimezzato che gli aveva subito procurato una gran fama di favolista.

Quel visconte Medardo di Terralba era stato scritto con allegria, ma anche con la precisa coscienza che l' uomo contemporaneo dimidiato, mutilato, incompleto, sono parole di Calvino, doveva ricomporre la propria unità interiore se non voleva soccombere. Era un modo diverso di porre i problemi della sopravvivenza in un paesaggio letterario percorso dalla epidemia del realismo populista sotto l' ombra lunga di Zdanov. Ma già Pavese e Vittorini veleggiavano sulle onde di un altro realismo, quello americano dei Caldwell Steinbeck Faulkner Saroyan Hemingway, importati in blocco con il piano Marshall ma arrivati già prima al seguito delle truppe americane sotto le copertine gialle e rosse del Council of Books in Wartime.

Calvino era sicuramente cosciente che il realismo, qualunque realismo, è una trappola assoluta, e non aspettava che l' occasione di fuga. Quando Pavese sentenziò che già nel Sentiero dei nidi di ragno prevaleva il tono fiabesco e aveva cercato di dirottare il giovane amico su quella strada, il dirottamento venne accolto con qualche esitazione. Non sorprende che Calvino avesse bisogno di conferme dall' esterno se pensiamo al suo debutto in area neorealista e, ancora, a quanti oscuri turbamenti abbiano sempre accompagnato la sua vena giocosa e fantastica.

Un incarico editoriale di quel genere presupponeva due qualità che è così raro trovare associate nello stesso individuo: la sagacia critica e raziocinante e la genialità dell' invenzione fantastica. Calvino a quel tempo aveva già mostrato la sua impronta fantastica, ma non era certo uno specialista di folclore, anche se le sue curiosità culturali lo avevano spinto a private esplorazioni nei territori della fiaba.

Si mise dunque al lavoro e, avvantaggiato in larga misura rispetto ai fratelli Grimm che avevano dovuto raccogliere dalla oralità popolare il loro repertorio di fiabe tradizionali, si immerse nella scelta e nella riscrittura dei testi dialettali raccolti nell' Ottocento e nel primo Novecento da più o meno illustri studiosi di folclore. Il suo lavoro si basò soprattutto sulla monumentale raccolta di Giuseppe Pitrè per l' area siciliana, su quella di Gherardo Nerucci per la Toscana, di Domenico Giuseppe Bernoni per Venezia e su altre raccolte regionali più o meno ricche, più o meno utili per i suoi scopi.


Finita l' opera di riscrittura, Calvino fu in grado di mettere a frutto le indagini fatte per il reperimento e la scelta delle fiabe, lo studio delle varianti e le ispezioni sulle origini storiche dei temi e dei personaggi, in un lungo saggio che servì come introduzione alla raccolta, uscita nei Millenni einaudiani nel 1956 con il titolo di Fiabe italiane. Ora questo saggio, insieme ad altri, è entrato a far parte del volume Sulla fiaba (Einaudi, pagg. 158, lire 14.000) che apre una nuova splendida collana di saggi brevi nella quale, in contemporanea a quelli di Calvino, vengono pubblicati testi di Kafka, Queneau e Nathalie Sarraute. Oltre a darci un quadro a vasto raggio sui vari aspetti della fiaba in Italia, regione per regione, questo saggio ci offre qualcosa di più prezioso e personale, come la riflessione sui metodi e le strategie adottate per portare a termine l' impresa.

In un terreno così incerto come la fiaba, dove un alone di arbitrarietà sembra avvolgere ogni discorso critico, il pregio di questo testo, e degli altri compresi nel volume, è anche quello di trascinarci dentro al mondo del fantastico con la stessa naturale leggerezza (nel senso che questo termine ha nelle Lezioni americane) e la stessa disinvoltura con cui si affronta il quotidiano, il concreto, il domestico. Con una sapienza rara dei vuoti e dei pieni, come in un romanzo o meglio come in una fiaba. Tutto questo ottenuto senza sprechi e con un vigore intellettuale che ha fatto di Calvino una presenza forte della nostra cultura, titolare di atteggiamenti non oracolari né mai clamorosi e perciò tanto più credibili.

Adiacenti a questo saggio centrale sono altri due saggi, il primo dei quali, dedicato alla tradizione popolare nelle fiabe, pone il problema della loro datazione storica e ripercorre, alla luce della nuova esperienza fatta sulle fiabe italiane, la vecchia polemica tra Propp e Lévi-Strauss se sia nato prima il mito o la fiaba. Un problema tuttora irrisolto ma che ci ha insegnato a leggere la fiaba in nuove prospettive di studio: luoghi, oggetti, atteggiamenti, ritualità, cibi, animali, lavoro, abiti, ci possono guidare a ritroso nel lungo percorso orale di una fiaba e offrirci informazioni preziose per scandagliare epoche lontane e prive di documentazione diretta.

L' altro saggio è quello dedicato alla Mappa delle metafore scaturito dalla rilettura del Pentamerone di Giovan Battista Basile, il capolavoro napoletano del Seicento nella bellissima traduzione italiana di Benedetto Croce, nel quale Calvino aveva trovato vari riscontri per le Fiabe italiane. La classificazione dei codici attraverso cui si articola l' operazione metaforica ci introduce nel laboratorio linguistico secentesco del Basile, ma insieme sortisce effetti di lettura a dir poco grotteschi.

Accostate l' una all' altra, le metafore dell' alba, che scompaiono a una lettura distesa del testo, ci sorprendono per il barocchismo esasperato, insospettabile in un narratore popolare e per di più dialettale: gli uccelli che annunciano il giorno sono i trombettieri dell' alba, il sole che compare all' alba insella i cavalli per correre le solite poste, il gallo che annuncia il giorno è lo spione del sole, all' alba vengono liberate le Ombre messe in carcere dal Tribunale della Notte e così via di metafora in metafora.

Qui si vede come Calvino sappia indossare, quando occorre, abiti notarili per allineare con precisione un po' maniaca le sue schede. Una precisione e una efficienza che Calvino definiva artigianale e alla quale annetteva una importanza smisurata, dimenticando di dire che l' artigianato vale ben poco quando non sia sostenuto da una fantasia come la sua. Narratore avventuroso e ardito esploratore di spazi ignoti, Calvino non ha mai dimenticato, riferisce Mario Lavagetto nella sua bella prefazione, che a uno scrittore conviene sempre agire un po' al di qua dei propri mezzi. Per quanto si possa dubitare di questo consiglio, effettivamente nei saggi ristampati in questo volumetto mancano del tutto quegli azzardi che ci si aspetterebbe da uno scrittore come Calvino. Ma forse è proprio questo senso della misura una delle qualità che rendono così solidi i suoi scritti anche a distanza di anni.


Simmetrico al saggio sulle fiabe italiane è quello sulle Fiabe del focolare dei fratelli Grimm, dove si rifà un po' la storia di quella popolare raccolta che era servita di modello per quella italiana. Una occasione per ricordare le polemiche, che accompagnarono la pubblicazione dei Grimm, intorno alla monogenesi e alla poligenesi della fiaba. Se si debba accreditare la teoria secondo la quale ogni fiaba sarebbe nata da un unico mito originario, se non addirittura in un unico luogo indicato nell' India come culla di tutto il folclore del mondo, oppure se la comune natura umana e la universalità dei sentimenti possa invece far pensare alla nascita della stessa fiaba in più luoghi e presso popolazioni e lingue diverse. Una controversia che ha impegnato studiosi di vari paesi, i quali poi, nel lungo percorso a ritroso alla ricerca delle origini, a un certo punto hanno dovuto arrestarsi di fronte alla barriera dell' ignoto.

Ma la cosa straordinaria è che la letteratura fiabesca, nata in antichità sicuramente preistoriche, prima cioè della scrittura, che ha attraversato oralmente popolazioni arcaiche e illetterate, che ancora si tramanda a voce in aree di culture primitive, sopravviva nell' epoca dei computers e, nel caso delle Fiabe italiane, sia riuscita recentemente ad ottenere un consistente successo editoriale proprio negli Stati Uniti, sia pure dopo l' avallo prestigioso di Gore Vidal. Spesso truci e paurose, queste Fiabe del focolare, un focolare che sa di zolfo, preoccuparono non poco i benpensanti connazionali dei Grimm che avrebbero preferito una scelta modellata sulla consolazione e sull' ottimismo, secondo una convenzione stereotipata delle predilezioni infantili.

E' curioso notare invece come Calvino non si esprima, in tutti i suoi saggi, sul destinatario privilegiato della fiaba: il bambino. Solo in un caso, riferendosi agli accenti erotici non infrequenti nelle fiabe della tradizione popolare, osserva: Nelle mie stesure, per le quali ho dovuto tener conto dei bambini che le leggeranno o a cui saranno lette, ho naturalmente smorzato ogni carica di questo genere. Per Calvino la fiaba è una faccenda molto seria che riguarda soprattutto gli adulti. Ma poi ci sorprende con le sue trascrizioni dove riesce a conservare un dettato straordinariamente semplice e insieme fantasioso, proprio come pretende il lettore infantile.

Per sua stessa ammissione, Calvino ha prestato molto del suo alle fiabe trascritte, ma appare altrettanto certo che dalle loro semplici ma efficaci strutture e dalle varianti e interpolazioni che di secolo in secolo, come una sperimentazione continua, le fiabe hanno incorporato, ha tratto vantaggiosi insegnamenti per i suoi libri facendosi a sua volta anello di una catena senza fine. Perché i testi trascritti non restano per questo cristallizzati, ma continuano a trasmettere i loro messaggi enigmatici e a trasmigrare in sedi letterarie che spesso diventano poi fonti per altre fiabe, come è stato dimostrato.



Le idee, le immagini, i personaggi della fiaba insomma sono protagonisti di un nomadismo perpetuo che testimonia la continuità di un desiderio infantile di fantasia che non è destinato a spegnersi nemmeno nelle epoche più turbolente. In coda a questo resoconto imperfetto del libro di Calvino vorrei segnalare un volume che sta per uscire presso l' editore Lubrina di Bergamo dove verranno raccolte le relazioni del convegno di San Giovanni in Valdarno sul tema Italo Calvino e la fiaba, e un altro in preparazione presso Garzanti su un altro convegno, sempre su Calvino, tenuto a Firenze nel 1987 per iniziativa di Alberto Asor Rosa. 

Nella prefazione al volume dell' editore Lubrina, Cesare Segre affronta uno dei nodi centrali della narrativa dello scrittore, vale a dire il divario tra reale e razionale e gli equilibri dialettici che gli hanno consentito, scrive Segre, di allargare la realtà, andando molto al di là di quanto ci sottopone la nostra esperienza: e allargare la realtà è anche conquistare spazi al fiabesco. Una conquista che riesce soltanto a chi sa utilizzare, come Calvino, la potenzialità combinatoria della ragione che, agendo sul reale, ne moltiplica le prospettive e ne accelera gli sviluppi.

Possiamo dunque intendere la fiaba come filtro del reale, deposito delle fantasie, dei desideri, delle ossessioni, degli enigmi, delle paure, dei sogni, delle trasgressioni degli adulti oltre che dei bambini, loro destinatari e committenti? Quando Calvino afferma che ogni vita è una enciclopedia sembra darci una conferma che anche la fiaba fa parte del nostro patrimonio genetico e che senza di essa, come succede per il sogno, l' uomo non può sopravvivere.

la Repubblica – 5 novembre 1988

Gli Anarchici nella Massoneria. Gli anelli libertari della Catena d'Unione

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La storia della massoneria è complessa e articolata risentendo fortemente del contesto culturale e politico dei singoli paesi in cui essa opera. In Francia massoneria e sinistra (anche nella versione più radicale) mantengono da sempre forti legami. Altrettanto si può dire dell'Italia fino al fascismo e alla messa fuorilegge della massoneria (e immediatamente dopo dei partiti politici) nel 1925. Oggi in Italia non è più così, ma in Francia nessuno si stupisce che il leader della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon sia un membro del Grande Oriente di Francia. Una tradizione antica a cui una casa editrice anarchica ha dedicato un interessantissimo volume che abbiamo trovato in rete e che proponiamo accompagnandolo con la nota introduttiva degli editori.

Nota degli Editori

Riservato a una diffusione interna, quest'opera fu edita una prima volta nel 1969 dalle Edizioni Cultura e Libertà con il titolo Gli Anarchici nella Massoneria o Gli Anelli Libertari della Catena d'Unione
Rivista e considerevolmente rimaneggiata, essa fu pubblicata, questa volta in un'edizione pubblica, nel 1978 dalle Edizioni Goutal-Darly, con il titolo attuale Il vessillo nero, la Squadra e il compasso.
Nel 1997 una sintesi delle due versioni fu pubblicata dalla casa della Solidarietà e della Fraternità di
Évry e dalle Edizioni Alternativa Libertaria. Esaurita la tiratura, abbiamo deciso di ripubblicarla, sotto forma di opuscolo, al fine di garantire la massima diffusione. Se queste pagine passeranno di mano in mano, noi avremo raggiunto il nostro obiettivo.
L'opera di Léo Campion resta unica e insostituibile. Certo, esistono numerose opere (di valore assai diverso) sulla massoneria. Così come la biblioteca anarchica è vasta e ben fornita. Ma, solo Léo Campion ha saputo mostrare come gli ideali libertari e massonici possano incontrarsi e completarsi a vicenda.



Ligustro...

La tristezza poi ci avvolse... Intervista a Francesco Guccini

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Gli ultimi fuochi sono quelli che bruciano più lentamente. Ricordo a Francesco Guccini un paio di nostri incontri persi nel passato. Ha l'aria svagata. E bruciori di stomaco che attenua con il carcadè: «Bevanda coloniale», ironizza. Come il chinotto, aggiungo. Siamo in cucina. Nella sua casa. A Pavana. Siamo alla fine di una storia. «Dove ci siamo visti?», chiede. Gli cito le occasioni e i luoghi. «Ah», fa lui e accarezza il gatto con svogliata tenerezza. È cortese, un po' assente: «Sono tre mesi che non fumo e dieci anni che non leggo» , dice trattenendo un' imprecazione. Pavana mi sembra lo sputo di un angelo tra due ali di Appennini. 


Francesco Guccini

Intervista di Antonio Gnoli


Perché hai scelto di ritirarti a vivere qui?
«È l’ ultimo luogo della mia resistenza: un paese che è stato infanzia e sogno, durezza e forza. Mi sembrava appropriato sceglierlo come il punto di approdo di tutta una vita».

Parli di resistenza, ma in che senso?
«Bisogna resistere: alle tentazioni inutili e dispersive; al degrado; allo svuotamento. Ma non sono qui per espiare, sono qui per testimoniare che è ancora possibile scegliersi una vita a misura».

Il rapporto con il paese com’ è?
«Direi buono: nessun assillo, nessuna pretesa di eleggermi a gloria locale. Un tempo, all’inizio del Novecento, qui vivevano settemila persone, ne sono rimaste poco meno di millecinquecento. Il paese si è svuotato. Pochi giovani. Pochi sogni. Poche prospettive. Un tempo qui venivano a villeggiare. Oggi la gente si vergogna di posti così. La cosa più desolante è il fiume qui sotto. Era pieno di vita; ma oggi non ci va più nessuno. Ma lui se ne frega e continua a scorrere lento. C’è solo un airone cinerino che ogni tanto vola a pelo e poi si pianta in mezzo. Impalato nell’ acqua, come un assurdo segnale di tristezza».

Sei nato a Pavana?
«No, i miei nonni ci vivevano. Sono nato a Modena. L’estate venivamo qui a villeggiare. A Modena sono rimasto fino a vent’ anni. Nel 1960 ci trasferimmo a Bologna. Mio padre che era impiegato alle poste approfittò di un’offerta di lavoro. E portò la famiglia con sé».

    Pavana, Il Mulino di Guccini

Come erano i rapporti con tuo padre?
«Poca roba. Era stato in un campo di concentramento a Ravensbrück vicino ad Amburgo. Non amava parlarne. Seppi in seguito che con lui c’erano stati Giovanni Guareschi e Gian Enrico Tedeschi. Fu un uomo duro. Un montanaro. Scarno di parole e di affetti. Però mi ha sempre lasciato libero di fare quel che volevo».

Anche la vita del cantante?
«Mi ha sorpreso quando accettò senza fiatare la mia scelta. Ma non è mai venuto a sentire un mio concerto. Io non l’ho mai incoraggiato e lui ha sempre fatto finta di niente. In fondo se ne è sempre fregato del mio successo».

Anche tua madre stessa linea di comportamento?
«Meno drastica. Lei una volta venne a sentirmi cantare. Mi esibivo a Porretta Terme, a pochi chilometri da qui. Nessun commento, nessuna emozione».

Quando hai cominciato a cantare?
«Mi pare nel 1964, o giù di lì. Fu il mio primo contratto di centomila lire al mese. Ora mi viene in mente l’unico commento di mio padre: quanto durerà? Sai, era un uomo abituato a dare del voi a mia nonna. La mia musica non era il suo mondo».

Al tuo mondo come arrivasti?
«Non fu un percorso lineare. A Modena mi iscrissi a magistero, feci un solo esame e poi cominciai a lavorare come assistente in un istituto per orfani di dipendenti postali. Il collegio era a Pesaro. Non è che fossi particolarmente entusiasta. Mi licenziarono. Dopodiché divenni cronista alla Gazzetta di Modena. Anni di precariato, addolciti dal fatto che la sera con alcuni amici, un piccolo gruppo di orchestrali, suonavamo nelle balere del parco. Poi venne il militare che ho fatto con il grado di sottotenente. Infine mi iscrissi nuovamente all’ università. Questa volta a Bologna. Mi mancava la tesi, che avevo chiesto a Ezio Raimondi. Ma non riuscii a finire. Le canzoni bussavano alla mia porta».

E tu apristi?
«Erano gli anni Sessanta, si formavano i primi gruppi musicali con affaccio nazionale. A Modena venne a suonare l’Equipe 84, sapevano che avevo scritto qualche canzone. Gli proposi Auschwitz e la presero. Contemporaneamente avevo dato ai Nomadi Noi non ci saremo. Tieni conto che non avevo una lira. Oltretutto non essendo iscritto alla Siae non potevo firmare le mie canzoni».

    Guccini e i Nomadi

Finì lì la tua collaborazione?
«No, ricordo che proposi alla Equipe Dio è morto, ma rifiutarono per paura che la canzone facesse troppo casino. Avevo pronta anche Un altro giorno è andato e Maurizio Vandelli, il leader del gruppo, sentenziò che Guccini non aveva più un cazzo da dire. E questo atteggiamento fece sì che si rafforzasse la mia collaborazione con i Nomadi».

Furono loro a cantare per primi “Dio è morto”.
«La cosa divertente è che mentre la Rai censurò la canzone, Radio Vaticana la trasmise più volte, fino a farla diventare un grande successo tra i nuovi cattolici».

Dietro quella canzone c’ erano le tue fascinazioni americane.
«A che ti riferisci?».

Con ogni evidenza a “Urlo” di Allen Ginsberg.
«Sì, la Beat Generation è stata importante, ma una canzone è pur sempre una canzone: un prodotto autonomo. Ed è inutile appesantirla di significati letterari. Anche se ho un’ amica, grande esperta delle tragedie di Alfieri, che sta facendo un lavoro da critica letteraria sulle mie canzoni».

E tu come hai reagito?
«Beh, che devo dirti: mi fa piacere sapere che le mie non sono solo canzonette. La verità è che quando si parla di Guccini alla fine è per una decina di canzoni che ha scritto».

Come giudichi le tue prime?
«Tecnicamente parlando Auschwitz e Dio è morto non sono belle canzoni. Sono testi piuttosto semplici. Ne ho realizzate di più complesse».

Come è nata “La locomotiva”?
«Per delle strane combinazioni. Lessi le memorie bolognesi di Romolo Bianconi, un lavoratore che raccontando la sua vita scrisse di un ferroviere anarchico, Pietro Rigosi, cui avevano amputato una gamba che decise di impadronirsi di un treno per farlo saltare. Fu una ballata, contro le ingiustizie sociali, che scrissi in mezz’ ora. Arrivai alla fine e mi accorsi che mancava l’ ultima e la prima strofa: “Non so che viso avesse e neppure come si chiamava…”. In quel periodo cominciai a cantarla alla Osteria delle Dame».


È stata una canzone emblema che ti ha identificato con il Sessantotto. Che giudizio dai di quel momento?
«Per me è stato un periodo positivo. Sono cambiate molte cose, a cominciare nei rapporti tra i due sessi. Penso che il ’68 ha trasformato la società».

Migliorandola?
«In certe cose sì, in altre no. Se penso alla scuola e all’ università vedo i disastri che la morte del merito ha provocato. Non ci siamo ancora ripresi».

Le canzoni fanno la rivoluzione?
«Non scherziamo, al più la accompagnano come nel caso di Bandiera rossa. Un canto tecnicamente brutto, ma messo in un certo contesto può perfino commuovere».

Ti commuove ripensare a una canzone come “Eskimo”?
«Un altro emblema di quel periodo, ma del tutto involontario. Comprai l’ indumento nel 1963 al mercatino di Trieste. Avevo finito il militare. Costò diecimila lire e veniva indossato dai soldati americani nella guerra di Corea. Anni dopo mi sono ritrovato in un mondo di eskimo. Ma ti assicuro che il mio era innocente. No, non mi commuove, semmai mi dà emozione una canzone come Incontro ».



I nostri miti morti ormai…” così scrivevi.
«Era la storia di un’ amicizia tra un uomo e una donna».

Ho sempre pensato che fosse una tua storia d’ amore.
«Parlava di una ragazza che ora vive negli Stati Uniti e che allora viveva a Modena. C’ era molta complicità tra noi. Poi si trasferì a Bologna. Sposò un americano. E sparì per un po’ di tempo. Un giorno mi telefonò per dirmi che il matrimonio era andato a pezzi e lei lo aveva lasciato. Lui si uccise. E a me venne in mente di scriverci su una canzone ».

Ti piacciono i ricordi?
«Sono uno che ricorda spesso. La memoria è un bel motore che mi ha consentito anche di scrivere diversi libri. Tre romanzi che hanno al centro rispettivamente Pavana, Modena e Bologna. Ricordo meglio il passato remoto e non è male che certe cose rimangono e altre spariscono».

Perché hai lasciato Bologna?
«Era un’ altra vita. Qui a Pavana vado a letto alle undici di sera. A Bologna rincasavo alle cinque del mattino».

Musica, cibo e vino.
«Anche donne e carte. Giocavamo in osteria fino a notte fonda. Senza mai mettere in palio nulla: neppure un caffè».


Hai pubblicato da poco la raccolta delle canzoni che cantavi all’ Osteria delle Dame.
«Sono tre cd che racchiudono una manciata di anni. Quando pochi mesi fa sono tornato alle “Dame” mi sono commosso. Ma è stato come vedere un altro Guccini».

Un altro in che senso?
«Ho smesso di scrivere canzoni. Da anni non tocco più la chitarra. Tira tu le conclusioni».

Hai smesso con quale giustificazione?
«Mi sono accorto che le canzoni non uscivano più con la stessa voglia e intensità. Facevo sempre più fatica a riempire un album. E ho capito una cosa semplice: non ho più niente da dire. Almeno su quel versante là».

Come hai vissuto questa rinuncia?
«All’inizio male, poi mi sono abituato. Ho perfino tentato di riprendere. Ho scritto una nuova canzone per i Nomadi. Ma preferisco scrivere libri. Con Loriano Macchiavelli siamo all’ottavo giallo. E poi ci sono i miei romanzi».

Scusa se insisto, ma chiudere una porta così importante come la musica non ti dà dolore?
«No, mi dà dolore o angoscia non avere più l’ età che avevo. E guarda non avevo neanche la paura di fallire. Se le canzoni venivano, bene sennò pazienza».

Quindi ti sei ritirato qui a Pavana.
«Un posto che amo. Anche Bologna è stata molto importante».

Chi vedevi a Bologna, di chi eri amico?
«Le osterie erano porti di mare. Ti arrivavano attutite queste onde umane».

Frequentavi Augusto Daolio, il leader storico dei Nomadi?
«Non molto, ero più legato a Beppe Carletti. Frequentavo Claudio Lolli. Sono amico di Zucchero e di Ligabue, molto diversi ma con una base contadina in comune. Poi c’ era Lucio Dalla che veniva qualche volta a mangiare da Vito. Odiava la campagna. Mi diceva: ma cosa vai a fare a Pavana? Niente che ti piaccia, gli rispondevo».



A Bologna ne hanno fatto un mito.
«Sai quando uno muore è facile che diventi un mito o un aspirante mito. Lucio era uno strano personaggio. Eravamo molto diversi, due mentalità diverse. E credo che non abbiamo mai legato veramente. Aveva una capacità polimorfica; però alla fine anche lui faceva una certa fatica a scrivere canzoni. Era dotato di una voce secondo me bellissima».

Ti dà fastidio rievocare certe cose?
«No, anzi. Mi dà fastidio la richiesta di foto, i selfie che non sopporto. Ma cerco di essere gentile».

Che cos’ è la sopportazione?
«È l’ arte di non incazzarsi. E poi, dopo una certa età, si sopportano molte più cose».

Alludi alla tua vecchiaia?
«Se ne va poco per volta la prestanza fisica, arrivano gli acciacchi. Oggi faccio fatica a camminare e non ci vedo quasi più. Non riesco a leggere e ho bisogno di qualcuno che lo faccia per me».

Siamo a conversare nella tua cucina. Che rapporto hai con il cibo?
«Non sono quel che si dice un raffinato gourmet. Mi piace la cucina dei miei nonni. Non se ne può più di questi chef, che se uno perde una ” stella” scoppia una tragedia. Sono un uomo semplice di gusti semplici».

Hai scritto una bellissima canzone sui vecchi.
«Adesso sarebbe pura autobiografia».

Quanto ti piaci?
«Poco. Non ho orgoglio di me né autostima. Deve essere stata l’educazione repressiva di mio padre. Solo verso la fine della sua vita ci siamo incontrati veramente. Un giorno mi disse: avrei tanto voluto che tu facessi lo storico. E invece sono uno che ha scritto canzoni. Ma lui, intendo mio padre, avrebbe voluto fare il maestro. Finì in un ufficio postale. Non sempre le vite corrispondono ai nostri desideri».

La Repubblica/Robinson – 31 dicembre 2017



Cosa c’entra la Befana con l’Epifania?

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La Befana vien di notte....

Paolo Magliocco

Cosa c’entra la Befana con l’Epifania?

In effetti, niente. La Befana ha in comune con l’Epifania solo il fatto che il suo nome è una storpiatura di quello della festa del 6 gennaio. Per il resto, la storia della ricorrenza collegata all’adorazione di Gesù da parte dei magi e quella della vecchina vestita di stracci che distribuisce dolci ai bambini buoni nelle calze volando su una scopa non sono collegate in alcun modo.

Epifania in greco significa apparizione ed è una parola che è sempre stata collegata alla manifestazione di una qualche divinità. In questo modo la parola è passata anche nella tradizione cristiana. All’inizio era collegata non solo alla nascita di Gesù, ma anche al suo battesimo da parte di Giovanni Battista e al primo miracolo delle nozze di Cana, perché questi due episodi, che segnano l’inizio della predicazione di Cristo, avrebbero manifestato la sua natura divina da adulto. Oggi però l’Epifania festeggia solo all’arrivo dei saggi dall’Oriente (che nel Vangelo non si dice quanti fossero) con i loro doni (che invece sono indicati come tre: oro, incenso e mirra) davanti al bambino. Il battesimo di Gesù è stato invece spostato alla prima domenica successiva (quest’anno sarà domani), anche se le Chiese ortodosse continuano nella tradizione di festeggiare le ricorrenze insieme.

La collocazione al 6 gennaio, dodici giorni dopo il Natale, sarebbe legata al significato magico del numero 12, ma forse anche alla fine delle celebrazioni dei festeggiamenti per il Solstizio e il culto di Mitra voluti dall’imperatore Aureliano, che iniziavano il 25 dicembre.

La Befana, invece, viene da tutt’altra tradizione. La donna che vola su una scopa avrebbe a che fare con culti dell’antica Roma legati alla dea Diana, protettrice dei boschi e della natura, e a riti per la fertilità dei campi: donne volanti nelle notti dopo il solstizio d’inverno avrebbero portato prosperità dei raccolti. Le fonti su questo sono molto incerte.

Di sicuro i riti della Befana sono diffusi in tutta Italia dal Medioevo e spesso hanno a che fare con fuochi e falò. In tempi più recenti, al suo successo nel nostro Paese ha contributo anche il fascismo, con la “Befana fascista” istituita nel 1928: una festa per i bambini organizzata sfruttando una serie di tradizioni e manifestazioni che già esistevano. All’estero invece della Befana quasi non c’è traccia e l’Epifania riguarda solo i magi. L’unica parente stretta della vecchia vestita di stracci è Perchta, o Berchta, una donna a volte giovane e bella e a volte vecchia e brutta che in tutta la regione della Alpi, dalla Svizzera alla Baviera e all’Austria, si comporta un po’ come la Befana, volando, entrando nelle case, portando doni ai bambini.

E però in Spagna, dove la Befana non c’è, i magi portano regali e ai bambini cattivi o bugiardi consegnano carbone, spesso carbone dolce, proprio come succede da noi. Mentre nel mondo anglosassone la calza serve per i regali di Natale. 


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I comunisti sulla Luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa

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    Laika, il primo essere vivente lanciato nello spazio (1957)

Cosmonauta”, bel film italiano del 2009 raccontava la scoperta della vita da parte di un'adolescente romana attraverso l'identificazione con il mito sovietico della conquista dello spazio. Ed in effetti all'inizio degli anni '60 la tecnologia russa sembrò trionfare, prova della superiorità del sistema sovietico, e molti ci credettero. Poi gli Americani rimisero le cose a posto. Un libro, «I comunisti sulla Luna» , racconta questo episodio della guerra fredda

Massimo Raffaeli

Il mito sovietico dello spazio

Chi oggi non è più un ragazzo può ricordare che negli anni sessanta alle cagnette veniva imposto preferibilmente, specie nelle regioni rosse, il nome di Laika. Erano bastardine ubicate in casa di comunisti o, per meglio dire, di militanti filosovietici del Pci. La prima Laika non aveva un pedigree, pare fosse una randagia per le vie di Mosca, una bastardina e però molto sveglia, resistente, che qui a molti rammentava Flaik, il cane di Umberto D. nel film di Vittorio De Sica, che i nostri democristiani, e ovviamente filoamericani, avevano ritenuto un agente criptosovietico o un delatore sotto copertura della miseria italiana.

Laika fu imbarcata nella capsula spaziale Sputnik 2 il 3 novembre del 1957 e fu il primo essere vivente a orbitare nello spazio mentre il suo lancio festeggiava in maniera trionfale il quarantesimo anniversario dell’Ottobre rosso. Nello spazio morì, venne immolata nella soddisfazione della burocrazia sovietica come nell’ammirazione di quanti immaginavano nel suo musetto arguto e inerme un gesto di sfida e ormai una vittoria, nella incipiente corsa allo spazio, sul capitalismo americano e la sua poderosa macchina industriale-militare.

Ma Laika è appena il battistrada di colui che pare esclamasse, volitando fra il Pianeta blu e la Luna Rossa, «di quassù la terra è bellissima, senza frontiere né confini» ovvero (ma qui l’affermazione è meno certa e sa troppo di ateismo di stato) «quassù non c’è nessun dio», vale a dire Jurij Gagarin, il primo uomo lanciato nello spazio il 12 aprile 1961, l’eroe della destalinizzazione e il talismano anti-Kennedy, di schiette origini proletarie, già impegnato da bambino nella Resistenza antinazista, poi primo della classe in aviazione, dotato di una straordinaria tempra psicofisica, insomma un modello ideale per Nikita Chrušcëv e la Nomenklatura, un eroe da brandire contro la corrotta nonché ritardataria rincorsa degli yankee.



Una ragazza gioviale

Non basta, perché c’è un terzo tempo, che al suprematismo del Cremlino sembrò definitivo, e incarnato addirittura da una donna, Valentina Tereškova, la prima cosmonauta (gli americani viceversa dicevano «astronauta») il cui lancio risale al 16 giugno del ’63. Valentina ha soltanto ventisei anni, è una ragazza gioviale, gradevole, e il suo aspetto contraddice lo stereotipo, vulgato in Italia dai grandi giornali borghesi o dai fogli neofascisti come «Candido», della donna sovietica rozza, asessuata o semmai decisamente mascolina. Il mito sorridente di Valentina sembra proclamare una vittoria ma, involontariamente, annuncia l’inizio della fine: sei anni dopo, quando al Cremlino è ben insediata la cricca neostalinista di Leonida Breznev, saranno infatti gli americani, il 20 luglio del ’69 con l’equipaggio dell’Apollo 11, a mettere per primi piede sulla luna e dunque a stravincere la battaglia dello spazio che in effigie anticipa la conclusione della stessa Guerra Fredda.

Di tutto questo tratta, con dovizia bibliografica e documentaria, un bel volume di Stefano e Marco Pivato: I comunisti sulla Luna L’ultimo mito della Rivoluzione russa (il Mulino «Intersezioni», pp. 239, € 16,00), diviso in due parti, l’una concernente la ricezione italiana del mito aerospaziale sovietico l’altra invece dedicata, in maniera sintetica ma davvero limpida, alla cronologia e alla fisionomia dei rispettivi protagonisti di quell’epico contenzioso.

Non è certo un caso che, al di là dei progetti pionieristici, tutto prenda davvero avvio nella primavera del 1945, a Peenemunde, in territorio tedesco. Lì i soldati liberatori del leggendario Zukov requisiscono quanto rimane in deposito delle micidiali V2 lanciate contro l’Inghilterra e il Belgio in attesa della megabomba, presagita e mai costruita, con cui Hitler negli ultimi giorni del proprio delirio minacciava di sterminare gli alleati e con essi il genere umano.

Fatto sta che il progettista ha lasciato orfani i suoi ordigni solo per consegnarsi, con i più stretti collaboratori, agli americani. È sempre stato un nazista osservante se non proprio fervente, si chiama Wernher von Braun ed essendo un genio pragmatico della missilistica, non un semplice cumulo di deiezione organica quale per esempio il suo superiore feldmaresciallo Goering, anziché impiccarlo gli americani lo assumono.

Pochi anni e sarà l’onnipotente responsabile della Nasa nonché il bersaglio grottesco di un ex pilota dell’aviazione britannica, Peter George, nel soggetto de Il dottor Stranamore (tradotto al cinema, tutti lo sanno, da Stanley Kubrick) che comincia con una diagnosi presaga: «Due grandi nazioni possedevano, fra tutte e due, il novantacinque per cento della potenza atomica, sia per le armi in sé, sia per i mezzi necessari per portarle a destinazione. Le due potenze non erano in rapporti amichevoli, e questo è per noi difficile da comprendere, perché entrambe erano rette da sistemi politici che ci sembrano fondamentalmente simili». Sia detto ora per allora, niente affatto simili ma senza dubbio equipollenti perché la corsa allo spazio, come attesta lo studio di Stefano e Marco Pivato, fu un conflitto da entrambe le parti annunciato senza essere direttamente combattuto.

    Yuri Gagarin, primo cosmonauta (1961)

Burocrazia elefantesca

Se gli americani subirono un danno decennale di immagine è per avere concentrato in un primo momento ogni sforzo tecnico-economico sull’aviazione e sulle armi, convenzionali e nucleari: all’opposto, se alla lunga i sovietici dovettero soccombere è non solo per l’enorme inferiorità delle risorse a disposizione ma per l’invadenza dispotica dell’apparato politico e per l’elefantiasi di una burocrazia pressoché zarista.

Perciò, censiti da Stefano Pivato nella prima parte del volume, oggi sul serio stringono il cuore e danno da pensare le reazioni plateali della base come più in generale della intelligenza comunista, in Italia, di fronte alle imprese di Laika, di Gagarin e di Valentina, tanto più se le calcoliamo cronologicamente situate fra la repressione dei moti in Ungheria, la costruzione del Muro di Berlino e la incipiente glaciazione brezneviana.

Il mito dello spazio era evidentemente una ideologia e perciò, in senso strettamente marxista, tanto una falsa coscienza quanto un resarcimento fantasmatico. Sono implicati in una simile apologia scrittori che abbiamo molto amato, come Gianni Rodari, e pochi fanno sul serio eccezione (tra costoro, vale ricordarlo, Lucio Lombardo Radice).



Nel libro non è comunque menzionato l’omaggio più vistoso a firma di un futuro Premio Nobel, Salvatore Quasimodo, il quale su commissione dell’Unità (teste il critico Gian Carlo Ferretti, allora redattore del quotidiano, che ne parla nell’autobiografia Una vita ben consumata, Aragno 2001) scrisse all’impronta per lo Sputnik 1 i versi intitolati Alla nuova luna (poi nella raccolta La terra impareggiabile,1958) dove si legge che tale impresa rinnovella la creazione del mondo e che un dio redivivo «senza mai riposare / con la sua / intelligenza laica, / senza timore, nel cielo sereno / d’una notte d’ottobre, / mise altri luminari uguali / a quelli che giravano / dalla creazione del mondo. Amen». Sono per l’appunto versi auto-evidenti, si commentano da soli.

È vero che la fantascienza americana di quegli anni ridonda di comunisti travestiti da marziani ma è anche vero che il primo a dare notizia dello Sputnik sulla stampa del Pci fu Pier Domenico Colosimo e cioè Peter Kolosimo, il pioniere, è detto tutto, della fanta-archeologia.


Il Manifesto/Alias- 31 dicembre 2017

Arrivano i Re Magi, i primi Rosa Croce

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    Ravenna San Vitale

Come il compasso e la squadra l'allegoria dei Magi ricompone ciò che è disperso alla ricerca dell'armonia primigenia. I Re Magi rappresentano la Rosa sapienziale all'incontro con la Croce simbolo dell'eternità del principio vitale. Tra massoni e Rosa Croce una interpretazione affascinante e attualissima della leggenda che ci ricorda come l'attenzione all'uomo (la pietas) sia il punto di partenza di ogni percorso di ricerca e perfezionamento. "Si dice Maestro, ma non sa ascoltare: la sua parola non ha fondamento", dice un detto orientale. Un invito a mettersi in ascolto, a cogliere la voce di chi non ha voce, ci piace leggere così il bel testo di Salinari che proponiamo oggi.

Raffaele K. Salinari

Arrivano i Re Magi

Nel Vangelo di Matteo, e solo in quello, si narra la storia dei Re Magi. Scritto ad Antiochia, questo testo apologetico subisce evidentemente le influenze della grande comunità zoroastriana presente in città. I Maghi sacerdoti erano tra le figure centrali di questa antica religione, incardinata nel moto degli astri, ed ordinata dagli eventi che si svolgevano «nei cieli, cosi come in terra».

Partono dunque i Re Magi, sacerdoti e sapienti, si incamminano da Oriente verso l’annuncio di un prodigio seguendo un segno astrale. Li muove la fede, cioè la forza in un disegno superiore, che tutto connette; non sanno cosa o chi troveranno ma sanno che solo andando, mettendosi in cammino, troveranno.

I loro doni hanno un valore simbolico archetipico: da una parte troviamo l’oro, che simboleggia la regalità, cioè l’eternità della Vita, della Zoé, nella sua continua ricreazione, nella sua insopprimibile ciclicità. Alla polarità opposta ecco invece la mirra: simbolo della morte, essenza con la quale si conservavano i corpi, di sapore amaro come il transito verso l’oltre tomba. Ed infine, nel mezzo, l’incenso, che bilancia gli altre due elementi; simbolo della purificazione, ovvero del percorso di una vita che vuole arrivare alla morte in modo consapevole, chiudendo un ciclo affinché se ne possa aprire un altro.

Il Bambino, cui rendono omaggio, non «adorato» come erroneamente viene tradotta l’originale parola greca questo significa, è il destinatario altrettanto simbolico a cui i doni sono destinati: per questo a sua volta morirà e risorgerà in ogni cosa, in ogni altra vita, come ciascun essere consapevole della propria esistenza, del proprio esserci.

I Re magi rappresentano dunque la rosa, la rosa tea, la sapienza orientale, e la portano verso la croce, simbolo sia della realtà contingente, manifestata, le sue braccia orizzontali, sia di quella trascendentale, che riflette l’infinità spirituale del Principio creatore attraverso quello verticale. E sarà cosi, molto secoli dopo, che la Confraternita dei Rosa Croce richiamerà per così dire i Magi al loro ruolo di testimoni nelle nozze necessarie tra scienza e fede.

E dunque, come dice Gesù nel Vangelo apocrifo di Tommaso, i Magi si mettono in cammino: «mettevi in cammino, andate oltre, inoltratevi», perché solo nel viaggio, nel pellegrinaggio verso se stessi, agito nelle vie del mondo, ci sarà la salvezza. Ed allora oggi chi porta i doni al Bambino luce del Mondo? Chi è questo bambino? E chi sono i Magi in cammino seguendo il prodigio della stella che illumina la strada?

Ieri, nella situazione storica della Palestina dominata dai Romani e dall’odio di Erode che fa strage di innocenti perché cosi crede di fermare la Vita che continuamente rinasce, così come oggi nel mondo delle nuove schiavitù e dei corpi migranti, il Bambino è ogni bambino ed i Magi chiunque sia in cammino per rendere omaggio alla Vita trovando per se stesso una nuova vita, per poter «far girare i propri talenti».

Dalle ascendenza iraniche alle scuole misteriche di Oriente ed Occidente, il viaggio del Magi si rispecchia così ancora una volta nella forza dell’esistenza, nella nuda vita di ogni persona che non si ferma dinanzi a nulla perché mosso dalla fede nella Vita e ed in se stesso come parte di essa. In ogni migrante rifulge ciò cui resero omaggio i Magi: la vita che vuole esistere, exsistere, cioè uscire, levarsi (dalla terra) e quindi apparire, essere nel Mondo, essere la luce del Mondo.

L’oro della regalità brilla allora in ogni bambino da qualunque parte arrivi o nasca, la mirra servirà a ricordare il nome dei morti, e l’incenso a purificare i miasmi del razzismo e dei settarismi di chi professa a volta fedi trascendenti ma vuote di ogni contenuto immanente.

Ogni giorno dunque i Magi arrivano, perché ogni giorno qualcuno si mette in cammino seguendo la stella del proprio destino, ogni momento rinasce il Salvatore in ogni creatura che ha bisogno di aiuto poiché chi lo accudisce trova la strada per essere pienamente se stesso.

Tutto questo, l’allegoria dei Magi e dei loro doni al Salvatore, ricompone così, come il compasso e la squadra della simbologia latomistica, ciò che è sparso, spesso artatamente, tra chi crede in un Dio trascendente e chi invece nella saggezza della Madre Materia. Poiché, a ben vedere, se si percepisce l’intento che sottende al Tutto, chi è alla ricerca di un «altro mondo possibile», che sia questo o quello che verrà, deve comunque mettersi in cammino ed onorare i Magi ed Il Bambino in ogni luogo ed in ogni momento.


Il Manifesto/Alias – 6 gennaio 2017

Porto Maurizio. La leggenda della finestra che non c'è

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Giorgio Amico

Porto Maurizio. La leggenda della finestra che non c'è

Dalle Logge di S. Chiara ci si perde nell'azzurro. Soprattutto al tramonto, abbagliati dal sole che si getta nel mare di Francia. Da sempre porto nel cuore i tramonti della mia infanzia portorina. Non ne ho mai visti di più belli, in nessun luogo dove sono stato.

Sarà il fascino delle ombre disegnate dalla arcate, sarà l'eco del canto dolce delle monache che ancora in certe ore si sente risuonare sotto le volte, o forse solo il fatto che lì ho le mie radici, che solo lì mi sento davvero a casa.



Fai attenzione, se vai a giocare suttu a loggia de munaghe, diceva mia nonna. Potresti vedere la finestra che non c'è.

Una fiaba, forse l'eco di una antica storia d'amore. Lui giovane marinaio, partito per approdi lontani e mai più tornato, perso in quel mare tanto azzurro. Lei, che dal dolore si fa monaca, ma ancora lo attende e ogni tanto appare alla finestra che non c'è. Nelle mani tiene gli arnesi da ricamo, ma gli occhi fissano il mare alla ricerca di quella vela che saprebbe riconoscere fra mille.

Un attimo e la finestra scompare. La piccola suora innamorata ritorna al suo dolore senza tempo. Ma un giorno, è certo, lui tornerà e allora la finestra non scomparirà più e tutti potranno vedere la giovane suora sorridere.

Così terminava il suo racconto mia nonna. Lei, che quella finestra mai aveva vista, a quella storia credeva fermamente. Doveva essere di certo così, perché, diceva, la vita degli uomini è attesa e speranza. Quella fiaba mi piaceva tantissimo, anche se il finale mi intristiva. Mia nonna se ne accorgeva e allora, per farmi ridere, si metteva a cantare buffe filastrocche in dialetto.

Quelle filastrocche le ho dimenticato, ma non la felicità malinconica di quei momenti e il profumo dolcemente salato del vento che veniva dal mare.





Cenerentola vola al sabba delle befane

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La principessa sconosciuta e la sua fuga a mezzanotte, i roghi delle streghe, la zucca magica di Seneca: il volto rimosso di una festa femminile. Ancora un interessante articolo sui miti e le leggende che stanno dietro alla tradizione della Befana, con correlazioni che spaziano da Cenerentola a Freud.

Silvia Ronchey

Cenerentola vola al sabba delle befane

«Certe scellerate», si legge nei manuali ecclesiastici del Medioevo, «sostengono di cavalcare la notte insieme a Diana, dea dei pagani, e a una gran moltitudine di donne; di percorrere grandi distanze nel silenzio della notte profonda; di obbedire agli ordini della dea come se fosse la loro signora». Una misteriosa signora, che nei documenti processuali è detta anche “Madona Horiente”. Sono i residui della “religione dianica”, il culto precristiano di fertilità e guarigione, che gli studiosi hanno riconosciuto nelle descrizioni popolari del sabba.

Cos’ha a che fare il sabba, quel volo notturno di donne nel cielo stellato per siderali distanze dello spazio-tempo che ancora oggi i residui del folklore popolare celebrano nella notte della cosiddetta Befana, con la venerazione di Diana, Artemide, Ecate? Che cosa hanno in comune con la Dea Bianca, la grande divinità femminile che pervadeva la devozione degli antichi? Con quella bona dea o bona domina (“buona signora”), il cui nome ancora risuona nelle risposte agli interrogatori quattrocenteschi delle contadine del Trentino di cui ci narra Nicola Cusano, il grande filosofo e vescovo di Bressanone, e di qui Carlo Ginzburg in un libro ormai classico, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, ora ristampato da Adelphi?


Fin dall’alto Medioevo la donna era levatrice, medico, chirurgo, aveva tramandato di madre in figlia il lascito “magico” dell’antica sapienza che era stata di Medea e di Elena di Troia. All’inizio dell’età moderna due domenicani, Heinrich Institor Kramer e Jacob Sprenger, scrissero il Malleus Maleficarum, il “Martello delle streghe”, il più celebre e consultato tra i manuali degli inquisitori, in cui si spiegavano i malefici operati dalle streghe, i mezzi per riconoscerli, i sistemi per interrogarle e tutte le crudeli torture per estorcere loro confessioni quasi sempre false.

In Europa, tra il XV e il XVII secolo, decine di migliaia di donne furono messe al rogo. In passato del resto la chiesa si era domandata se «questo individuo bizzarro» che è la donna, «così diverso dall’uomo come lo è la scimmia della foresta, potesse aspirare al titolo di creatura umana, e se potesse ragionevolmente accordarsi con lui», come ricorda alla fine del Settecento il marchese de Sade in Justine, ironicamente alludendo al secondo concilio di Mâcon e alle sue dispute sulla liceità a considerare la donna homo, ossia appartenente alla specie umana e in quanto tale dotata di anima. Quanto più grande il potere femminile è stato percepito, nei millenni, tanto più è stato ridotto e represso. È attraverso il mito che la grandezza di questo potere, e il timore che ha suscitato e suscita, può superare le rimozioni e manifestare, insieme alle paure, la sua verità.

Come in quello di Medea, la strega per eccellenza della mitologia classica, o di Elena, che con il suo nepente addormentava il cuore degli uomini come gli sciamani siberiani con l’Amanita muscaria, così in quell’altra storia di magia e stregoneria che è la fiaba di Cenerentola, tessuta di un’abbacinante varietà di materiali mitici provenienti dall’antichità greca ed egizia oltreché dall’estremo oriente, diffusa dalla Cina alla Scozia, dai Balcani all’Asia Centrale, dall’India all’America Latina, nelle cui versioni la studiò Claude Lévi-Strauss, che vide nel mito della “creatura di cenere” una figura di riconciliazione della vita e della morte, del cielo e della terra.

Anche per Ginzburg «il monosandalismo di Cenerentola è il contrassegno di chi si è recato nel regno dei morti (la reggia del principe)» e quella stessa marginalità femminile che sottostà alle accuse di stregoneria «oltre a essere sinonimo di debolezza riflette in maniera più o meno oscura la percezione di una contiguità tra chi genera la vita e il mondo informe dei morti e dei non nati».




Cos’è del resto il sabba se non quell’«esperienza inaccessibile che l’umanità ha espresso simbolicamente per millenni attraverso miti, favole, riti, estasi», e che «rimane uno dei centri nascosti della nostra cultura, del nostro modo di stare al mondo», perché «anche il tentativo di conoscere il passato è un viaggio nel mondo dei morti»?

In uno dei suoi saggi, “Il motivo della scelta degli scrigni”, sulla scelta della donna nella letteratura e nel mito e il suo trascolorare da madre a sposa, a terra che accoglierà l’uomo al suo morire, Sigmund Freud riconobbe in Cenerentola, come in Cordelia, un’incarnazione di quella grande e onnipresente dea, che identificava con Afrodite nella sua versione funeraria, basandosi sull’intuizione di un grande filologo, Hermann Usener.

Quest’ultimo aveva messo in relazione il giudizio di Paride con quello cui si sottopone Cenerentola partecipando al bando nuziale del principe, dal cui palazzo dovrà fuggire allo scoccare della mezzanotte, per indicazione della fata madrina, in un gioco di metamorfosi, proprio come accade nel sabba.


Forse né Usener né Freud conoscevano l’usanza bizantina che è al fondo delle principali versioni di questa fiaba di magia arrivata all’Italia barocca con Basile, alla corte del Re Sole con Perrault, poi alla Germania romantica coi fratelli Grimm. Il cerimoniale che presiedeva alla scelta della sposa dell’imperatore di Bisanzio prevedeva l’emanazione di un bando in tutto l’impero per indire il “concorso di bontà e bellezza” che avrebbe portato nel palazzo imperiale giovani candidate di ogni estrazione, ma che implicava anche l’esibizione, da parte dei messi, di una babbuccia purpurea, simbolo del potere bizantino.

Nel congegno di enigmi e specchi, di realtà e immaginazione, che sempre governa la trasmissione del mito, il simbolo imperiale bizantino diventa strumento di castrazione: se il piede è notoriamente un simbolo fallico e nel feticismo del piede l’uomo adora il fallo femminile, questo dev’essere compresso, ridotto, come del resto nell’antica versione cinese della fiaba.

Cenerentola, come Medea, viene disinnescata. Ma si conferma strega nel rituale di metamorfosi che la porta alla fuga al rintoccare della mezzanotte, allo scoccare del sabba, quando torna ad essere, come Apollo, signora dei topi, e quando il suo cocchio si trasforma, secondo gli antichi rituali magici greco-romani riflessi nella beffarda metamorfosi che Seneca inventò per il divo Claudio, in una zucca.


La Repubblica – 6 gennaio 2018

Franco Fortini e la poesia italiana del Novecento

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Franco Fortini è stato, insieme a Calvino e Pasolini, l’ultimo dei nostri classici Come loro credeva che non esistono cultura e letteratura senza un passato da conoscere e reinventare. Ora una sua antologia critica ce lo fa riscoprire.


Alberto Asor Rosa

La lezione di Fortini senza la poesia cos’altro resta?


Appare presso l’editore Donzelli un’antologia de I poeti italiani del Novecento, di Franco Fortini, riproduzione del capitolo a tale soggetto da lui dedicato nella grande sintesi La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da Carlo Muscetta per l’editore Laterza (1977). Anche il saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo, il critico e saggista con cui Fortini ebbe intensi rapporti, è coevo (1979).

Attuale è invece l’acuta postfazione di Donatello Santarone. Prima di dire qualcosa sulle scelte che costituiscono le premesse e i criteri guida dell’oggetto di questo nostro discorso, vorrei però richiamare qualche nozione e considerazione sull’autore. Franco Fortini è un autore attualmente troppo dimenticato (non a caso, forse: rappresenta un’altra stagione, a cui siamo diventati lentamente estranei).

Anche recentemente ho scritto, nei miei tentativi di ricostruzione storico-letteraria del Novecento italiano, che una fase della nostra attuale evoluzione letteraria si chiude sostanzialmente — nel senso letterale del termine — con la presenza e l’opera di tre nostri scrittori e/o poeti, che io definirei appunto gli ultimi classici, e sono Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e Franco Fortini. In che senso “classici”? In un duplice senso.

Innanzi tutto perché i tre coltivano ancora l’idea che l’operazione letteraria e, più specificamente ancora, quella poetica, non può non riallacciarsi continuamente, anche criticamente, s’intende, ma sempre creativamente, a tutto ciò che l’ha preceduta: è quel che comunemente si definisce la questione della “tradizione”. 

In secondo luogo, perché, come tutti i classici che si rispettano, essi pensano che l’operazione letteraria rappresenti uno strumento formidabile di azione sul mondo, agisca sulle coscienze, ne muti i connotati, riesca a diventare un’opzione fra le più decisive di “qualificazione” della vita umana. Di tutto ciò, io penso, oggi non c’è più traccia: il che costituisce un motivo di distanziamento forte nei confronti dei tre “classici”, al di là di alcune mentite apparenze.

I tre, s’intende, hanno poi praticato i due sensi in modi profondamente diversi. Fortini, in quanto saggista, ha esplorato con tenacia la modalità con cui un’ideologia generale di conoscenza e interpretazione del mondo — nel caso suo il marxismo — avrebbe potuto infondere nuova linfa nel tessuto ormai troppo logoro e precario dei meccanismi intellettuali e culturali odierni.



Come dimenticare a questo proposito un libro straordinario come Verifica dei poteri (1965)? Ad onta di certe pungenti riserve, manifestate con estremistica e giovanile presunzione quando il libro apparve, non esiterei a dire oggi che l’esperimento, sul piano storico, forse non ha eguali. Ma ormai da molti anni, anche prima che morisse, non ho più nutrito dubbi che il vero, grande Fortini, il “classico” appunto, sia il poeta, non a caso collegato, oltre che alla tradizione novecentesca italiana, a molti rami di quella europea, da Bertolt Brecht a Charles Baudelaire a Paul Eluard. Tra le raccolte sue apparse nel tempo suggerirei oggi Una volta per sempre (1973), un comodo e riassuntivo Versi scelti (che arriva fino del 1989), fino allo straordinario e conclusivo Composita solvantur (1994).

Con questi riferimenti alla sua poesia andiamo avvicinandoci anche al Fortini curatore dell’antologia da cui abbiamo preso le mosse. In Fortini la poesia rappresenta il tentativo di trovare una “lingua comune”, però a partire da una esperienza fortemente personale, anzi quasi unica. Non è sempre così che fa la poesia? Sì, certo. Solo che Fortini applica la formula universale, tentando di rendere più percepibili — a un lettore contemporaneo, incerto, deluso e per usare una vecchia formula adeguata al caso, alienato — i due termini della questione. Il ragionamento sull’antologia donzelliana parte da qui.

L’esposizione storica, l’interpretazione dei testi, i raggruppamenti storici degli autori sono impeccabili e chiarissimi. Se si trattasse invece d’indicare le linee fondamentali delle sue preferenze e delle sue scelte, direi che Fortini è lontano dal punto supremo raggiunto, secondo l’opinione comune, dalla poesia italiana del Novecento e cioè l’algida perfezione di Eugenio Montale, e dei suoi seguaci (con qualche non insignificante apertura, però, nei confronti di Mario Luzi). Per capire rapidamente la posizione di Fortini, interprete e antologista, io citerei due nomi, l’uno all’inizio, l’altro alla fine del suo percorso: Clemente Rebora e Andrea Zanzotto.

    Clemente Rebora

Chi era Clemente Rebora? Ligure, nato laico e morto nelle vesti di tormentato sacerdote cattolico, lasciò una mole non consistente di versi, in cui cercò di conciliare la sua vena lirica profonda con un’esposizione di verità sapienziali, di volta in volta religiose, sociali o etico-psicologiche. Ora un ricordo personale che può servire sinteticamente a far capire molte cose. Quando io elaborai il progetto, che doveva dar vita alla sezione delle Opere della Letteratura italiana Einaudi, interpellai Franco Fortini per la poesia italiana del Novecento, lasciandolo libero di scegliere un autore e un testo: Fortini senza esitazioni scelse i Frammenti lirici di Clemente Rebora. Scelta non da poco, mi pare.

Andrea Zanzotto, il grande poeta veneto, anche lui appartato e, come dire, reclino su se stesso, piuttosto che aperto indiscriminatamente verso il mondo, chiude nel senso letterale del termine l’esposizione antologica fortiniana, e non solo, io penso, per motivi cronologici.
Anche lui, infatti, come scrive Fortini nelle pagine di commento ai testi, ma forse pensando a se stesso, «la poesia… è poesia di riflessione filosofico-esistenziale e autobiografica», però «vibrata nei modi del sarcasmo intellettuale».

Il poeta cioè anche in questo caso vuol dire la sostanza; ma con l’illusione, e la ricerca, di dirla «seguendo una linea media fra coscienza e incoscienza». Siamo nell’iperuranio di una scommessa linguistico-storica, a cui anche Franco Fortini ha ampiamente attinto.


La Repubblica – 8 gennaio 2018

Antonio Gramsci e Piero Sraffa nella bufera del Novecento

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Un libro appena pubblicato smantella la tesi secondo cui l’economista sarebbe stato un agente dell’Urss e del PCI togliattiano per controllare un Gramsci in dissenso con il partito.

Mauro Campus

Sraffa e Gramsci, la cifra della lealtà


L’amicizia fra due intellettuali della grandezza di Antonio Gramsci e Piero Sraffa coinvolge un tale spettro di temi e copre una tale quantità di quadranti da essere – di per sé – più che degna di attenzione. Si tratta di un rapporto i cui contorni iniziarono a emergere pubblicamente con la seconda edizione (1965) delle Lettere dal carcere e che fu poi meglio definito nel Colloquio con Piero Sraffa pubblicato da Paolo Spriano su «Rinascita» nel 1967.

I lavori che da allora hanno descritto l’intensità del rapporto tra i due non hanno trascurato di mostrare quanto il loro sodalizio fosse segnato da una peculiare tensione etica e da una condivisione di idealità civili amplificate e rese dolorose dalla prigionia di Gramsci. Né le ricostruzioni hanno tralasciato di descrivere l’influenza intellettuale che l’uno ebbe sull’altro. Ma se queste caratteristiche appaiono perfettamente immaginabili considerata la luminosità dei due, è lo sfondo politico dei vent’anni nei quali maturò la loro frequentazione (1919-1937) ad aver generato spiegazioni avventate, spesso costruite su ambiguità linguistiche, parole approssimativamente decontestualizzate, torsioni ideologiche che sono divenute pratica storiografica.

Il libro che Giancarlo de Vivo dedica ora a due giganti del pensiero del XX secolo, con una riflessione sugli innesti delle idee gramsciane nel lavoro di Sraffa, è anche un atto di filologica pietas. Per farlo, l’autore ricorre all’evidenza ricavabile dalle carte che Sraffa donò al Trinity College di Cambridge. Si tratta – nota de Vivo – di documenti mai usati sistematicamente per leggere le circostanze del rapporto Gramsci-Sraffa.

Un rapporto nato a Torino nel 1919 all’ombra della collaborazione del ventunenne Sraffa all’«Ordine Nuovo» di Gramsci e che non conobbe poi soluzioni di continuità. L’amicizia fu dapprima composta di frequentazioni continue tra Torino e Roma, e quindi mediata da uno scambio epistolare diretto o per il tramite di Tatiana Schucht, cognata del fondatore del partito comunista, che trascriveva per Sraffa le lettere ricevute dal carcere e viceversa.

    Piero Sraffa alla fine degli anni 20

Fu Sraffa – almeno fino al 1932 – il collegamento fra il prigioniero e il Pci, poiché a lui era affidato il compito di recapitare al centro del partito a Parigi le copie delle lettere di Gramsci a Tatiana. E fu Sraffa il consigliere legale che aiutò a predisporre le istanze presentate al governo fascista, motivate dalle declinanti condizioni di salute del leader sardo. Tra esse anche la domanda di espatrio in Unione Sovietica, presentata quando Gramsci era in vista della liberazione.

Il principale equivoco analitico che questo lavoro contribuisce a smantellare (in questo confermando quanto si legge nella bellissima biografia che Angelo d’Orsi ha recentemente dedicato a Gramsci) deve la sua fortuna alla supposta collaborazione che Sraffa avrebbe intrattenuto con i servizi segreti sovietici. Un certo seguito ha, infatti, ricevuto l’interpretazione secondo la quale il grande economista sarebbe stato una spia usata dai sovietici e dal “duplice” Togliatti per controllare il geniale ma eterodosso intellettuale comunista.

Lo sfondo ideologico su cui quest’ipotesi inconsistente ha attecchito affonda il suo credito nell’idea che l’indipendenza politica e culturale che Gramsci maturò rispetto al gruppo dirigente del Pci potesse essere così fastidiosa per il Pcus e per Togliatti da alimentare il tradimento dell’amicizia da parte di Sraffa, il quale, dunque, sarebbe stato manipolato fino a diventare una sorta di controllore delle attività di Gramsci per conto di Mosca.

Le idee di Gramsci si svilupparono e cambiarono significativamente già nei primi anni di prigionia, ma se ciò motivò un disallineamento del partito dal suo fondatore in cattività, non causò invece alcun distacco (né tantomeno il tradimento della fiducia) tra Sraffa e l’amico. De Vivo spiega con passione le vicende editoriali della pubblicazione delle Lettere di Gramsci: una storia conosciuta, ma mai affrontata dall’angolazione dell’economista voluto a Cambridge da Keynes. Una storia dalla quale si possono ricavare utili spunti su quanto sia stata (e sia) faticosa la ricostruzione filologica di quell’opera, ma che – come questo libro spiega con intelligenza – difficilmente può essere utilizzata per piegare il ruolo di Sraffa, o fraintendere la sua lealtà.

Il Sole 24Ore – 7 gennaio 2018

Giancarlo de Vivo
Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teorica critica
Castelvecchi
€ 22

Lo Lugarn, Tribuna per l'Occitania libera

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E' disponibile il n.124 di Lo Lugarn, Tribuna per l'Occitania liura.
Rivista del Partito della Nazione Occitana

Dal sommario segnaliamo l'editoriale sui fatti catalani, un dibattito sull'avvenire dell'occitanismo, il resoconto dell'audizione di due rappresentanti del PNO all'Integruppo sulle minoranze linguistiche del Parlamento europeo.

La rivista può essere letta online al seguente link:
http://lo-lugarn.blogspot.it/




  

Il meraviglioso mago di Oz, favola modernizzata per i bambini d'America del 1900

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«Il meraviglioso mago di Oz»,fiaba moderna del 1900, ebbe un successo travolgente, così tra il 1904 e il ’19 il suo autore aggiunse altre 13 storie, una per ogni Natale. Einaudi le ha antologizzate .

Caterina Ricciardi

La favola modernizzata per i bambini d'America del 1900

L. Frank Baum, l’autore del Meraviglioso mago di Oz, pubblicato nel 1900 all’età di 43 anni, fu un personaggio singolare: versatile e intraprendente, un po’ alla Benjamin Franklin, ma molto più estroso del pragmatico e frugale creatore del «povero Riccardo». Nato nello Stato di New York da una famiglia arricchitasi col commercio del petrolio, Baum fu – rischiando spesso la bancarotta – tipografo, avicoltore, commesso viaggiatore, decoratore di vetrine, gestore di un negozio nel South Dakota, imprenditore teatrale, scenografo, attore, giornalista, e infine – quando si stabilì a Chicago, la città magica del momento – scrittore a tempo pieno per l’infanzia.

Nella sua vita aveva attraversato la (corrotta) «Gilded Age» post-Guerra civile, con le sue promesse d’oro e d’argento, e a Chicago assistette al successo della spettacolare Esposizione Colombiana del 1893 che, con l’allestimento della «White City» e delle sue architetture di cartapesta in stile neoclassico, combinava tecnologia (il Palazzo dell’Elettricità, la Ferry Wheel) e un sontuoso (sia pur effimero) senso del bello. L’evento esercitò su di lui (come su altri) grande fascinazione, soprattutto per gli inediti effetti abbaglianti della luce elettrica: un prodigio di Edison, che Baum volle incontrare.

Avevano ancora bisogno di gnomi, elfi e fate, i bambini americani del nuovo secolo? No. Era tempo di aggiornare il folklore favolistico e di scoprire un nuovo territorio magico, archiviando stereotipi europei nonché episodi «orribili e gelasangue inventati dagli autori per fornire una morale spaventosa» a menti innocenti. Così Baum annunciava nell’Introduzione al Meraviglioso Mago di Oz, che definiva una «favola modernizzata, in cui trovano posto il meraviglioso e la gioia, ma l’angoscia e gli incubi restano fuori della porta». Il progetto sembra ambizioso negli intenti (aiutati dalle accattivanti illustrazioni di W. W. Denslow) e problematico nei risultati, non solo se pesati a posteriori.


    Frank Baum

Una terra abitata da streghe

Si uccide, si sterminano animali, si combatte e si schiavizza nel mondo alternativo di Baum; ed è un «ciclone» a travolgere disastrosamente il già arido e grigio Kansas contadino e a dare inizio alla storia, catapultando Dorothy, la piccola protagonista, in una terra abitata da streghe (buone e cattive), strane popolazioni riottose, e tre creature malconce (lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone Codardo), che, dopo la morte della Malvagia Strega dell’Est, perita nell’impatto con l’atterraggio di Dorothy, si uniranno a lei su strade giallo-oro verso l’opulenta «Città di smeraldo».

O almeno così essa appare a chi vi entra, costretto a farsi «inchiavardare» sul volto occhiali dalle lenti verdi per non essere accecato dallo splendore. Qui, nel trionfo di un verde egalitario, in cui l’individuo si perde, e di un consumismo ad libitum, regna con polso dispotico un mago multiforme e illusionista, abile manipolatore di congegni meccanici. È il Mago di Oz, un impostore, l’unico che può permettere a Dorothy di tornare a casa, ma solo dopo aver ucciso la Malvagia Strega dell’Ovest.

Il volo vorticoso, che ribalta la caduta di Alice nelle ombre del suo paese delle meraviglie, impone a Dorothy prove ben più inquietanti di una partita a croquet. Non c’è da stupirsi. Perché Il meraviglioso mago di Oz è un libro americano che – nello scambio fra mondo reale e mondo fantastico, ostacoli e privilegi, bene e male – punta a esaltare, con la fiducia in se stessi, il progresso tecnologico e quel poco di ‘magico’ che, nella necessità, può risiedere in ciascuno di noi.



Il successo del libro presso i giovani lettori fu senza precedenti. Se ne ricavò subito un musical a Broadway, cui seguirono diverse versioni cinematografiche, tutte un po’ edulcorate (in quella muta del 1925 un imprevedibile Oliver Hardy impersona il Boscaiolo di Latta). Il film in technicolor di Victor Fleming del 1939, con Judy Garland nella parte di Dorothy, confermò la solidità di un mito, alla cui costruzione avevano contribuito nel passato le migliaia di letterine inviate a Baum dai bambini che lo esortavano a non abbandonare la terra di Oz.

Dal 1904 al 1919, l’anno della sua morte, Baum aggiunse altre tredici storie (più o meno una per ogni Natale) che Einaudi raccoglie per la prima volta in Italia, antologizzate (ma qualche passo chiave andava lasciato nella sua integrità), in un «Millennio» a cura di Chiara Lagani corredato di ottime note e un utilissimo lemmario di oltre 300 voci: I libri di Oz, illustrazioni di Mara Cerri (pp. 917, euro 90,00).

L’entrelacement di storie e invenzioni (anche linguistiche) è spumeggiante e labirintico. Non a caso Chiara Lagani invita ad adottare nella lettura un itinerario personale: cronologico o tematico (il suo, in chiave femminile, aggiunge nuove prospettive: Baum era, tra l’altro, un suffragista), o persino visivo, adoperando le immagini di Mara Cerri «come carte da gioco, speculari ai testi». Che si proceda in linea retta o a ritroso, o magari a zig-zag, s’inaugurerà – ella scrive – una nuova figura: «la spirale, il vortice».

Forse lo stesso vortice, in cui Baum resterà prigioniero – come Dorothy nel ciclone –, incapace di uscirne, nonostante le impennate delle sue risorse immaginative. Tant’è che dall’insieme si ha piuttosto l’idea di una visione in caleidoscopio di una medesima strategia (e istanza ideologica), messa in gioco su un palcoscenico permanente, dove, al pari dei numerosi personaggi (circa duecento), si entra e si esce e, volendo, si rientra, scegliendo, a piacimento, di attraversare il confine tra la realtà e il regno della fantasia. Ma è questo il punto critico: è difficile – sembra suggerire Baum – restare nell’una e, al contempo, abbandonarsi all’altro, ovvero consegnarsi all’incanto di quel mondo alternativo (e, tutto sommato, poco rassicurante), che infatti non fa mai passare a Dorothy la nostalgia di «casa». Molto curiosa risulterà pertanto la sua scelta finale.



Un’improbabile città celeste?

Nel cruciale sesto libro, La città di smeraldo (un’improbabile città «celeste»? un’utopia ambigua: populista e al contempo capitalista? una Chicago elettrificata?), Dorothy deciderà di fermarsi lì, in quel «verde» che dà felicità, portando con sé gli zii che l’hanno cresciuta, colpiti nel Kansas da un’ennesima crisi finanziaria. La rivedremo solo nell’ultimo libro, Glinda di Oz, ben integrata negli splendori (e le insidie) del Meraviglioso: un riparo dai mali del mondo o una fuga – non costruttiva – dalla realtà? Una domanda pleonastica, cui possono rispondere solo i segreti di Baum. Alla lunga, esaurita la sua vena, ormai centrifuga e commerciale, egli non riuscì ad affrancarsi dal suo mito, e dai conflitti educativi ed ideologici in cui era caduto.

Ma c’è chi l’ha vista diversamente, almeno ai fini del primo libro di Oz. Secondo un’ipotesi abbastanza accreditata – che dal fantastico ci precipita nel più vile quotidiano –, Baum volle creare un’allegoria politica, imperniata sulla questione del bimetallismo (oro e argento), una formula monetaria sostenuta dal populista William Jennings Bryan (candidato più volte alla Presidenza a partire dal 1896).

La libera circolazione dell’argento, che avrebbe salvato il Midwest rurale, piagato da deflazioni e calamità naturali, era però avversata dai potenti baroni dell’Est (la Malvagia Strega dell’Est), promotori di un ferreo capitalismo industriale. Le magiche scarpette d’argento che la Buona Maga del Nord dona a Dorothy («rosse» nel film di Fleming), starebbero a indicare la moneta d’argento; la strada giallo-oro: il Gold standard; la Città di Smeraldo: il greenback, il dollaro cartaceo; il mago è l’impostore tirannico che governa il paese; e la Malvagia Strega del West sarebbe figura delle rimanenti comunità indiane, già massacrate a Wounded Knee, e che, secondo dichiarazioni pubbliche di Baum, bisognava sterminare definitivamente in nome della civiltà. L’allegoria funzionerebbe, senza tuttavia assolvere L. Frank Baum dalle sue numerose contraddizioni.


Il Manifesto/Alias – 31 dicembre 2017

“L'uomo verde d'alghe” e altre favole liguri di Italo Calvino.

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Oggi, 9 gennaio 2018, alle 15.15 presso la Sala Polivalente (Biblioteca) di Quiliano
nell'ambito dell'anno accademico 2017-2018 dell'UniSabazia
primo incontro del corso “Donne, maghi, poeti e marinai: aspetti insoliti della Liguria di Ponente”

L'uomo verde d'alghe” e altre favole liguri di Italo Calvino.

Conversazione sul folklore ligure a cura di Giorgio Amico

Edipo ha tante facce non solo quella di Freud

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Per Eva Cantarella, autorevole storica dll'antichità classica, la tragedia di Edipo parla soprattutto della giustizia che da vendetta si trasforma in diritto. Quella di Freud sarebbe un'interpretazione parziale che svilisce la complessità del mito.

Eva Cantarella

Edipo ha tante facce non solo quella di Freud 


La tragedia di Edipo ha inizio il giorno in cui questi, a bordo del suo carro, giunge a un crocicchio dove, al termine di un diverbio, uccide il proprietario di un carro arrivato insieme al suo, che pretendeva gli fosse data la precedenza: senza sapere che quell’uomo era suo padre. Edipo, infatti, si credeva figlio del re di Corinto Polibo, al quale era stato consegnato da neonato, e che lo aveva cresciuto come fosse suo figlio. Non sapeva che il suo vero padre era Laio, il re di Tebe, che lo aveva abbandonato in fasce, sperando in questo modo di evitare una maledizione secondo la quale sarebbe stato ucciso da suo figlio, scagliata contro di lui da Pelope, del quale egli aveva violentato uno dei figli. Per questo, quando sua moglie Giocasta aveva partorito Edipo, Laio (dopo aver forato con un ferro le caviglie del bambino per poterlo appendere a una correggia, donde il nome Edipo, che vuol dire «piede gonfio»), aveva ordinato di abbandonarlo.

Ma torniamo al momento dell’incidente stradale, per così chiamarlo. Il diverbio sulla precedenza aveva avuto luogo mentre Edipo tornava da Delfi, dove il dio, da lui interrogato per sapere perché un compagno di giochi lo aveva chiamato «bastardo», gli aveva dato un terribile responso: «Un giorno ucciderai tuo padre e sposerai tua madre». Più che comprensibilmente sconvolto, Edipo non osava tornare a Corinto, terrorizzato all’idea di uccidere quelli che credeva i suoi genitori, e aveva preso la strada per Tebe, dove, incontrandolo, aveva ucciso Laio: ancora non lo sapeva, ma la prima parte dell’oracolo si era avverata, e la seconda stava per avverarsi.

Proseguendo per il suo cammino, infatti, egli era giunto alle porte di Tebe, dove aveva incontrato la Sfinge: un essere orribile, dal corpo di leone e la testa di donna, che terrorizzava e uccideva i Tebani, ponendo un enigma insolubile e divorando chi non sapeva risolverlo. Ma Edipo ci era riuscito: alla domanda «qual è l’essere che cammina a volte a due gambe, a volte a tre, a volte a quattro, ed è più debole quando ha più gambe?», aveva risposto: «È l’uomo, che da bambino cammina su mani e piedi, da adulto sulle due gambe, e da vecchio appoggiato a un bastone». Sconfitta, la Sfinge si era suicidata e i Tebani, in segno di riconoscenza, gli avevano offerto in moglie la vedova di Laio: Giocasta, sua madre. Anche la seconda parte dell’oracolo si era avverata, e la tragedia di Edipo stava per compiersi.


La citta era stata colpita da una grave carestia che, secondo l’oracolo, sarebbe cessata solo quando fosse stato allontanato l’uccisore di Laio. Al termine di una lunga inchiesta, condotta dallo stesso Edipo, la verità viene scoperta: alla luce della spaventosa rivelazione, Giocasta si impicca ed Edipo si acceca.

Così finisce la tragedia Edipo re di Sofocle, ma la storia non si conclude qui: a raccontare il seguito, infatti, è di nuovo Sofocle nell’ Edipo a Colono .

Cieco, vecchio e stanco, Edipo, con le figlie Ismene e Antigone, che ha avuto da Giocasta, giunge ad Atene, dove un tuono annuncia che è arrivato il momento della sua morte. Ma questo Edipo, quello che muore ad Atene, è molto diverso da quello dell’ Edipo re . E proprio per questo è il personaggio che offre ai Greci l’occasione per riflettere sul problema della responsabilità e della colpa.

Nell’ Edipo re , infatti, quando scopre la verità Edipo si punisce accecandosi, anche se, come ha detto, ha agito «perché era scritto». In altre parole: non aveva agito volontariamente. Era stato il destino, erano stati gli dèi che avevano mosso la sua mano. Ma nell’ Edipo a Colono afferma che in lui non esiste «macchia di colpa» e quindi non può essere biasimato, perché, dice, «ho subito, non volendo, uccisioni e nozze e sventure: se l’oracolo vaticinò a mio padre che sarebbe morto per mano mia, come è possibile accusare me, che allora non ero stato neppur generato?»

Sono radicalmente diversi i due Edipi sofoclei. Per capirne la ragione bisogna pensare al momento in cui andarono in scena: un momento in cui era ancora forte lo scontro tra la nuova civiltà giuridica, per la quale si rispondeva solo degli atti compiuti volontariamente, e l’antica cultura della vendetta, per la quale l’atteggiamento soggettivo dell’agente non aveva alcuna rilevanza: contavano solo i fatti. La tragedia di Edipo rifletteva le contraddizioni di un momento storico in cui Atene discuteva con il suo passato.


E adesso veniamo all’interpretazione moderna del mito. Quasi superfluo ricordare che a partire dal 1900, anno della pubblicazione dell’ Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, esso è considerato la base della teoria secondo la quale il primo impulso sessuale infantile sarebbe indirizzato verso la madre, mentre verso il padre si rivolgerebbe il primo impulso di odio e violenza. L’eventuale riaffiorare di simili impulsi in età adulta sarebbe la causa di stati patologici, che la psicoanalisi dovrebbe curare attraverso un percorso di ricerca nei meandri della psiche analogo a quello condotto da Edipo alla ricerca della verità.

Ma la storia di Edipo raccontata da Sofocle non è l’unica che la mitologia greca ha tramandato, e non è quella originaria. In Omero Giocasta (chiamata Epicaste) si uccide, ma Edipo non si acceca né va in esilio. Egli continua a vivere e muore nella sua città, rimanendone il re: in Omero, come ha scritto lo storico francese Jean-Pierre Vernant, troviamo «un Edipo senza complesso», per il quale l’incesto non era un tabù. Del resto, la Teogonia di Esiodo non è forse un susseguirsi di incesti, che non sembrano creare alcun problema? L’incesto è aggiunto alla storia di Edipo da Sofocle, e da lui usato con indiscutibile efficacia come materiale tragico. L’interpretazione freudiana, basata esclusivamente sull’Edipo sofocleo, non tenendo conto della complessità dei miti, può portare fuori strada chi cerca di capire quello dello sfortunatissimo re di Tebe.


Il Corriere della sera – 9 gennaio 2018

Un popolo è il suo cibo. Recettari occitan

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Fredo Valla, giornalista e regista occitano, autore dell'ormai ventennale pubblicazione Recetari occitan, edita da Ousitanio Vivo ed esaurita, e di 18 MENU D’OCCITANIA dedicati a 18 donne celebri della storia Occitana edito dalla Chambra d’òc, ci accompagna in un viaggio nel tempo e nelle regioni di lingua d'òc, tra montagna e mare: Le ricette delle Valli Occitane d'Italia, dalla gastronomia semplice e sapiente, capace di combinare antiche nobiltà trobadoriche e sapori alpini forti e originali, sono al centro delle pubblicazioni e raccontano la storia degli occitani, nelle valli e oltralpe, narrata attraverso le materie prime, il modo di cucinare, i piatti del tempo ordinario e di quello della festa, che sono il frutto di migrazioni, fede religiosa, superstizioni, modi di vivere…  
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