Quantcast
Channel: Vento largo
Viewing all 3486 articles
Browse latest View live

Lev Trotsky, Storia della rivoluzione russa

$
0
0

Ripubblicata dalla casa editrice Alegre la «Storia della Rivoluzione Russa» di Lev Trotsky nella traduzione di Livio Maitan, un'opera divenuta ormai introvabile sul mercato italiano.

Claudia Scandura

Un protagonista in terza persona


Per il centenario della Rivoluzione di ottobre, il primo canale della televisione russa ha mandato in onda la prima puntata della serie dedicata a Lev Trockij, una produzione sontuosa che mescola fatti reali e inventati e disegna la figura del protagonista come una sorta di rivoluzionario di professione, un antesignano di Che Guevara, la cui vita scorre fra amori e intrighi. L’ottica del film rispecchia le indicazioni delle autorità russe che ostentano sovrano distacco nei confronti della rivoluzione, un avvenimento in cui, come ha detto Dmitrij Peskov, addetto stampa di Putin, non c’è proprio niente da festeggiare.

La rivoluzione ha perso allure per la maggior parte dei russi che, fra i grandi eventi del Novecento, mettono al primo posto la vittoria nella seconda guerra mondiale. Ecco quindi che Stalin, pur con tutti i suoi difetti, viene prima di Lenin, pur sempre il padre della patria, e soprattutto di un avventuriero come Trockij, la cui figura è sempre stata tabù in Unione sovietica.

Solo nel 1997, in occasione degli ottanta anni della Rivoluzione, è stata infatti pubblicata in Russia dalla casa editrice Terra la sua Storia della Rivoluzione Russa. Un esempio cui si rifanno le edizioni Alegre che, in occasione del glorioso centenario, pubblicano una nuova edizione di quell’opera (volumi 1 e 2, traduzione di Livio Maitan, prefazione di Enzo Traverso, pp.1047, euro 40). Un’opera che, pur pubblicata in passato varie volte, era ormai introvabile sul mercato italiano.

Lev Trockij iniziò a scriverla immediatamente dopo aver lasciato la Russia, nel 1929, durante l’esilio turco, con l’aiuto dei suoi collaboratori e segretari e del figlio maggiore Lev Sedov. La pubblicò a Berlino presso la casa editrice Granit: il primo volume nel 1930, il secondo nel 1931. L’anno dopo, Trockij fu privato da Stalin della cittadinanza sovietica e nel 1933 fu costretto a riparare in Francia. Da lì la sorte lo condusse, dopo alterne vicende, in Messico dove un sicario di Stalin pose fine ai suoi giorni nel 1940.


Si tratta di un libri prezioso prezioso perché dipinge un quadro degli avvenimenti basandosi non solo su un’ampia documentazione ma anche perché scritto da uno dei protagonisti delle vicende narrate. Trockij era il presidente del Soviet di Pietrogrado da cui scoppiò la scintilla rivoluzionaria e fu organizzatore e comandante dell’Armata Rossa che, sotto la sua guida, sconfisse l’Armata Bianca e trattò la pace di Brest-Litovsk con gli imperi centrali.

L’autore cerca di offrire un quadro obiettivo dei fatti, di non parlare delle proprie «questioni personali», ma ciò nonostante il libro ha un’indubbia posizione politica: Trockij odiava Stalin e non nasconde l’avversione nei suoi confronti, non perde occasione per screditarlo. D’altra parte, come notò Pavel Miljukov, Ministro degli esteri del governo provvisorio, Stalin a sua volta invidiava l’intelligenza di Trockij e odiava in lui l’uomo di cultura. Non per nulla fu proprio l’intelligencija a soffrire maggiormente per la sua sconfitta: una volta eliminata l’opposizione di sinistra e instaurata la burocratizzazione totalitaria che caratterizza il regime staliniano, venne meno l’ombrello di protezione che Trockij aveva offerto ai «compagni di strada», quei letterati che avevano accettato la rivoluzione, pur non abbracciandola nella sua totalità.

Disegnando un affresco storico degli avvenimenti, l’autore sottolinea i legami fra la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre. La prima non aveva, a suo avviso, alcuna possibilità di sopravvivere e non era altro che «un guscio, nel quale si celava l’anima nascosta della rivoluzione d’ottobre», come scrive nella prefazione all’edizione berlinese, qui riprodotta. Quella di febbraio fu una vittoria facile, piena di entusiasmi, senza collisioni né vittime, cui seguì l’ottobre, «una rivoluzione come un turbine di bufera, come una tempesta di neve», scrive il poeta simbolista Aleksandr Blok nel suo saggio L’intelligencija e la rivoluzione, esortando ad ascoltarne la musica, lo slancio creativo.

Trockij, pur essendo uno dei protagonisti della rivoluzione, la vede in una prospettiva storica, cerca di mettersi a distanza dagli avvenimenti, parla di sé in terza persona, si chiama per nome, ponendosi sullo stesso piano degli altri attori della storia pur senza nascondere il suo obiettivo vantaggio. Riconoscendo la parte di memoria presente nel libro, insiste però sul carattere oggettivo della sua ricostruzione, sulla sua volontà di tenere fuori emozioni e stati d’animo. Del resto, le fonti dell’opera sono eccezionali: giornali, riviste, memorie, verbali, documenti ancora manoscritti, resi accessibili ai bolscevichi dopo la conquista del potere.

Forse la rilettura di questo avvincente libro di Trockij potrebbe aiutare la società russa ad avviare una riflessione sul passato. Chissà se l’immagine del rivoluzionario puro e duro, spingerà le nuove generazioni a interessarsi ai dieci giorni che, comunque la si pensi, sconvolsero il mondo.


Il Manifesto – 13 dicembre 2017

Cinema dipinto

Andrea Corsiglia, "Noi eravamo tutto"

$
0
0

Mercoledì 20 dicembre ore 18
Libreria Ubik Savona
proiezione del documentario
"Noi eravamo tutto"
di Andrea Corsiglia

Autobiografia della Compagnia portuale di Savona attraverso le voci dei suoi camalli.
Partecipa Diego Scarponi Goz Scotto. A cura del Laboratorio Audiovisivi Buster Keaton, in collaborazione con gargagnanfilm.


Racconti densi di vita e di lavoro, di solidarietà e di libertà: sono le parole dei camalli che raccontano il loro mondo.

Un mondo capovolto dove non ci sono capi o superiori ma solo compagni di squadra con i quali condividere rischio, fatica e soddisfazioni: un mondo dove non ci sente oppressi ma liberi.

Quello che le voci dei portuali non ci dicono lo fanno i documenti e questi ci portano indietro al fino 1822, quando un editto del Comune di Savona annuncia la nascita della Compagnia di San Venanzio. É da qui che tutto ha inizio, da quell’editto, dove stanno scritte parole che diverranno sacre per i camalli: i guadagni del lavoro vanno equamente distribuiti fra i lavoratori.

Attraverso le decine di testimonianze raccolte, il libro racconta la vita del porto di Savona in un saggio di storia orale vivo e partecipe delle sorti dei portuali savonesi.



Dalla prefazione di Marco Bellonotto:


«Ecco allora che leggendo il libro di Andrea Corsiglia entriamo nelle stive delle navi durante le operazioni di carico e scarico; ci muoviamo tra cordami, bighi, imbragature, gru, e marinai provenienti da tutto il mondo; assistiamo alle prime giornate di lavoro dei giovanissimi portuali (non sono pochi fra loro ad avere cominciato a frequentare le banchine a quindici anni), veniamo a conoscere i rischi di un mestiere molto pericoloso... ma non c'è nulla di impressionistico, anzi il lavoro di Corsiglia smentisce, grazie a una ricostruzione puntale quanto efficace, luoghi comuni e stereotipi».

Marx, i contadini e la rivoluzione in Russia

$
0
0

«La rivoluzione russa e i contadini. Marx e il populismo rivoluzionario» di Pier Paolo Poggio, per Jaca Book. La ripubblicazione di un testo uscito nel 1978 che propone la questione rurale alla lente dello sguardo moderno del «Moro».

Roberto Finelli

I germogli della nuova società

In questo anno centenario della Rivoluzione sovietica appare quanto mai utile la ripubblicazione da parte della Jaca Book (con l’aggiunta di un’ampia e approfondita nuova introduzione) del libro di Pier Paolo Poggio, La rivoluzione russa e i contadini. Marx e il populismo rivoluzionario (LXXXII, pp.308, euro 25). Poggio non è solo lo storico che dirige da anni la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia e il Museo dell’Industria e del Lavoro (Musil), ma è soprattutto il curatore di un’impresa, tanto significativa e ricca nei contenuti quanto assai poco nota e letta, che è il progetto, in cinque volumi, L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, di cui sono usciti sempre per la Jaca Book i primi quattro poderosi volumi.

Il suo scopo è quello di salvaguardare e riproporre all’attenzione, affinché non scompaiano, sotto le macerie del muro di Berlino e l’autodissoluzione dell’Urss, i filoni di quel comunismo eretico e di quel pensiero critico prossimo o dialogante con il comunismo – ma lontano dal bolscevismo, dal marxismo-leninismo e dall’organizzazione teorica e politica dei partiti della III Internazionale – che ha attraversato, secondo molteplici ispirazioni, la storia del Novecento.

Questo testo (uscito in prima edizione nel 1978 con il titolo Comune contadina e rivoluzione in Russia. L’obscina) ripropone la questione del rapporto tra Marx e il mondo contadino, specificamente quello delle forme collettive di associazione e di comunità delle campagne russe, cui Marx ed Engels (ma con diverse accentuazioni tra loro) rivolgono la loro attenzione soprattutto dopo la liberazione dei servi della gleba, promulgata dallo zar nel 1861, con le trasformazioni nei rapporti sociali del feudalesimo russo che ne conseguirono. La messa a tema più rilevante che si ricava dal testo di Poggio è la riformulazione profonda che emerge della figura e del pensiero di Marx. Qui il Moro, infatti, non è più solo lo studioso della società industriale moderna, della fabbrica capitalistica e di quella scienza critica del capitalismo, che rimane, a parere di chi scrive, ancora la chiave di volta senza la quale si capisce assai poco del mondo contemporaneo.


Ma è anche, in connessione profondissima e intrinseca con tale prima dimensione, lo studioso delle società precapitalistiche e di quell’enorme storia dell’umanità che si è svolta secondo un’economia agricola e premercantile. Marx ha dedicato studi ed estratti approfonditi alla storia del premoderno, in particolare alle forme dei rapporti sociali nelle società che precedono l’economia della merce e del capitale. E solo la fuga dal marxismo intrapresa precipitosamente davanti all’altare heideggeriano o ai rizo-desideranti francesi da molti intellettuali, che pure prima avevano cantato l’Hosanna Domini nei vari cori del marxismo, può spiegare perché a un certo punto solo al Polany di La grande trasformazione s’è attribuito il merito di aver ridimensionato il ruolo e la durata della società capitalistico-moderna all’interno di una storia lunghissima dell’umanità fatta di lavoro agricolo e di un’economia sostanzialmente senza moneta.

È del resto proprio la genesi storica, e non logico-dialettica, della forza-lavorocome cuore della identità e soggettività moderna nella sua subordinazione al capitale a costituire il nesso per eccellenza tra storia del premoderno e storia del moderno in Marx. Come scrive lui stesso, va interrotta l’esposizione dialettica-sincronica nel primo libro del Capitale e introdotta la storia per spiegare la riduzione della forza-lavoro a merce: attraverso la dissoluzione di tutte le forme socio-economiche comunitarie premoderne che, appunto, dall’inizio della storia dell’umanità, non avevano mai visto l’essere umano quale individuo che, come accade al giorno d’oggi, originariamente privo di rapporti sociali, si socializza in modo estraneato solo attraverso la mediazione del mercato e del denaro.

Per spiegare la forza-lavoro della società contemporanea ci si deve riferire cioè per Marx a quei passaggi storico-epocali che sono delineati magistralmente nel capitolo del Capitale sull’accumulazione originaria e nel capitolo dei Grundrisse dedicato alle Forme che precedono la società capitalistica: in particolare nel quale Marx abbandona, con sorpresa piacevolissima del lettore, il meccanicismo riduzionistico di struttura e sovrastruttura, per argomentare che in tutte le società premoderne il legame sociale, nelle sue articolazioni di ceti e di classi, non è prodotto dal lavoro, ma, incredibile dictu, da appartenenze comunitario-simboliche la cui natura non-economica, non prodotta dal lavoro, consente e regola l’accesso all’economico propriamente detto.

È in questo studio a ritroso della storia – a partire dalle categorie da spiegare nella società capitalistica – dei modi e dei princìpi di socializzazione precapitalistici che Marx matura una conoscenza e una sensibilità verso modalità organicistiche di vita sociale, con le quali non collude ovviamente mai per la loro natura localistica e premoderna, ma che lo predispongono a quei singolari pronunciamenti nella sua tarda età sulla comune contadina russa che sono al centro dello studio di Pier Paolo Poggio.

Com’è ben noto, Marx in alcune lettere del 1877-1882, dichiarando che una rivoluzione in Russia potrebbe saltare la fase storica del capitalismo e approdare direttamente al comunismo muovendo da quella dimensione collettiva della vita che connota da secoli la storia rurale del paese, scrive: «In Russia, grazie a una combinazione di circostanze uniche, la comune agricola, ancora stabilita sull’intera estensione del paese, può gradatamente spogliarsi dei suoi caratteri primitivi e svilupparsi direttamente come elemento della produzione collettiva su scala nazionale».



Considerando che nella obscina, oltre la porzione di terra dominica (sulla quale i contadini lavorano per il nobile proprietario), foreste, pascoli, terre incolte restavano verosimilmente proprietà comune, mentre la terra coltivabile apparteneva in proprietà privata ai coltivatori, ma spesso con rotazione delle parcelle e che in determinate occasioni la coltivazione potesse avvenire in comune, Marx, riferendosi alla posizione di un autore come Cernysevskij, può notare che «in una serie di articoli degni di rilievo, questi ha affrontato il problema se la Russia debba cominciar col distruggere la comune agricola (come vorrebbero gli economisti liberali) per passare di qui al regime capitalista, o invece possa, senza incorrere nei lutti e nelle sofferenze di questo regime, farne proprie le conquiste sviluppando il retaggio del suo passato storico».

Insomma un Marx, come sottolinea con vigore Poggio, sensibile a tematiche di alcune correnti del populismo russo: certamente non concorde, in alcun senso, con valorizzazioni regressive e celebrazioni mistico-religiose della comunità rurale, ma capace di ripensare e rifiutare una visione univoca e obbligata dell’evoluzione storica, che pure lui stesso aveva contribuito a costruire con le pagine dell’Ideologia tedesca e della Prefazione del 1859.

Va aggiunto che il Marx di quegli ultimi anni poteva pensare che la proprietà comune del suolo nell’obscina potesse offrire, come scrive, «la base naturale dell’appropriazione collettiva» della futura società comunista, solo a condizione che in pari tempo vi fosse un sviluppo del movimento e della rivoluzione operaia nell’Europa occidentale e che l’agricoltura russa potesse usufruire di tutte le conquiste tecniche del sistema capitalistico, per «gradualmente sostituire all’agricoltura particellare l’agricoltura combinata con l’aiuto di macchine, che la configurazione del suolo russo invita».

Ma al di là della profondissima problematicità della cosa, ciò che rimane è l’apertura, che sia stata anche solo momentanea per lo stesso Marx, riguardo alla «più bella occasione che la storia abbia mai offerta a un popolo» di una modalità peculiare di passaggio storico dal precapitalismo al comunismo. Una modalità peculiare, che sarebbe stata poi del tutto negata e cancellata, sottolinea Poggio, dal modello industrialista, a tappe forzate, del leninismo e dalla filosofia coercitiva della storia che lo ha strutturalmente improntato.


Il manifesto – 13 dicembre 2017

I marchesi del Monferrato alle crociate

$
0
0

Nella sanguinosa storia delle crociate, le vicende di quattro sfortunatissimi marchesi del Monferrato nel XII secolo tra Gerusalemme e Costantinopoli.

Alessandro Barbero

Quando i fanatici eravamo noi



Quando cerchiamo di capire quelli che partivano per le crociate, dobbiamo accettare la contraddizione tra le motivazioni ideali che li animavano e la violenza e l’avidità del loro comportamento. Per molto tempo i nostri antenati hanno creduto che fosse giusto uccidere e morire per strappare ai nemici di Dio i luoghi della Passione; e che non ci fosse niente di male se chi rischiava il martirio combattendo gli infedeli trovava la sua ricompensa già su questa terra.

I crociati che nel 1099 conquistano Gerusalemme sono partiti per offrire a Dio le loro sofferenze. Sono arrivati fin laggiù, e ci sono arrivati a piedi. Hanno cavalcato nelle strade della città e nell’atrio della moschea con il sangue che arrivava alle ginocchia dei cavalli, e guardandosi indietro scoprono di avere occupato un vasto paese, che si estende dalla Turchia fino all’Egitto. Nemmeno per un attimo pensano di tornare a casa: hanno conquistato un nuovo regno per la fede di Cristo e rimarranno lì a governarlo.

Ma scoprono subito che non sarà facile. Nel mondo musulmano l’invasione degli infedeli provoca un’ondata di indignazione: a Baghdad come a Damasco la folla scende in piazza invocando il jihad. Il regno crociato è in pericolo e occorre difenderlo: perciò dall’Europa debbono partire nuove spedizioni. Molte generazioni di cristiani vivranno sapendo che lontano, al di là del mare, c’è un paese tenuto dai nostri e minacciato dal nemico, e che tutti sono moralmente impegnati a difenderlo. C’è chi lascia dei soldi per testamento; e c’è qualcuno che parte. Chi non ne può più della sua vita e sogna l’avventura può lasciare tutto e imbarcarsi, sapendo che laggiù potrà costruirsi una nuova vita. L’Oltremare, come lo chiamano loro, è il Far West dei nostri antenati medievali.


Il fascino della Terrasanta

Fra quelli a cui la vita in Europa comincia a star stretta ci sono anche dei principi. È l’epoca in cui un nuovo protagonista, il comune cittadino, si afferma in Italia. Le città crescono, si riempiono di immigrati e di cantieri, accumulano soldi, si armano, si fanno la guerra, sottomettono le campagne. E i conti e marchesi che fino allora comandavano il paese, prestando all’imperatore un omaggio poco più che simbolico, si trovano sulla difensiva. I vassalli li abbandonano, i contadini scappano per andare a vivere in città, i castelli non reggono quando una città decide di attaccarli. È allora che l’orizzonte della Terrasanta rivela tutto il suo fascino. C’è una famiglia di principi italiani che all’indomani della sconfitta del Barbarossa a Legnano, quando ormai è chiaro che le città hanno vinto, gioca tutto il suo futuro sulla capacità di cogliere le occasioni che balenano in Oriente.

Sono i marchesi di Monferrato, i quattro biondi figli del marchese Guglielmo il Vecchio e della sua moglie tedesca. Ognuno di loro aspira a diventare re o imperatore, e sa che le crociate possono offrirgli l’occasione. Sono quattro fratelli straordinariamente ambiziosi - e sfortunati. Il maggiore, Guglielmo detto Lungaspada, sbarca in Terrasanta nel 1177 per sposare Sibilla, la sorella del re lebbroso, erede al trono di Gerusalemme. In prospettiva sarà lui il re. Ma si ammala subito, e tre mesi dopo muore. Il secondo fratello, Ranieri, parte anche lui per l’Oriente, ma con un’altra meta: la più grande città del mondo cristiano, Costantinopoli. Anche lì c’è una principessa da sposare, Maria, figlia del basiléus; non erediterà il trono, perché ha un fratellino, ma suo marito avrà comunque un ruolo importante nella reggenza, e chissà cosa potrà accadere in futuro. Poco dopo il matrimonio il vecchio imperatore muore, scoppia la guerra civile, e Ranieri combatte dalla parte del cognato; ma la partita è persa, sale al trono un candidato ostile, e poco dopo, nel 1183, Ranieri e sua moglie muoiono avvelenati.



Il sultano gentiluomo

Ma intanto è già arrivato a Costantinopoli il terzo fratello, Corrado; un’ennesima guerra civile porta al trono un candidato amico, Corrado ne sposa la sorella, e poi, all’improvviso, lascia tutto e parte per Gerusalemme, perché in Terrasanta la famiglia è di nuovo in piena avventura. Guglielmo Lungaspada morendo ha lasciato Sibilla incinta; il bambino che nasce, Baldovino, sarà re di Gerusalemme, e il nonno Guglielmo accorre a tutelare i suoi interessi. Ma il bambino muore, Saladino invade il regno, il vecchio marchese è catturato.

Corrado sbarca nell’unico porto ancora in mano ai cristiani, Tiro, accolto come un salvatore; difende la città dal Saladino, e quando il sultano minaccia di decapitare il vecchio padre se la città non si arrende, Corrado dà una di quelle risposte che poi saranno raccontate con entusiasmo in tutti i mercati d’Europa: mio padre, dice, ha già vissuto abbastanza a lungo. Il Saladino, vedendo che con questi fanatici è impossibile discutere, lascia perdere e siccome è un gentiluomo libera lo stesso il vecchio. Fatta la pace, nel 1192 Corrado è eletto dai baroni re di Gerusalemme: ma prima dell’incoronazione è pugnalato per strada da misteriosi assassini.

Resta un fratello, Bonifacio, e al suo posto molti sarebbero rimasti a casa; ma nel loro sangue evidentemente c’era qualcosa che ribolliva. Nel 1202 Bonifacio accetta di comandare la quarta crociata, quella che anziché andare a Gerusalemme finirà col conquistare Costantinopoli, sottoponendola al saccheggio più spaventoso della sua storia. Bonifacio fallirà nella campagna elettorale per essere nominato dai crociati imperatore d’Oriente, ma strapperà il premio di consolazione, sarà re di Tessalonica: l’unico dei quattro fratelli che ha realizzato il sogno di diventare re. È vero che muore presto anche lui, ucciso in battaglia contro i bulgari; e che suo figlio Guglielmo si fa rimproverare dai trovatori, perché anziché partire a rivendicare il suo trono se ne sta tranquillo in Monferrato. Ma visti i precedenti, è difficile dargli torto.


La Stampa – 7 novembre 2017

Proverbi di dicembre nelle Alte Terre Langasche

$
0
0

Continuiamo il nostro viaggio nella cultura popolare langarola. Oggi parliamo dei proverbi legati al mese di dicembre e in particolare all'arrivo dell'inverno.

Guido Araldo

Proverbi di dicembre nelle Alte Terre Langasche

Fiòca descembrena in cä a-cunfena = neve di dicembre in casa confina.

A santa Bibiana, quaranta dì e ‘na scmana = il tempo che fa a santa Bibiana (2 dicembre) dura quaranta giorni e una settimana;

Santa Bärbära e san Simon, liberene da ra sfurgu e d’ar tron. = santa Barbara (4 dicembre) e san Simone, liberatici dalla folgore e dal tuono.

‘a fiòca ‘d san Nicola a la maténa, a-düra cume la brena = la neve di s. Nicola (6 dicembre) al mattino, è caduca quanto la brina:

A sant’Ambrösc u-fioca ‘n-s’la prösc = a sant’Ambrogio (7 dicembre) nevica sui terrazzamenti collinari, ma non ancora nel fondovalle.

Se a l’Imaculâ u-fioca fen, ‘a fiòca a-düra ‘nfigna a san Valenten. = se all’Immacolata (8 dicembre) nevica fino, il manto bianco dura fino a san Valentino (14 febbraio).

Ai dì dr’Avent o u-fioca o u-tira vent = nei giorni dell’Avvento o nevica o tira vento.

L’ariäz dr’Avent u-fâ gräm ‘r temp = il fento forte dell’Avvento annuncia brutto il tempo.

A santa Lizia l’invern u-cumenza a piè e vanta andè a viè = a santa Lucia (13 dicembre) l’inverno comincia a prendere (s’impone) e cominciano le veglie serali.

Santa Lizia l’utun a-porta via = santa Lucia l’autunno porta via

A d’scembr nen tüci e-cianzu quandi u-fioca = a dicembre non tutti piangono quando nevica (i bambini fanno festa);

A san Zefren, ‘a prima fioca suta al pen = a san Zeffirino (20 dicembre) la prima neve sotto al pino (che durerà a lungo);

A san Zuanen e-finisciu ‘r fescte e i quatren = a san Giovanni Evangelista (27 dicembre) finiscono le feste di Natale e con esse i quattrini;

(Dal volume Mesi Miti Mysteria)

Woody Guthrie, il sogno antifascista

$
0
0

Cinquant'anni fa moriva Woody Guthrie. Nelle sue mani la chitarra diventava un'arma contro soprusi e razzismi. Sopra campeggiava la scritta: «This Machine Kills Fascists». Il suo messaggio è tornato di massima attualità e gli echi delle canzoni di Woody risuonano oggi nei testi di una serie di musicisti.

Guido Mariani

Guthrie, il sogno antifascista

Cinquanta anni fa, in una stanza del Creedmoor Psychiatric Center del Queens a New York moriva Woody Guthrie, uno degli interpreti più importanti della musica folk statunitense. Era il 1967 e la sua voce si era già spenta da tempo.

Dalla fine degli anni ’40 il suo comportamento era diventato strano, imprevedibile. Venne ritenuto alcolista, schizofrenico. Gli venne in seguito diagnosticata una patologia neurodegenerativa ereditaria, la Corea di Huntington, una malattia incurabile che aveva già ucciso sua madre e che lo costrinse a passare gli ultimi anni della sua vita in istituti di ricovero dove più che essere curato veniva trattato come un internato. Guthrie era un’istituzione, un eroe della canzone popolare, ma anche un attivista politico combattivo e in odore di comunismo.

Secondo Brian Hosmer, che insegna Storia americana all’Università di Tusla, in Oklahoma, a pochi chilometri dalla città natale di Guthrie, Okemah, questi anni di malattia, di fragilità e di disagio trasformarono la percezione che di lui aveva il pubblico. «Il morbo di Huntington – ha sostenuto Hosmer – non solo lo ridusse al silenzio, ma lo trasformò in una figura diversa, più amichevole e meno minacciosa».

Nel 1961 un giovane cantautore originario del Minnesota chiamato Bob Dylan scrisse la sua prima vera canzone. Si intitolava Song to Woody, un tributo all’eroe del folk rinchiuso e isolato, ma la cui eredità e ispirazione era così evidente in tutta una nuova scena di giovani artisti. «Hey Woody Guthrie – recita il testo di Dylan – so che tu sai tutte le cose che sto dicendo e molte altre cose. Ti canto una canzone, ma non potrei mai cantare abbastanza, non ci sono tante persone che hanno fatto le cose che hai fatto tu».

Il futuro premio Nobel cantava questi versi su una melodia scritta da Guthrie per il brano 1913 Massacre. Il revival del folk – che proprio grazie all’artista di Duluth divenne un fenomeno giovanile globale – restituì però un Guthrie più songwriter e meno politico, più poeta e meno militante. Woody in realtà le sue battaglie le aveva combattute davvero. Era figlio di un padre razzista e membro del Ku Klux Klan, proprietario terriero caduto in rovina e costretto a cercare fortuna in Texas. Iniziò la sua carriera artistica all’inizio degli anni ’30 nel pieno delle grande depressione, scelse la vita dell’hobo, del cantastorie girovago, assimilando lungo la strada le tradizioni musicali che erano confluite negli Usa dagli immigrati come dagli schiavi e assistendo di persona al dramma di una classe media spazzata via e ridotta alla miseria dalla crisi economica.


LA CRISI

Se l’economia industriale era stata messa in ginocchio dal crollo di Wall Street, i terreni agricoli delle pianure Usa erano diventati una Dust Bowl, una «conca di polvere», erano stati trasformati in deserti di sabbia da decenni di coltivazioni intensive che li avevano resi sterili. L’unica speranza era scappare e inseguire quello che rimaneva del sogno americano a Ovest, in California. Gran parte dei migranti erano dell’Oklahoma, proprio come Woody, e per estensione tutti i diseredati vennero battezzati, con un nomignolo che divenne dispregiativo, gli «Okies». In California comparvero le scritte «No Oakies». Allora come oggi il migrante faceva paura.

Con la sua chitarra Guthrie viaggiò e si confuse tra loro, assistendo ai drammi umani raccontati da John Steinbeck in Furore. Poi, all’alba del nuovo conflitto mondiale, fece rotta su New York. L’esperienza accanto agli ultimi e ai derelitti lo avevano avvicinato al comunismo tanto da renderlo una presenza abituale a comizi politici e alle manifestazioni sindacali. Arrivato nella Grande Mela entrò a far parte di un gruppo di artisti folk chiamato The Almanac Singers, un sodalizio tra musicisti di idee comuniste composto da Millard Lampell, Lee Hays e da Pete Seeger. Con l’estendersi del conflitto mondiale, il gruppo passò dal pacifismo all’antifascismo militante.

Da qui «This Machine Kills Fascists», questa macchina uccide i fascisti, storica scritta che comparve in quegli anni sulla chitarra di Guthrie e che a oggi rimane un simbolo del suo impegno. La frase nacque come slogan che veniva stampato su volantini che venivano dati agli operai delle fabbriche belliche. Guthrie rivendicava quello slogan per la musica folk e per la missione che le canzoni dovevano avere. Il suo combattivo impegno antifascista è testimoniato dalla bellicosa Round and Round Hitler’s Grave (Ballando sulla tomba di Hitler), scritta con Pete Seeger e Millard Lampell: «Vorrei vedere il vecchio Hitler con un cappio attorno al collo (…) e anche Mussolini non durerà molto».



PAROLE CRUDE

Il brano era tanto crudo nelle parole quanto divertente e ballabile, nel clima bellico del periodo divenne un inatteso successo, tanto da garantire al gruppo un’audizione nel 1942 all’elegante Rainbow Room, club nel Rockfeller Center, nel cuore della New York opulenta. Ma il provino non portò a nulla, ovviamente, perché come ha scritto Ed Cray nella biografia di Guthrie Rambling Man, gli Almanac Singers non erano cantanti ma agitatori politici, erano propagandisti, dei picchettatori.

Il loro antifascismo non era solo una filastrocca che doveva allietare il fronte interno, ma un impegno da vivere anche in patria. A quell’epoca appartengono anche i brani Tear the Fascists down (Abbattete i fascisti) e soprattutto All You Fascists Are Bound to Lose (Voi fascisti siete destinati a perdere), brano di cui oggi esistono innumerevoli cover e che Guthrie iniziò a suonare con un nuovo gruppo chiamato The Headline Singers di cui fecero parte anche Pete Seeger e i musicisti neri Leadbelly, Sonny Terry e Brownie McGhee. Emblematico un episodio di una loro esibizione raccontato dallo stesso Seeger.


WAR BONDS 

Nel 1942 la formazione si esibì a Baltimora in un concerto per la promozione dei «war bonds», le obbligazioni con cui gli stati finanziavano lo sforzo bellico. Al termine del concerto uno degli sponsor dell’evento invitò Guthrie a mangiare con queste parole: «Mr. Guthrie abbiamo una sedia al nostro tavolo, e i suoi amici se vogliono possono mangiare in cucina». Il cantante capì che in sala non erano graditi i suoi musicisti perché neri e rispose: «Come mai? Ci avete sentito suonare insieme. Perché non possiamo mangiare insieme?». «Ma Mr. Guthrie. Siamo a Baltimora, non se lo ricorda?». Questa replica mandò su tutte le furie Woody che urlò: «La lotta contro il fascismo si combatte anche qui e ora!». Tirò la tovaglia buttando in aria piatti e vivande e ribaltò i tavoli. Fu cacciato via a forza.

La sua guerra contro il fascismo si spostò poi al fronte come membro della marina mercantile Usa con incarichi di servizio. Nel 1943 si ritrovò, brevemente, in Sicilia. Quando una delle sue navi fu centrata da un missile nel 1944 tornò in patria e concluse il servizio militare nell’esercito. Finita la guerra Hitler e Mussolini erano scomparsi, ma i nemici si trovavano ancora a casa: razzismo, segregazione e disuguaglianze sociali dominavano la società e la cultura statunitense. La scritta «This machine kills fascists» non scomparve più dalla sua chitarra. In questi anni riprese una canzone che aveva abbozzato nel 1940 This Land Is Your Land, scritta come contro-inno americano in risposta a God Bless America di Irving Berlin.

Il brano rivendicava un’America come terra dell’accoglienza e delle possibilità e nelle prime versioni comparivano anche alcuni versi contro la proprietà privata che sono poi scomparsi nel tempo. A tal proposito nel 1950 tra le sue ultime invettive si ricordano i testi di canzoni – rimaste inedite – indirizzati al palazzinaro newyorkese Fred Trump da cui aveva affittato una casa a Brooklyn; Guthrie aveva scoperto la rigida politica razziale con cui il padre di Donald gestiva le sue proprietà.


COMPAGNO DI VIAGGIO

La malattia stava però mettendo fine alle sue battaglie. Il suo scettro fu raccolto dal suo compagno di viaggio Pete Seeger che sulla cassa armonica rotonda del suo banjo scrisse «Questa macchina circonda l’odio e lo obbliga ad arrendersi». Dopo di lui era pronta una nuova scena folk capitanata da artisti come Dylan, Joan Baez, Phil Ochs e dal figlio Arlo (oggi acceso repubblicano). Ma la poetica di Guthrie fa anche parte dell’anima del rock di Springsteen, della scena militante inglese con artisti come Billy Bragg fino al punk di ieri e di oggi. Un cantante girovago che voleva cancellare con le canzoni il fascismo e le ingiustizie. Un sogno che oggi, a mezzo secolo dalla sua scomparsa, è più attuale che mai. Al punto che i rigurgiti estremisti che sta vivendo l’America di Donald J. Trump danno ancora forza e valore al più autentico significato della battaglia sociale e politica di Woody Guthrie. Una battaglia i cui echi continuano ad avvertirsi in una sfilza di testi e artisti.

(...)


il Manifesto/Alias – 18 novembre 2017

Addio a Francesco Leonetti, poeta e intellettuale rivoluzionario

$
0
0

E' morto Francesco Leonetti, poeta e scrittore importante della seconda metà del Novecento. Nei molti necrologi pubblicati oggi nessuno ricorda il suo lungo impegno politico nell'area marxista-leninista e in particolare in Servire il Popolo che diresse, dopo il periodo caricaturale di Aldo Brandirali, fino allo scioglimento del 1978.

Andrea Cortellessa

Addio a Francesco Leonetti, voce inconfondibile


Si è spento nella notte fra sabato e domenica, nella casa di riposo milanese dove aveva trascorso gli ultimi anni, Francesco Leonetti; aveva 93 anni. Nato a Cosenza nel 1924, dopo la guerra (che lo vide al fronte, sul Liri, e gli lasciò l'udito devastato dallo shell-shock) si trasferì a Bologna, dove iniziò la sua tumultuosa esistenza di scrittore (aveva esordito poeta diciottenne, con Sopra una perduta estate che gli aveva pubblicato Roberto Roversi) e di inesauribile organizzatore di cultura e battaglia politica, soprattutto instancabile promotore di riviste – questo glorioso feticcio intellettuale del Novecento. Infine si trasferì a Milano, dove a lungo ha insegnato Estetica a Brera.

Le riviste, sì. «Officina», fra il '55 e il '59, la prima e decisiva: un laboratorio – come dice il nome della testata, ispirato alla lezione di Roberto Longhi – decisivo per tutta la cultura letteraria della seconda metà del secolo. C'è una fotografia che circola in rete in queste ore, con Leonetti – sorriso smagliante e cravatta a farfalla, le braccia conserte – tra Pier Paolo Pasolini, Roversi (il meno sorridente, nonché l'unico senza cravatta) e il più giovane Paolo Volponi.

Colla scomparsa di Gianni Scalia, alla fine dell'anno scorso, Leonetti era rimasto l'ultimo superstite di quella mitica redazione (in cui figuravano anche Franco Fortini e Angelo Romanò). Dopo «Officina» sarà il tempo di una rivista che in realtà non vide mai la luce: un ambizioso progetto internazionale dal nome «Gulliver», che negli anni Sessanta avrebbe dovuto appoggiarsi al «Menabò» di Vittorini e Calvino e al quale avrebbero dovuto partecipare personaggi come Blanchot e Barthes, Enzensberger, Grass e Ingeborg Bachmann.

Non se ne fece quasi nulla, ma l'eco di quel progetto riverbera nell'opera di diversi di quei protagonisti, e Leonetti ne parlerà sempre come di una grande occasione mancata (i materiali preparatori sono stati pubblicati, nel 2003, su un numero di «Riga» curato da Anna Panicali). Col sommovimento del Sessantotto sarà la volta di «Che fare», al fianco fra gli altri di Arnaldo Pomodoro (con l'artista Leonetti stringerà uno dei sodalizi più intensi e duraturi); poi, dal '79 all'88, la grande avventura della prima «Alfabeta» (di nuovo con Volponi – col quale pubblicherà nel '95, da Einaudi, un libro di dialoghi dal giocoso titolo machiavelliano, Il leone e la volpe – e poi Nanni Balestrini e Maria Corti, Gianni Sassi, Antonio Porta, Umberto Eco e tanti altri); infine, dal '90, «Campo» (di nuovo, fra gli altri, con Pomodoro).

Di Leonetti una volta Maria Corti ha ricordato l'imperversare incontenibile (sino a farsi, com'è facile immaginare, non meno che esasperante), appunto alle affollatissime riunioni di redazione di «Alfabeta»: «con quei suoi grandi occhi tondi ci fissava, parlava più di tutti e gli piaceva provocare accesi dibattiti fra noi». Ecco, la voce di Leonetti: nessuno che l'abbia ascoltata la può dimenticare.


Non a caso darà alla propria bellissima autobiografia (pubblicata da DeriveApprodi nel 2001) il titolo La voce del corvo – ricordando forse l'episodio in assoluto più memorabile del suo lunghissimo percorso: quando prestò la sua voce gracchiante, calabro-emiliana, dalle vocali strascicate sino all'inverosimile, appunto al corvo-grillo parlante che accompagna Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini, girato da Pasolini nel '66 (e recitò in altri suoi film, Leonetti: nel Vangelo secondo Matteo, in Edipo Re, nei Racconti di Canterbury).

Ma una «voce» inconfondibile è, altresì, quella del Leonetti scrittore: «uno sperimentatore tra i più precoci e agguerriti del secondo Novecento», lo ha definito Clelia Martignoni. Il suo primo “romanzo”, fra molte virgolette, glielo pubblicò nel '56 Vittorini nella collana einaudiana dei «Gettoni», col titolo Fumo, fuoco e dispetto. Virgolette d'obbligo: nel testo erano cuciti, con sussultorio filo autobiografico, ben trenta brevi libelli filosofico-sociali che Leonetti era andato scrivendo in quegli anni: e questa linfa di pensiero, e di polemica, resterà sempre il collante della sua prosa.

Come ha scritto Guido Guglielmi, «tutto quello che utilizza Leonetti lo rinomina, lo traduce in una propria lingua mentale», in una costante carica espressionistica «sempre sotto il segno dell'antigrazioso» (Guglielmi paragonava il peculiare “tono” di Leonetti a quello del grandissimo Clemente Rebora: il poeta che, dalla guerra precedente, era tornato col suo medesimo trauma; altro paragone spesso evocato è quello colla poesia filosofica, aspramente materialistica, del conterraneo Tommaso Campanella).

Di una delle sue ultime raccolte di versi, La freccia pubblicata da Piero Manni nel 2001, aveva scritto lo stesso Leonetti nel risvolto: «il libro è simile, ahimè, ad una “freccia del Parto” quando è sconfitto o morente, voltandosi all'improvviso, nella leggenda…». Per aggiungere «e però il movimento di base è ora ricominciato nel nostro mondo», e perplesso concludere: «(Poi tutto s'imbroglia?)».

Ecco: questa doppia correzione in clausola, e questo punto interrogativo finale, esprimono bene la sua anima sintattica, il suo temperamento cogitante, mai pago delle proprie stesse conclusioni. Era rimasto l'ultimo intellettuale organico del Novecento: quando da decenni, ormai, non era rimasto più niente cui essere organici. Di questa contraddizione era ben consapevole; e tale condizione paradossale ha espresso con una risolutezza amara, uno stoicismo, un'allegria feroce che gli si possono solo invidiare.


Il sole 24 Ore- 18 dicembre 2017

Gli ebrei del Bund nella rivoluzione russa

$
0
0

Prima storia italiana del Bund, il partito socialista degli operai ebrei nella Russia zarista. Un angolazione diversa da cui affrontare la rivoluzione russa. Ne abbiamo già parlato, ma ci torniamo volentieri perchè l'argomento è di grande interesse.

Beatrice Andreose

Doikeyt, noi stiamo qui ed ora


Hic et nunc, qui ed ora, doyket. Questa la parola d’ordine del Bund, la potente Unione dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania, nata nel 1897 contro le discriminazioni antiebraiche. Antiassimilazionista, socialista, nel clima antisemita al tempo degli zar oltre a difendere i diritti del proletariato ebraico, per lo più confinato nella Zona di Residenza ed occupato nelle piccole fabbriche e nei laboratori dove lavorava sino a venti ore con paghe da fame, passò ben presto ad organizzare squadre di autodifesa e di combattimento clandestine.

I bundisti si scontravano con la polizia durante i pogrom, proteggevano le manifestazioni e quando parlavano in pubblico si presentavano con pattuglie di sicurezza a guardia delle porte e delle sinagoghe. Bundista era la giovane Anna Mary che, nel giugno del 1905, nel porto di Odessa prese la parola tra i marinai ammutinati dopo un contrasto tra i graduati inferiori e un ufficiale della corazzata Potemkin. I poliziotti non la interruppero avendo i cannoni della corazzata puntati addosso.

Quando cercarono di suscitare sentimenti antisemiti, due agenti vennero uccisi dalla folla. Negli anni che precedettero lo scoppio del ’17 il Bund clandestino aveva istituzioni culturali in lingua Yiddish, madre lingua che voleva elevare al rango di lingua nazionale. In yiddish diffuse i giornali La sveglia e L’operaio ebreo, creò istituzioni di autogoverno contro il regime zarista e contro i pogrom e nella sua VI conferenza diede vita ad un gruppo armato speciale. A Kiev aveva un reparto di 150 operai e 100 studenti, a Riga uno di 200, a Zitomir 80 persone, che durante i pogrom divennero 350 munite di armi varie, a Kisinev 350.

È noto il peso della componente ebraica nel partito bolscevico, non altrettanto il fatto che buona parte degli ebrei rivoluzionari militassero dentro il Bund che col suo programma federalista e antiassimilazionista entrò però presto in conflitto col Partito Socialdemocratico che pur aveva contribuito a fondare.

Nel 1903 Vladimir Medem affermò rivolgendosi a Lev Trotsky, suo avversario «Quando si tratta di classificarvi, non potete certamente ignorare il fatto che voi appartenete ad una certa nazione. Voi vi considerate, ne sono sicuro, sia russo che ebreo».

«Vi sbagliate- rispose Trotsky- io sono socialdemocratico, questo è tutto». Lenin riteneva che la identità ebraica fosse cultura morta, per il Bund invece costituiva il punto di partenza della lotta rivoluzionaria. Doikeyt, lo slogan del Bund, è anche il titolo del volume di Massimo Pieri «Doikeyt, noi stiamo qui ed ora. Gli ebrei del Bund nella rivoluzione russa» (Mimesis editore), prefazione di Valentina Sereni, che racconta con una messe notevole di informazioni e documenti la storia degli ebrei di Russia, la funzione del Bund e il conflitto che per molti anni lo divise dai bolscevichi.

Il Bund nasce dopo due secoli di persecuzioni e odio antiebraico. Sotto gli zar gli ebrei venivano accusati di bassezza morale e perversione religiosa, se volevano essere sudditi della Russia dovevano pagare il doppio delle tasse.

Con Caterina II le sinagoghe erano indicate come «covi di odio anti cristiano» e nel 1817 Alessandro I chiese loro la conversione concedendo la terra a chi lo faceva. Nel 1850 fu proibito agli ebrei di indossare il vestito tradizionale, il caffettano, e di portare le peot. In questo clima nell’ottobre 1897 nasce il Bund che tenne il I congresso in una piccola casa a Vilna, 13 i partecipanti. L’anno dopo entra nel POSDR (partito operaio socialdemocratico russo) che si riunì a Minsk, dei nove delegati tre erano del Bund. «Una lotta comune dei proletari di tutte le nazionalità era una condizione necessaria per la realizzazione del socialismo, e i socialdemocratici ebrei si sentivano fortemente parte di questa casa comune» scrive Pieri.



Nel I convegno a Ginevra nel 1904 i bundisti chiesero una struttura federata ma il POSDR concesse l’autonomia tecnica in base alla quale il Bund poteva adottare metodi di agitazione adatti alla lingua e alla cultura degli ebrei. Secondo Lenin non si poteva partecipare al movimento rivoluzionario in quanto ebrei o in quanto armeni e le diverse entità etniche non contavano in quanto tali, come soggetto politico, ma per il solo fatto di essere proletari e lavoratori.

Spettava agli organi centrali del partito fare poi la sintesi dei comuni interessi. Il Bund nel suo IV congresso chiede il riconoscimento dell’autonomia nazionale anche in assenza di una base territoriale poiché non può prescindere dalla specificità ebraica che, sostiene, esiste sia nella società borghese e sarebbe esistita anche in quella socialista. Stalin nel saggio del 1913 «Il marxismo e la questione nazionale» mette sotto accusa l’idea di autonomia culturale negando che gli ebrei siano una nazione e sostenendo che la discriminazione degli ebrei non è un motivo sufficiente per mettere in discussione la solidarietà di classe. Di diverso parere il Bund secondo cui gli operai cristiani che impedivano loro di entrare nelle fabbriche o partecipavano ai progrom non erano compagni di lotta ma nemici da combattere.

Ciononostante con la rivoluzione del ’17 gli ebrei conquistarono per la prima volta la parità dei diritti civili. Nel congresso panrusso dei soviet fu adottato il punto di vista del Bund sul problema dell’antisemitismo e delle nazionalità. Nella guerra civile l’Armata Rossa fu l’unica forza che si oppose ai pogrom scatenati sulle masse ebraiche.

Tra il 1918 il 1920 più di 100.000 ebrei furono uccisi, molti vennero feriti e mutilati. Lenin definì gli ebrei «la nazione più oppressa e perseguitata» e si rivolse direttamente a loro in lingua jiddish. In Polonia il Bund ebbe un ruolo di primissimo piano nella rivolta del ghetto di Varsavia ma in questo caso venne sterminato dai tedeschi.

Ma ciò che maggiormente ci interessa sottolineare è come l’oscurantismo che avvolse l’Europa per secoli contro gli ebrei, continua ad essere ancora oggi la linea di azione dei paesi occidentali. Ai migranti che arrivano nel vecchio continente viene chiesto di aderire alle nostre leggi, religioni e cultura, in altre parole la loro assimilazione. Prepotenza e dominio nella storia del vecchio continente sono una costante che non smette mai di produrre i suoi nefasti effetti.


Il Manifesto/Alias – 18 novembre 2017

Medicina: il potere terapeutico della relazione

$
0
0

Una medicina frettolosa non è una buona medicina. Ci vuole tempo per parlarsi e capirsi e molta attenzione alla storia individuale del malato. Perché quella tra medico e paziente è sempre e comunque una relazione tra due persone e la malattia è sempre e comunque anche una ferita dell'animo.


Andrea Grignolio

Il potere terapeutico della relazione


Oggi facciamo fatica a crederlo, ma per secoli la medicina è stata quasi esclusivamente una questione rituale, un racconto tra paziente e medico, il quale ha sempre svolto il ruolo chiave di mediatore del dolore e della malattia. Dal periodo degli sciamani guaritori sino alla seconda metà dell’Ottocento, ovvero sino all’avvento della farmacologia e della tecnologia, i medici hanno riposto la loro capacità di cura sull’alleanza terapeutica con il paziente: un processo fatto di riti, parole, contatto visivo e soprattutto basato sulla fiducia e sulla speranza ispirate dal medico.

Oggi sappiamo, grazie agli studi di Fabrizio Benedetti (professore presso il dipartimento di neuroscienze Rita Levi Montalcini dell’università di Torino), che tutto ciò è dovuto alla presenza di meccanismi cerebrali che sono alla base dell’effetto placebo. È il fenomeno dell’autosuggestione che in una persona in attesa di una cura è in grado di mettere in circolo una serie di farmaci naturali, prodotti dal nostro sistema neuroendocrino, come serotonine, endorfine ed endocannabinoidi, capaci di diminuire il dolore - e quindi l’uso di antidolorifici e favorire il processo terapeutico.

Insomma, al di là di una questione etica, è bene che il medico sia empatico, che parli col suo paziente capendone i disagi oltre che le malattie, che si metta in relazione con lei o lui, perché in molti casi così cura meglio e più rapidamente: anche per questo si sta cercando, anche in Italia, di stabilire delle procedure standard per migliorare l’alleanza terapeutica.

A questo scopo, ad esempio, da diversi anni si stanno inserendo nei curricula medici le medical humanities, discipline come il teatro, la pedagogia e la bioetica, nel tentativo di riumanizzare la professione medica, che da parte sua, e non ha torto, lamenta turni di lavoro eccessivi e un aumento vertiginoso del contenzioso legale con i pazienti che, a loro volta, sono spesso preda di truppe di avvocati che alimentano il mercato della malasanità. Basti pensare, ad esempio, al fenomeno inaccettabile delle cause di risarcimento basate sulla relazione autismo-vaccini.

Anche in questo caso, il dialogo e un’attenzione all’individualità del paziente sembrano essere una panacea: diversi studi, infatti, confermano che aumentando di pochi minuti il tempo di visita medio negli ambulatori - che ora è inaccettabilmente fissato sui 15 minuti al massimo - il numero di cause di risarcimento contro i medici cala sensibilmente, segno di un ritrovato rapporto fiduciario, anche in caso di presunto errore.

È questa in fondo anche la direzione verso cui ci sta portando la medicina personalizzata, basata sulla genomica. Essa ci ricorda che molti pazienti assumono farmaci senza trarne benefici perché la variazione di alcune lettere nel loro Dna comporta una diversa e personale risposta ai trattamenti, come confermato dalla rivista Science, da cui emerge che negli Usa solo uno su quattro dei dieci farmaci più usati nel paese sono efficaci per chi li assume.

E non è tutto: la medicina personalizzata e di precisione ci indica anche con sempre maggior affidabilità la nostra predisposizione alle malattie. Si pensi al caso di una paziente che, a causa di una diffusa familiarità con il tumore al seno e/o all’ovaio, scopre di avere i geni Brca 1 e 2 mutati. Mai come in questo caso avrebbe più bisogno di un ampio e prolungato dialogo con il medico, o meglio, i medici: dal genetista all’oncologo, dal chirurgo allo psicologo, per decidere se fare un percorso di continui controlli o affrontare la chirurgia preventiva. Dunque, il massimo avanzamento della medicina, la genomica personalizzata, e il più antico degli strumenti terapeutici, il fiducioso dialogo medico-paziente.

Che la cura debba passare anche attraverso il racconto di storie è d’altronde un concetto che è all’origine stessa del pensiero medico. Nello stesso periodo nell’antica Grecia nacquero la medici- na, grazie a Ippocrate, e la storia, grazie a Erodoto, due discipline che si costruirono attorno a una nozione comune historìa che veniva dal linguaggio medico e indicava l’atto di esaminare e mettere insieme casi e situazioni diverse per tentare di individuare le cause naturali comuni.

Quando il grande storico Tucidide descrisse la peste di Atene del 430 a.C., ricordò ai suoi lettori che lo faceva nella speranza «che, se un giorno dovesse di nuovo tornare a infierire, ognuno che stia attento, conoscendone prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta». Stiamo dunque “attenti”, evitiamo di far tornare la medicina dei secoli bui, rimettiamo al centro l’ascolto dei pazienti e le loro storie. Tra l’altro, è l’unico modo per sottrarli ai ciarlatani dei trattamenti alternativi, che di metodo scientifico non ci capiscono nulla, ma che sulle esigenze di dialogo dei pazienti la sanno lunga, visto che offrendo in media un’ora di visita, le loro schiere di pazienti aumentano di anno in anno.


La Repubblica - 7 novembre 2017

Il fascismo nell'Italia repubblicana

$
0
0


La presenza politica dei fascisti è stata una costante nella storia repubblicana, fin dall'estate del 1945. Altrettanto costante il loro peso elettorale, stabile attorno ad un 5%. Il vero problema è cosa accadrà in una situazione diversissima dal passato in reazione alla crisi dei partiti, al populismo crescente e al fenomeno inedito di una immigrazione di massa. Un mix che può diventare esplosivo.

Giorgio Amico

Per non dimenticare. Il fascismo nell'Italia repubblicana dalla nascita del MSI alle stragi degli anni '70

I recenti avvenimenti che hanno visto militanti di Forza Nuova e Casa Pound, protagonisti di azioni intimidatorie o xenofobe pensate in funzione delle ormai prossime elezioni politiche del 2018, non sono una novità nella storia della Repubblica. Il neofascismo in Italia fin dai suoi inizi si presenta sotto il duplice aspetto del manganello e del doppiopetto: l'azione clandestina terroristica e squadrista da un lato, accompagnata al tentativo di inserimento con pari dignità delle altre forze politiche nel quadro istituzionale dall'altro.

Immediatamente dopo il 25 aprile 1945 tra gli ex-combattenti della RSI nascono numerosi gruppi clandestini, soprattutto a Milano e a Roma, che si propongono, più che una improbabile conquista del potere, di dimostrare con una serie di azioni spettacolari che il fascismo non è morto. L'organizzazione più importante è quella dei Fasci di Azione Rivoluzionaria, gruppo politico-militare clandestino attivo soprattutto a Roma, guidato da Pino Romualdi, una delle figure chiave del neofascismo. Tra il 1946 e il 1951 i FAR compiono decine di attentati a Roma, Napoli, Milano, Brescia, contro sedi dei partiti di sinistra e del sindacato, case del popolo, luoghi dove si svolgono attività antifasciste (librerie, cinema, teatri).


La nascita del MSI

Ma non c'è solo l'attività militare. I fascisti sono fin dall'immediato dopoguerra attivissimi anche sul piano politico. In vista del referendum del 2 giugno 1946, che deve decidere la natura monarchica o repubblicana dello Stato, vengono presi contatti con esponenti dei partiti antifascisti per trattare la neutralità elettorale degli ex-repubblichini in cambio di una larga amnistia e dell'accettazione di un ritorno ad una attività politica legale. A questo scopo Romualdi tratta con uomini di primo piano della DC, del PSI e dell'area liberale, mentre Stanis Ruinas si incontra addirittura con il vicesegretario del PCI Luigi Longo. 

E' una vera e propria richiesta di legittimazione, in attesa della quale i fascisti iniziano a riorganizzarsi all'interno della formazione politica dell'“Uomo Qualunque”, il movimento fondato nell‟agosto 1945 dall'ex commediografo Gugliemo Giannini che si caratterizza per l'insofferenza verso i partiti (considerati tutti ugualmente corrotti), il rifiuto della politica istituzionale (sostituita dall'appello alla piazza), la denigrazione della Resistenza e dell'antifascismo, il rifiuto di ogni distinzione fra destra e sinistra. Insomma la prima manifestazione di un sentimento antipolitico , populista e protestatario, che, riassorbito negli anni Cinquanta in nome dell'anticomunismo dal sistema di potere DC, riappare alla luce con la crisi della prima Repubblica e l'instabilità politica degli ultimi trent'anni, in varie forme (dipietrismo, leghismo, grillismo) ma sempre nel segno di una sostanziale acquiescenza nei confronti dell'estrema destra.

Il 22 giugno 1946, pochi giorni dopo la nascita della Repubblica, Togliatti vara l'amnistia per migliaia di ex-repubblichini, compresi gli autori di atroci crimini di guerra tra cui il tristemente noto Luciano Luberti, il “boia di Albenga”, autore di oltre duecento omicidi. “L'amnistia – si legge in una pubblicazione della casa editrice di estrema destra il “Settimo sigillo” – fu l'elemento decisivo del processo di istituzionalizzazione del neofascismo verso la nascita del nuovo partito”.

Partito che viene alla luce a Roma nel dicembre 1946 con il nome di Movimento Sociale Italiano e che si richiama esplicitamente all'esperienza ideale e storica della Repubblica Sociale, ma che sceglie fin dal primo Congresso la legalità. Scelta che non impedisce però al nuovo partito, che già nelle elezioni dell'ottobre 1947 per il consiglio comunale di Roma ottiene oltre il 4% dei voti e 3 consiglieri, di continuare a mantenere stretti rapporti con i gruppi clandestini. Ufficialmente il MSI si dichiara contro l'uso della violenza, ma non scoraggia chi, gruppi interi o singoli membri del partito, intraprende azioni di tipo squadristico o terroristico prevalentemente contro associazioni partigiane e partiti della sinistra. 

Il partito neofascista fin da subito si inserisce nel clima della guerra fredda e della politica di contenimento del comunismo finanziata e coordinata dagli USA tramite gli apparati della CIA e della NATO. Nell'agosto 1952 si tiene indisturbato il primo campo paramilitare della gioventù missina, significativamente denominato “Ordine Nuovo”, un nome che ritornerà frequentemente nella storia dell'eversione nera e dello stragismo degli anni Settanta.


Un polo escluso?

A partire dalla fine degli anni Ottanta nell'ambito della politica di sdoganamento della destra fascista che porterà poi alla trasformazione del MSI in Alleanza Nazionale e all'assunzione di responsabilità di governo di esponenti ex-missini nell'ambito del “Polo delle libertà” berlusconiano, si inizia a parlare dei fascisti come di“esuli in patria” e del MSI come di “polo escluso” dalla vita politica dell'Italia repubblicana. Un'operazione ideologica, nonostante la serietà dei contributi di studiosi come Piero Ignazi, perchè in realtà, nonostante l'apparente marginalità, il MSI per tutto l'arco degli anni Cinquanta riesce a condizionare in più occasioni il quadro politico e istituzionale, consentendo, fra il 1953 e il 1960, con i propri voti la nascita di ben quattro governi a guida democristiana (Pella, Zoli, Segni e Tambroni), nonché l'elezione nel 1955 del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Successo bissato poi nel 1972 con Giovanni Leone. 

Favori che non restano privi di contropartite importanti, come la non applicazione della Legge Scelba del 1952 sulla riorganizzazione del partito fascista e l'occhio di riguardo degli apparati di sicurezza e del Ministero degli Interni verso le attività eversive e violente dei gruppi giovanili missini e di organizzazioni come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo esterne al MSI, ma di fatto legate a filo doppio alla politica del partito.

La politica di graduale inserimento del MSI negli assetti di potere dei governi centristi a guida DC ha una battuta d'arresto solo con la sconfitta del governo Tambroni, nato con il sostegno determinante dei parlamentari missini, costretto alle dimissioni dalla rivolta di Genova del luglio 1960. La stagione dei governi di centro-sinistra, pure non priva di momenti di tensione dovuti a strategie occulte interne e internazionali (vedi nel 1964 il progettato golpe De Lorenzo e nel 1965 il Convegno all'Hotel Parco dei Principi a Roma sulla “guerra rivoluzionaria”, vero incubatore della strategia della tensione e dello stragismo), vede un ripiegamento del MSI su se stesso.

    1968 Roma: assalto squadrista all'Università occupata

Gli anni delle stragi

Gli anni Sessanta segnano dunque la marginalizzazione politica dell'estrema destra e il sostanziale fallimento della strategia del “doppio petto”, rimpiazzata sotto la nuova direzione di Giorgio Almirante dal ritorno al manganello. Sono gli anni in cui in nome dell'anticomunismo vengono stretti duraturi legami con apparati dei Servizi segreti e delle Forze Armate in funzione del condizionamento da destra della politica italiana sia sul versante di governo (blocco delle istanze riformistiche del PSI nenniano) sia su quello dell'opposizione di sinistra (drastico contenimento dell'espansione elettorale del PCI).

Una strategia della tensione, sintetizzata nel motto “destabilizzare per stabilizzare”, mirante a creare un forte sentimento di insicurezza nell'opinione pubblica in modo da portare consensi alle forze moderate, che sboccherà dopo il biennio 1968-69 delle lotte studentesche e operaie nella politica delle stragi: da Piazza Fontana a Milano nel 1969 (17 morti) alla Stazione di Bologna nel 1980 (85 morti), passando nel 1974 per gli attentati del treno Italicus (12 morti) e di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti) e innumerevoli altri eventi minori fra cui le bombe di Savona del 1974/75.

Un progetto eversivo che solo la mobilitazione popolare, democratica e di massa seppe sconfiggere grazie soprattutto all'unità e alle fermezza delle forze antifasciste. Una mobilitazione dal basso che, come nel caso delle bombe di Savona, si rivelò il vero antidoto al diffondersi della paura.

Da: I Resistenti n°3/2017


Lettura archetipica del Natale

$
0
0
    Toirano (SV) Presepi in strada

Il presepe. Origini e significato dei personaggi attorno alla grotta.

Domenico Sabino

Lettura archetipica del Natale

«Te piace ’o presebbio?… No nun me piace!»
Ma cosa rappresenta il presepe che della tradizione natalizia è il segno più palese? Non è facile rispondere a siffatta domanda dal momento che la raffigurazione della nascita del Messia è ferma a una visione oleografica, consumistica compulsiva e a un sentimento piccolo-borghese che l’ha generata. Gli stessi presepi del Settecento napoletano, al di là del loro valore storico-artistico, attualmente sono ridotti a mero esibizionismo da collezione, di arrogante benessere economico, smarrendo ogni relazione col suo arcaico valore sacrale e paradigmatico.

    Albisola (SV) Macachi

IL MITO SOLARE

È giusto, innanzitutto, chiarire che la festa del Natale è molto più antica del Natale cristiano, essendo comune a differenti etnie il mito solare di un divino Bambino dato alla luce in un antro da una Madre vergine. Già molti secoli prima della venuta di Cristo, presso le popolazioni pagane i riti del Natale erano connessi al ciclo delle feste propiziatorie di fine anno. Lo stesso poeta Virgilio annunzia nella IV egloga la nascita di un bambino celeste, facendo ricorso a un codice intenzionalmente criptico e sibillino, conforme a quello delle religioni orientali. Il Natale si afferma come cristianizzazione di un rito pagano; la nascita di Cristo, definito nei Vangeli «luce del Mondo», si contrappone al Dies Natalis Solis Invicti, cioè alla celebrazione del solstizio d’inverno, e alla nascita di Mitra: è l’avvento di una divinità salvifica che, abolendo un Tempo negativo e/o di morte, fa subentrare un Tempo di pace e prosperità.


LA SOSPENSIONE

La dicotomia vita/morte ritorna nella simbologia della festa e nei riti della cultura popolare meridionale con i dodici giorni che separano il Natale dall’Epifania e rappresentano una fase temporale intrisa di simbolismi. Dodici giorni che sintetizzano ciclicamente e sacralmente i dodici mesi che volgono al termine. Arnold Van Gennep lo considera un «non tempo», una «sospensione temporale». Una Morte simbolica dei mesi, che rinascono all’inizio dell’anno a nuova vita. Dodici giorni posti in relazione ai «riti di passaggio», di ri/generazione, associati a un Tempo metastorico, origine di un nuovo Tempo per la collettività.



LA GROTTA

Tutto ciò è «narrato» simbolicamente dal presepe popolare che sincreticamente aggrega significanti e rimandi (sacri e profani) di rilevante complessità storico-religiosa. Elemento precipuo è la grotta, centro simbolico della sacra rappresentazione, intesa come «passage» celeste-ctonio, interpretabile come linea di confine tra il razionale e l’inconscio; segno femminile per eccellenza rappresentante la porta di accesso al mistero. Visione che recupera la lezione dei Vangeli apocrifi, sia il Protovangelo di Giacomo che lo pseudo-Matteo, che situano la nascita di Cristo in una grotta, contrapponendosi all’usanza gesuitica che la collocava su un colle. In sintesi, il modello gesuitico e quello popolare hanno una vocazione antitetica. Nelle strutture presepiali scorgiamo elementi e personaggi emblematici situati nello spazio sacro secondo un ordine conforme alla tradizione, la cui simbologia, stratificata e composita, non è semplice da decodificare perché rappresenta una summa di significanti ermetici facenti parte dell’onirico immaginario popolare.



IL POZZO E IL PONTE

I più noti sono il pozzo, il ponte, i re magi, la zingara, Cicci Bacco, Armenzio, Benino. Il ponte è un simbolo di passaggio collegato alla magia. Alcune fiabe raccontano di tre bambini, di nome Pietro, ammazzati e tumulati nelle fondamenta della struttura col fine di tenere magicamente solidi gli archi. Esso indica attraversamento e limine che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. In relazione a tal segno, nel Meridione nel giorno dell’Epifania, dov’è collocato il ponte, si dispongono dodici figure incappucciate aventi il pollice della mano sinistra che arde e raffigurano i dodici mesi e/o i dodici giorni del periodo natalizio che volge alla fine. I re magi sono i pastori nobili sui relativi tre cavalli: bianco, baio e nero. Tale cromatismo ritrae l’aurora, il mezzogiorno e la notte, raffiguranti il percorso notturno dell’astro che si completa con l’avvento del bambino solare.

    Napoli. La zingara

LA ZINGARA

La zingara è una figura premonitrice collegata alle sibille. Alla Sibilla Cumana la memoria collettiva attribuisce una leggenda. Aveva profetizzato l’avvento del Redentore, illudendosi di essere la vergine che lo avrebbe partorito. Per questa sua presunzione fu trasformata in un uccello notturno. Alcuni personaggi vanno esaminati in coppia, come Armenzio e suo figlio Benino, che rivelano una dualità attinente all’anno che finisce e all’avvento del nuovo anno. Benino è raffigurato mentre dorme; attraverso la visione onirica indica il viaggio iniziatico e arcano verso la grotta. Una particolare relazione sembra accostare questa scena del presepe al dramma in forma di commedia Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo.



BENINO E CUPIELLO

In ambedue i casi un sognatore riposa e viene svegliato: Benino da Armenzio, Luca dalla moglie Concetta. Ma, mentre Benino sogna il futuro, Luca Cupiello sogna il passato come un «puer-senex», ovvero considera la vita come un grande giocattolo e non riesce a sopravvivere in una società opulenta e convulsa che ha svilito la percezione del Natale sia nella sua laica sacralità, sia nel suo linguaggio misterico-simbolico. A ciò fanno eco le parole di Pier Paolo Pasolini: «Siamo arrivati all’insopportabile Natale. Tanti auguri ai fabbricanti di regali pagani! Tanti auguri ai carismatici industriali che producono strenne tutte uguali! Tanti auguri a chi morirà di rabbia negli ingorghi del traffico e magari cristianamente insulterà o accoltellerà chi abbia osato sorpassarlo o abbia osato dare una botta sul didietro della sua santa Seicento!»


il Manifesto/Alias – 16 dicembre 2017

Finché c'è America c'è Western

$
0
0

È il genere a stelle e strisce per eccellenza, spesso dato per morto ma che sempre risorge al cinema e in letteratura Come dimostra "Lonesome Dove", romanzo premio Pulitzer che ora torna in libreria.

Omar di Monopoli

Finché c'è America c'è Western

Si fa presto a dire morto. Il western, genere popolare per il quale in parecchi intonano da decenni il de profundis, risorge di continuo, autoalimentandosi con la forza del proprio mito, a Hollywood come sugli scaffali delle librerie. Sorto alle soglie dell'Ottocento grazie alla fortunata serie Leatherstocking Tales di James Fenimore Cooper, che recuperava la dicotomia tra la spinta civilizzatrice degli uomini e una wilderness primitiva e feroce, il western assurge al successo con Il virginiano di Owen Wister, che mescola abilmente l'iconografia pittorica dell'epoca (Remington in primis) con l'ideologia della colonizzazione dei territori selvaggi, espressa dal presidente Theodore Roosvelt nel suo The Winning of the West.


Ma è con l'appropriazione da parte del cinema delle cosiddette dime novels (romanzacci da due soldi che rielaboravano in chiave discutibile alcune tipiche figure della frontiera) che il western si propala nella sua forma più essenziale: realizzato da Edwin S. Porter nel 1903, Assalto al treno è il film più famoso della neonata settima arte, e codifica un genere che di lì in poi avrebbe plasmato l'identità di generazioni di maschi occidentali: un cappellaccio, una pistola e una coppia di speroni e si è subito sceriffi al galoppo in una landa polverosa.

Se è quindi assodato che si deve al cinema la straordinaria diffusione del western di là degli Usa, lo stesso non si può dire per la letteratura, che solo sporadicamente riuscì a conquistare i mercati esteri. Ma in patria scrittori come Zane Gray e Louis L'Amour seppero produrre solide opere d'intrattenimento, spesso portate sul grande schermo da John Ford, Howard Hawks, Robert Aldrich.


E proprio come omaggio all'epos di quella genia di semidei della cinepresa nacque uno dei romanzi spartiacque del racconto di frontiera: Lonesome Dove, ora ripubblicato in Italia da Einaudi, che il regista Peter Bogdanovich commissionò a principio dei Settanta a Larry McMurtry, romanziere e sceneggiatore dai cui lavori erano già stati tratti film di successo come Hud il selvaggio, con Paul Newman, e L'ultimo Spettacolo, con un giovanissimo Jeff Bridges. McMurtry abbozzò lo script per una pellicola che avrebbe dovuto intitolarsi Streets of Laredo, protagonisti James Stewart, Henry Fonda e John Wayne, ma lo sfilarsi di quest'ultimo disperse i finanziatori e dell'intero progetto non rimase altro che il brogliaccio.

Sconsolato, McMurtry rimaneggiò la sceneggiatura e dieci anni più tardi, 1985, la fece approdare nelle librerie sotto forma di romanzo.Proprio mentre il genere agonizzava in uno dei suoi più dolorosi periodi di stanca. Ma anche in pieno edonismo reaganiano, quando il rinnovato interesse per la fantascienza e il rambismo l'avevano messo all'angolo, il western seppe mantenersi in vita attraverso i mille rivoli del poliziesco, perché nessun altro genere è più aperto alle contaminazioni.


Pubblicato anche da noi come Un volo di colombe e oggi riproposto col titolo originale (Lonesome Dove è il nome del villaggio texano dove si sono ritirati i due ex avventurieri protagonisti del volume, che vengono liberati dal torpore dal vecchio compagno di scorribande Jake Spoon proponendo loro di improvvisarsi mandriani), il libro divenne subito un caso editoriale, meritandosi il Pulitzer. E questo per due motivi: il primo è che McMurtry è un autore sopraffino.

Nelle novecento e passa pagine del romanzo la sua penna allestisce un appassionante e intricato spettacolo di vaccari, pellerossa, prostitute, fuorilegge e spazi aperti. Il punto di vista oscilla con sapienza nel coro di partecipanti alla vicenda, prediligendo i protagonisti principali senza però trascurare mai le figure di contorno.

Ambientando la storia nel periodo di poco successivo alla sconfitta di Custer, McMurtry accompagna il lettore nell'epoca d'oro dei trasferimenti delle grandi mandrie dal Sudovest verso il Nord ricco di praterie d'erba e lo fa glorificando il cielo punteggiato da nubi che riflettono la propria ombra sullo spazio sconfinato.



Quel cielo immenso, così indecifrabile, diventa quasi a tradimento il vero protagonista. E questo è il secondo punto rilevante di quest'opera davvero unica, da vent'anni in cima alle classifiche di vendita in patria. Classica solo nella forma, poiché nei fatti, al pari del coevo e più viscerale Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, qui non i parla di eroi che sconfiggono i cattivi in nome della giustizia o del progresso.

No. Il West di McMurtry è un mondo in cui è a paura a farla da padrona. Del deserto, dei serpenti, degli indiani, delle malattie, dei banditi o di un fulmine che può incendiarti il granaio e accopparti la famiglia. Laddove Meridiano di sangue scalza e depura di ogni epica il mito della frontiera ricorrendo a un impasto visionario di truculenza e crudeltà, Lonesome Dove azzera ogni romanticismo mostrandoci personaggi in balia degli accidenti, uomini diventati allevatori più per inquietudine che per spirito imprenditoriale. E che, al contrario delle monadi del western classico, sono spiriti piccoli, irresponsabili e pieni di humor. Esseri umani "veri".


La Repubblica – 16 dicembre 2017

Felice Hanukkah. Nasce a Ferrara la casa degli ebrei

$
0
0


Nel luogo d'origine dei Finzi-Contini si inaugura il Museo dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS). Raccoglierà la storia e la cultura degli israeliti italiani. La struttura sorge in un ex carcere dove nel 1943 furono imprigionati gli uomini e le donne destinati ai lager.

Paolo Rumiz

Felice Hanukkah. Nasce a Ferrara la casa degli ebrei


Che c'entra Abramo con le verdure fritte in pastella? C'entra, come i carciofi alla giudìa. Le donne ebree immigrate in Italia cucinavano così. Sono loro che, con gesti d'alchimista, ci hanno insegnato a trasformare zucchine e carote in succulente pepite in padella. Abbiamo dimenticato — o forse ci hanno abituato a rimuovere — quanto di israelita si sia travasato nella cultura e nei costumi della Penisola.

Per esempio che, nella Grande guerra, gli Ebrei ebbero, nell'esercito regio, sei volte più decorati rispetto alla media. O che vi furono 200 Ebrei fra i fascisti della marcia su Roma. Oppure che aggettivi come "fasullo" e "sciamannato" sono arrivati qui dal Medio Oriente, dopo affascinanti peripli nel Mediterraneo o nell'Europa centro-settentrionale.

Impareremo molto dal Museo dell'ebraismo italiano e della Shoah (Meis), che si apre oggi a Ferrara con l'accensione della seconda candela di Hanukkah in concomitanza con la festa di Santa Lucia. Scopriremo quanto, fra i poli di Spagna-Sefarad e del nord ashkenazita, l'Italia sia stata centrale nel mondo ebraico; ma anche quanto di ebraico sia rimasto in Italia nei millenni, nonostante il succedersi di dominazioni e un drammatico alternarsi di tenebre e luce.


Voluto dal parlamento italiano con legge del 2003 (primo firmatario Dario Franceschini, ferrarese, oggi ministro dei Beni culturali), il Meis aprirà domani al pubblico la prima delle cinque sezioni previste, dedicata alle origini e ai primi mille anni di presenza ebraica in Italia.

Nel 2020, una volta completato, diverrà uno dei più grandi contenitori culturali della nazione. Ferrara dunque: città dove l'ebraismo è nell'aria, nei mattoni, nei canali, nei vicoli e nelle stesse brume padane. Ferrara dei Finzi-Contini, dove alla fine del Quattrocento gli Estensi danno il benvenuto agli Ebrei espulsi dalla penisola iberica e dal Sud Italia in nome della "limpieza" razziale e religiosa.

Ferrara maledetta dal Papa per la sua apertura ai Giudei, e dove Ariosto è subito tradotto in ebraico; la città di Isacco Lampronti, immenso talmudista, di Theodor Herzl, padre del sionismo moderno, di Donna Garcia Ha Nasi, imprenditrice dalla vita leggendaria fra Spagna, Italia, Turchia e Terrasanta.

In questo mondo dove le pietre parlano, ecco, all'interno delle vecchie mura, l'edificio dell'ex carcere, completamente ripensato, che diventa polo di cultura. «Non c'è niente di più ebraico che aprire alla conoscenza un luogo chiuso», sorride la direttrice Simonetta Della Seta. «Quando arrivai qui la prima volta, contai le celle, vidi che erano 32 e vi lessi un segno. Per la cabalà 32 è un numero speciale, quello dei sentieri dell'albero della vita e delle vie della sapienza suggerite dall'alfabeto ebraico.


È stata anche questa coincidenza a farmi accettare una sfida entusiasmante». Un lavoro complesso, ma maledettamente necessario, specialmente ora che il buio del pregiudizio sta facendosi nuovamente strada in Europa, un lavoro portato avanti col supporto di tre curatori di prima grandezza: Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e Davide Jalla. Una mobilitazione a tutto campo. Entri e, in 24 minuti di film, hai la storia d'Italia letta con gli occhi degli Ebrei.

Si parte dalla distruzione del Tempio per mano dell'esercito imperiale e la conseguente deportazione in Italia della classe dirigente di Gerusalemme, ridotta in schiavitù ma presto riscattata dagli Ebrei romani. E così avanti, fino agli anni della grande fioritura tra Settimo e Nono secolo quando il popolo del libro, scrive Jalla, ritrova l'uso dell'ebraico ed esprime grandi testi letterari e scientifici; e ancora oltre, fino alle soglie del regno di Federico di Svevia, quando nel sud gli Ebrei diverranno il dieci per cento della popolazione e si troveranno a fare da ponte fra antico e nuovo, fra l'Islam, Bisanzio e il mondo cristiano. Un lievito che aiuterà ad amalgamare un Mezzogiorno mai così vivo e plurale, abitato da Longobardi, Svevi, Normanni.

Prosegui a zigzag tra celle restituite allo spazio e alla luce, e rivedi con occhi nuovi ciò che credevi di avere sempre saputo. Impari che il Colosseo è stato eretto con l'oro ricavato dal bottino delle guerre giudaiche, che le colonne tortili di San Pietro hanno avuto per modello quelle descritte nella Torah, o che il primo Golem non è nato affatto nella brumosa Praga ma secoli prima nel sole della Puglia, per mano di alchimisti della stessa stirpe.

Scopri che il baccalà, il pesce marinato in agrodolce e la zucca caramellata al forno sono piatti di importazione ebraica. E se guardi agli ultimi due secoli, ti addentri in altri labirinti del non detto per ripetere che l'Italia ha avuto un primo ministro ebreo, Luigi Luzzatti, e che ebreo era pure il segretario del conte di Cavour, Isacco Artom.


Per nessun altro popolo storia e geografia coincidono in modo così perfetto, ed ecco che il viaggio continua tra mappe e schermi parlanti sull'epopea di un popolo errante in cerca di terre dove vivere. Ecco la statua originale di Tito portata dal museo archeologico di Napoli; ecco le monete con la scritta Judea capta a sigillo delle guerre contro gli Ebrei ribelli di Israele; ecco la simulazione fortemente emozionale dell'incendio del Tempio. Oltre, un arco di Tito su scala uno a due e la riproduzione in gesso del bassorilievo che lo abita, dedicato al trionfo dell'esercito in marcia col leggendario candelabro a sette braccia. Una sottomissione dura, che però non diventa mai antisemitismo, prova ne sia che Roma, in quegli stessi anni, ha già quattordici sinagoghe.

E ancora una simulazione perfetta delle catacombe ebraiche di Villa Torlonia e del Cubicolo dei Pegasi, quest'ultimo affrescato con figure umane a testimonianza dell'influsso latino nei costumi degli Ebrei di Roma. Estetica latina e religiosità orientale si influenzano a vicenda per secoli, facendo degli Ebrei italiani qualcosa di diverso rispetto ad ashkenaziti e sefarditi.



Un mondo articolato in centinaia di comunità, meticolosamente narrate dal viaggiatore ebreo-spagnolo Beniamino Da Tudela, che nel Dodicesimo secolo attraversa a piedi la penisola battezzata "I Tel Yah", isola della rugiada divina. E che dire della Genizah del Cairo, da poco ritrovata, dalla quale emergono spartiti che assegnano all'Italia la primogenitura della musica ebraica. Ora tutto questo torna alla luce, in un percorso che aiuta ad andare oltre la schiacciante memoria della Shoah.

E c'è chi mai avrebbe immaginato che un simile sogno potesse avverarsi: Corrado De Benedetti, classe 1927, tuttora membro attivo di un kibbutz israeliano, che in quella prigione fu rinchiuso dai fascisti nel '43 in attesa di essere portato in Germania. «È stato qui — dice dopo aver ritrovato la sua cella — che ho cominciato a pensare di costruire una società più giusta, fondata su valori democratici ed ebraici».


La Repubblica – 13 dicembre 2017

Paris noir per Léo Malet

$
0
0

Delitto al Luna Park» di Léo Malet, per Fazi editore. Un grande noir parigino che è anche omaggio ai maestri del genere (Hammet e Chandler).

Benedetto Vecchi

Atmosfere noir per attaccare la Francia gollista e borghese

Una Francia che sta lanciandosi dietro le spalle gli anni della seconda guerra mondiale e che vuole divertirsi e diradare la plumbea coltre di povertà, dolore e macerie di un mondo ormai scomparso o in via di sparizione. Le persone vanno nuovamente in vacanza.

Marsiglia è la città mediterranea per eccellenza, mentre la Costa azzurra è la mèta ambita anche per piccoli e medi impiegati, cioè quella piccola borghesia che il gollismo ha scelto come base di massa delle sue fortune elettorali. Parigi, la capitale del XX secolo, è in via di rapida trasformazione. Sta cambiando pelle e i luna park sono i luoghi prescelti per assaporare il gusto dell’eccentricità nel vestire e nelle consuetudini sessuali per poi tornare alla routine quotidiana. Ed è proprio Parigi la location del romanzo di Léo Malet Delitto al Luna Park (Fazi, pp. 203, euro 15) che ha come protagonista il detective privato Nestor Burma.

Sono due anni che meritoriamente la casa editrice Fazi sta pubblicando i romanzi di questo scrittore francese, poco conosciuto a queste latitudini, ma che ha avuto il grande pregio di aver sovvertito, innovandolo, un genere – il noir – attraverso un cambio di prospettiva e facendo irrompere nelle pagine dei suoi romanzi figure sociali che la narrativa d’oltrealpe aveva espulso. Difficile immaginare la politicità dei noir di Dominique Manotti, Fred Vargas, Jean-Claude Izzo, Didier Daeninckx senza Malet.


In Malet la parte del leone spetta, infatti, a operai, lumpenproletariat, prostitute, piccoli artigiani, «irregolari». E se nei primi romanzi, le atmosfere evocassero la Parigi degli anni Trenta, in questo siamo negli anni Cinquanta.

Ttutti vogliono dimenticare la guerra non potendo sapere che da lì a pochi anni irromperanno nelle strade della capitale francese i «dannati della terra» algerina, tunisina, indocinese che, in nome di «libertà, uguaglianza e fraternità», vogliono spezzare le catene del colonialismo. Cioè temi che hanno condizionato il noir francesce nella seconda metà del Novecento.

Nel Delitto al Luna Park, oltre che dimenticare la guerra e la complicità di molti connazionali nella deportazione e sterminio di ebrei e prigionieri politici, i francesi vogliono anche arricchirsi. Nestor Burma incappa in un malvivente con un passato da impiegato e deve difendersi per salvare la pelle.

Ci riuscirà, mettendo fine però alla vita del suo avversario. Pagina dopo pagina, emerge dal recente passato la rapina di un treno che trasportava due vagoni pieni di oro, un vignaiolo che vuol diventare importante, bulli di quartiere che hanno scelto i luna park per le loro scorribande; ragazze borghesi in fuga dalla prigione famigliare. E poliziotti nostalgici del tempo passato quando nessuno metteva in discussione il loro operato.


Léo Malet è stato un grande scrittore di noir. Non nascondeva il suo amore per Dashiell Hammet e Raymond Chandler. In questo Delitto al Luna Park li omaggia espressamente, mettendo così in chiaro, per chi avesse dubbi, che nulla aveva a che fare con George Simenon, allora astro di successo del giallo francese. Recentemente, nella scoperta italiana di Malet in molti hanno, a ragione, sottolineato che l’autore non era certo secondo a Simenon.

Entrambi sono grandi scrittori, ma con stili antitetici. Simenon è il cantore della piccola borghesia conservatrice francese; Malet usa invece il noir per denunciare le diseguaglianze di classe perduranti nella patria di quella Marianna simbolo della prima rivoluzione moderna. È cioè uno scrittore partigiano che mantiene, tuttavia, intatto un ironico disincanto verso chi vuol raddrizzare, indipendentemente dai mezzi, il legno storto dell’umanità. Sta in questo disincanto la sua forza narrativa, nel tessere credibili trame della critica corrosiva della Francia gollista e borghese.

Il Manifesto – 12 dicembre 2017

Arte ribelle. 1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto

$
0
0

«Arte ribelle. 1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto», la rassegna a cura di Marco Meneguzzo presso la Galleria del Credito Valtellinese. Un affresco dei linguaggi alternativi che cercavano di rifondare la società insieme al pubblico, diventato la «collettività».

Arianna Di Genova

La sgargiante grammatica della contestazione


Quando ancora i selfie non esistevano e l’unica possibilità di lasciare una traccia di sé era entrare in una cabina per le fotografie istantanee, l’artista Franco Vaccari pensò bene di mettere quell’architettura dell’effimero a disposizione del pubblico della Biennale per dar vita a una serie di autoscatti (da attaccare poi alla parete), coinvolgendo chiunque nella «rappresentazione» e nella finzione che è insita in ogni opera. Era il 1972 e già da diversi anni tutto era cambiato. La mutazione principale aveva scosso le fondamenta dei linguaggi per perseguire una «utopia dello scopo» che, in realtà, era in atto fin dagli esordi del Novecento.

Arte ribelle. 1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto (prorogata fino al 20 gennaio 2018; la rassegna si sdoppia anche a Fano, alla Galleria Carifano in Palazzo Corbelli, con una tappa dove viene esposta la collezione di Cesare Marraccini) è il progetto ideato da Marco Meneguzzo che i responsabili delle Gallerie del Credito Valtellinese di Milano – Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra – hanno accolto per creare una narrazione composita del ’68 e delle sue propaggini. 


È una mostra, quella milanese rispetto alla romana presso la Galleria nazionale di arte moderna, che racconta l’altro volto del decennio dei movimenti, senza voler «sciogliere la matassa dei linguaggi», ma operando una scelta di campo. 

E la prima – e più evidente – concerne sicuramente i fruitori dell’arte, i cosiddetti «visitatori». Così Meneguzzo, seguendo le indicazioni degli autori più politicizzati, si orienta verso la collettività, nuovo soggetto che prende prepotentemente la scena, mandando in soffitta il più generico «pubblico». Si va dalla strada alle fanzine, dalle manifestazioni allestite creativamente dagli artisti ai quadri e ai collage, guardando al Sessantotto come a una «categoria dello spirito», con confini geopolitici molto larghi che finiscono per superare quelli meramente temporali.

Naturalmente, la rivoluzione è avvenuta assai prima delle rivolte di piazza e all’università. L’«alterità» di molti protagonisti di quell’epoca era già attiva e innescata. «Non ho adeguato il mio linguaggio. Direi che la furia di quegli anni, io la sentivo anche nel mio lavoro», dice Emilio Isgrò.
Nel 1968, la «grammatica della contestazione» si semplifica e privilegia alcuni stilemi, scalzando gli altri. Uno fra tutti, l’uso della fotografia fuori contesto, ritagliata dalla cronaca giornalistica e ritrattata ad hoc. Fernando De Filippi nel ’62 già faceva dei lavori usando le prime pagine dell’Unità.


Amatissime anche le strisce dei fumetti, un tempo considerati fenomeni appartenenti alle subculture, ora «spazi» artistici per la divulgazione. Le icone stesse delle lotte operaie e comuniste – falce e martello, bandiere, striscioni, Lenin – divengono simboli che sono riproposti in pitture (Franco Angeli) così come in collage arditissimi, mentre tra i filoni che prendono il volo c’è quello psichedelico, favorito dalle pratiche dell’editoria alternativa, da ciò che arrivava dall’America, da un immaginario ipercontaminato, che guardava all’oriente e agli stati di alterazione permanente, agli slogan politici, alla guerra del Vietnam e all’illustrazione per ragazzi. Matteo Guarnaccia, intervistato da Meneguzzo nel bel catalogo che accompagna l’esposizione, racconta come l’arte si coniugasse con il piacere: si comprava ai tavolini dei bar, seguendo solo il proprio desiderio.

Visitando la mostra alle Gallerie del Credito Valtellinese, è chiarissimo che dal 1968 al 1978 la rivoluzione estetica ha operato soprattutto attraverso una serie di cortocircuiti esplosivi e interdisciplinari, aprendo nuovi spazi alla comunicazione e all’uso della parola (che andava oltre il concetto di autorialità).


C’era chi, come Nanni Balestrini, proveniva da esperienze letterarie – Gruppo 63 e poesia visiva. Per lui era importante «rappresentare i temi in modo leggero, disincantato, senza la cupezza dei Realismi, della propaganda», ma con una gioia per l’immagine che non necessariamente «rompesse» con la pittura. Per Pablo Echaurren fu la lettura di Marx ed Engels a catapultarlo verso «la creatività diffusa, colllettiva, connettiva, non separata dalla vita reale».

La rotta di collisione dell’Arte ribelle investe un certo tipo di società, permettendo – anche attraverso pratiche di occupazione e condivisione degli strumenti espressivi – la riappropriazione della città. Titolo quest’ultimo del film sperimentale (visibile in mostra) di Ugo La Pietra, che «cercava di togliere di dosso tutto ciò che si era malamente accumulato».


Il manifesto – 28 novembre 2017

Protestantesimo e musica. Lutero e il canto corale

$
0
0

Oltre a tradurre la Bibbia in tedesco, Lutero trasformò canti popolari in inni religiosi. Un modo attraverso la musica di avvicinare il popolo alla chiesa. Ne derivò una vera e propria rivoluzione musicale.


Paolo Isotta

Martin Lutero, il protestante amico della musica (a modo suo)



Avevo promesso di ricordare i cinquecento anni della Riforma di Lutero sotto il profilo del rapporto fra protestantesimo e musica. Il primo degli articoli che a tale tema dedico tratta di ciò che avviene prima di Bach, che di tale rapporto è il culmine, come lo è della musica stessa.

Lutero era a modo suo un amico della musica. Gli piacevano le canzoni: che fossero domestiche, edificanti. In pari tempo, i fedeli dovevano intensamente partecipare alla celebrazione liturgica. Il suo genio introdusse le canzoni nel rito. Canzoni profane presero un testo devoto; canzoni devote presero nuova forza; melodie liturgiche del canto gregoriano vennero semplificate e ricevettero un testo tedesco. Il Lied diviene il Corale in tedesco, la base della musica sacra luterana.

Presi in sé, molti Corali sono bellissimi. Non sono un’interpretazione della parola liturgica, come avviene nella polifonia sacra cattolica che nel corso del Cinquecento si sviluppa. Le melodie servono quale veicolo della parola, e la loro generica emozione, coll’emozione che sempre nasce dal fatto di cantare insieme – e l’assemblea i Corali cantava – faceva penetrare la Parola di Dio nelle anime dei fedeli.

Ma legge della storia è l’eterogenesi dei fini. La complessità della polifonia era ormai acquisita alla musica: non si poteva sradicare. Peraltro Lutero non poteva immaginare che la musica, sviluppandosi come linguaggio e forma autonomi, si sovrapponesse alla Parola colla parola sua propria.

L’arte dello sviluppo della melodia gregoriana in complesse, pur se sintetiche, strutture strumentali sull’organo, già esisteva. Un ponte unisce Girolamo Cavazzoni (1520-1577) non solo a Girolamo Frescobaldi, il più importante compositore per organo prima di Bach, ma anche a Jan Pieterszoon Sweelink (1562-1621) e alla serie dei grandi organisti tedeschi del Seicento, culminanti in Dietrich Buxtehude (1637-1707), Johann Adam Reincken (1643-1722) e Nicolaus Bruhns (1665-1697).


In pari tempo, l’elegante organo rinascimentale dal timbro equilibrato, ideale trasposizione strumentale delle quattro voci di un coro, viene superato dall’organo secentesco neerlandese, scandinavo e, soprattutto, tedesco. Opera d’arte architettonica, esso è in pari tempo il culmine della tecnologia dell’epoca del Barocco. Suono possente quale nessuna orchestra dell’epoca poteva sognare, policromia di registri.

E in Germania, pur con la carestia e lo spopolamento e la miseria causati dalla Guerra dei Trent’Anni, anche le piccole città si svenavano per avere un grande organo nel quale si concentrasse l’orgoglio municipale. (Bach guadagnò in vita più come collaudatore di organi – le sue perizie sapevano scoprire persino se la lega metallica delle canne era stata artefatta per economia – che come compositore).

Il Corale diviene, come il canto gregoriano in Frescobaldi, ma con un’ ampiezza e intensità di sviluppi propria dell’anima tedesca, la base per grandiose forme strumentali autonome, culminanti nella Fuga. Noi siamo abituati a pensarlo siccome trattato da Bach: ma anche la conoscenza della sua opera non oscura l’ammirazione per l’arte di Maestri i quali sono alla base della stessa tecnica dell’elaborazione tematica di Bach e poi della musica classico-romantica.

Wagner usa il luteranesimo a fini politici pangermanici; ma c’è un ponte linguistico, stilistico e formale che dai Maestri dell’organo secentesco tedesco porta a lui. La Parola viene sussunta e assorbita, diviene pura forma musicale. E dobbiamo ringraziarne Lutero…: la musica ha delle ragioni che la ragione di Lutero ignora.



Il Fatto – 21 dicembre 2017

Biamonti, Boine e gli olivi cattedrale dei Liguri

$
0
0

Biamonti e Boine come testimoni della crisi della civiltà dell'olivo. Prima parte del nostro intervento al Convegno su Francesco Biamonti tenutosi recentemente a San Biagio della Cima.

Giorgio Amico

Biamonti, Boine e gli olivi cattedrale dei Liguri

In navigazione al largo della Sardegna su una nave carica d'armi diretta ad un incerto approdo Edoardo, il protagonista di “Attesa sul mare”, guarda un cielo coperto di stelle che gli ricorda il paesaggio del suo paese:

Giove splendeva enorme, ma come franto, i satelliti stavano passando sopra il disco. Le stelle intorno sembravano minerali perduti. Smise di guardare per non soccombere ad un senso di malinconia. Pensò al suo paese, agli ulivi dei suoi costoni, che s'accordavano alla maestà del cosmo, quasi sogni di pietra”.1

E “sogni di pietra” erano stati per Boine gli oliveti delle vallate di Imperia. Sogni concreti, duri e tenaci, come concreti e tenaci erano gli uomini che li avevano eretti, anno dopo anno, generazione dopo generazione. Sogni impastati di fatica e di sudore a divenire preghiera, salda fiducia nel futuro. Testimonianza di un passaggio sulla terra che doveva lasciare una traccia indelebile fatta di olivi e di pietra. La vera cattedrale dei Liguri, secondo Boine attribuzione di significato ad una vita aspra, interamente compresa in un lavoro senza soste, ad una quotidiana fatica fondata su di un'etica del sacrificio che per quegli uomini assumeva quasi carattere di preghiera:

Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza...”.2


Una visione religiosa, quasi mistica, della vita che non appartiene a Biamonti che già nel suo primo romanzo riprende quasi alla lettera il testo boiniano, ma spogliandolo di qualsiasi afflato religioso:

Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla «buona morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed uniti all'idea di questa fatica, da sola insostenibile. E Morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile”.3

Quella che per Boine è prima di tutto “la coscienza d'una razza, la forza di una razza, la sicura religione della razza”4 diventa in Biamonti soprattutto pena, sofferenza, autoillusione. Nulla può davvero compensare la feroce fatica del vivere. Se “dagli ulivi e dal mare di Liguria Boine si apre all'ascesi e al misticismo delle terre di Spagna”,5 per Biamonti, cresciuto alla scuola di Camus e di Benjamin, non esistono vie di fuga praticabili. Boine si sente parte della narrazione, partecipe di quel mondo di cui lamenta la crisi. Il suo articolo sulla crisi degli olivi in Liguria vuole in qualche modo essere anche un manifesto politico, una chiamata alla resistenza e alla lotta. Per Biamonti, che pare assistere dal di fuori alla catastrofe in corso, quella storia è finita, quel mondo è in piena disgregazione, non c'è più nulla da salvare, se non forse il ricordo.

Qui da noi, sulla costa ligure occidentale, è morta la civiltà dell'olivo (…). Non c'è più niente. E un'altra civiltà non s'intravvede”.6

Gli oliveti abbandonati non ricordano più “l'opera trionfale” dei padri, ma un un rassegnato adattarsi ad una condizione umana la cui durezza neppure l'azzurro luminoso del cielo riesce più a mitigare. Solo la fatica e una pazienza che, generazione dopo generazione, si trasforma ineluttabilmente in una sorta di fatalistica rassegnazione:

Ce n'é voluta di pazienza, pazienza nell'azzurro, per innalzare tutti questi muri”.7“Generazioni dei miei vi si sono consumate le braccia”.8


Un mito moderno: la civiltà degli olivi

Spesso nei suoi articoli e nelle interviste Biamonti parla di una millenaria civiltà dell'olivo, addirittura “greca e fenicia”, probabilmente inconsapevole di riecheggiare un mito moderno. Certo, gli ulivi in Liguria ci sono da tempo immemorabile, forse come olivastro selvatico da sempre. Ma la civiltà di cui vediamo i resti nella rete di muretti a secco che ancora avvolgono le nostre montagne e nella marea di oliveti che sommergono le nostre vallate, quella no, non è millenaria, i Fenici e i Greci non c'entrano molto. E neppure i Benedettini, così tante volte citati a sproposito. Quella degli oliveti, della monocultura dell'olivo è tutta un'altra storia, ben più prosaica. Una storia recente e tutto sommato breve, destinata ad esaurirsi in pochi secoli. Un portato della modernità che, Boine non ce ne voglia, anche in Liguria si presenta fin dal Quattrocento sotto il segno di un capitale mercantile che cerca nel ritorno alla terra una possibilità di valorizzazione che la crisi del commercio mediterraneo, causata dall'affermarsi delle nuove rotte atlantiche e dal controllo turco del Levante, non offre più. Processi ben descritti da Massimo Quaini nel suo studio seminale sulla storia del paesaggio agrario in Liguria, apparso nei primi anni Settanta nella rivista della Società Ligure di Storia Patria.

Sulla base di una grande mole di dati Quaini dimostra come a partire dagli inizi del Cinquecento la monocultura dell'olivo si sostituisca in tutte le vallate del Ponente, con l'eccezione del Dianese dove è già attestata da almeno due secoli, alla preesistente cultura promiscua. Nei documenti (dagli Statuti agli atti notarili, giudiziari e fiscali) di Porto Maurizio, delle comunità delle valli d'Oneglia, di Albenga, Pietra L., Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle non si trovano tracce di una preminenza dell'olivo. Quasi ovunque è la vite la coltura privilegiata. In molte realtà dell'entroterra, a partire dallo stesso Onegliese, l'olivo ha minore importanza nell'economia locale persino della produzione di fichi e castagne. Una realtà che emerge anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e soprattutto del grande monastero di Bobbio dove l'approvigionamento d'olio per gli usi liturgici e per la mensa si basa in larga parte sugli oliveti del Garda.9

Perse le colonie d'Oriente, soppiantato il Mediterraneo dall'Atlantico le grandi famiglie genovesi, da un lato si dedicano alla finanza e dall'altro tornano alla terra. Una sorta di rifeudalizzazione delle campagne ponentine totalmente inserita nel più generale processo di riassestamento degli assetti socio-economici delle campagne europee così ben studiato da Ruggiero Romano e Fernand Braudel. Gli ulivi investono le valli, le risalgono fino a 800 metri. Nel territorio compreso tra Taggia e Laigueglia nel giro di un secolo l'olivo diventa “coltura esclusiva”. Una società, basata sull'uso promiscuo della terra e su una produzione mirata soprattutto all'autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con le logiche del mercato. 

Un processo che non sarà indolore, ne deriverà la disintegrazione del tradizionale mondo contadino delle vallate. Non è un caso che proprio questo periodo veda accendersi i roghi delle streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del convento di Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle vicine Alpi Marittime e da Tenda che si favoleggia essere un covo di “valdesi”. Segni della resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una trasformazione imposta dall'alto, alla sparizione delle terre comuni, all'abolizione dei diritti d'uso di pascoli e di boschi che si stanno mutando in proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte con campagne di devozione e il richiamo alla fede. Uno dopo l'altro nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari mariani, posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell'immaginario popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una cinquantina. Valle dopo valle l'arrivo degli oliveti si accompagna alle apparizioni miracolose della Vergine che chiama i contadini alla rassegnazione in nome della Misericordia e non della Giustizia.10 

Il clima è quello della controriforma tridentina, con il rigido controllo sulle confraternite e il disciplinamento delle feste popolari, con il barocco che si sostituisce negli edifici sacri via via ad un romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito religioso che da momento comunitario diventa spettacolare ostentazione di potere e ricchezza. Chiese risplendenti d'oro per un popolo impoverito, come impoverite sono le campagne nel Sud del mondo attuale che sulla monocultura vivono in balia degli andamenti di un mercato mondiale che non possono in alcun modo controllare.

Ma non muta solo il paesaggio, cambiano anche le relazioni sociali. Muta l'atteggiamento verso i pastori transumanti, signori delle vie di crinale, questi si rappresentanti la vera civiltà millennaria della Liguria di Ponente, di cui si regolamenta in modo sempre più restrittivo il passaggio. Lo documentano eloquentemente gli Statuti delle comunità; come Triora che a partire da questo periodo disciplina in modo estremamente fiscale il transito delle greggi con particolare riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato in olivis” causato dalle pecore e dalle capre.11

Dopo secoli di convivenza il pastore diventa un intruso, un “ladro d'erba”12secondo la bella espressione dell'antropologo Marco Aime. Una chiusura brutale che sedimenta echi tanto profondi da riemergere all'improvviso in tutta la sua forza nell'Angelo di Avrigue,nell'episodio citatissimo dell'incontro del protagonista Gregorio con il vecchio pastore occitano:

«Gregorio lo invitò a scendere negli ulivi, ché tanto erano abbandonati: danno non ne poteva fare. Ma il pastore negò con la mano. I contadini non amavano “lou pastre”, aggiunse. Al pastore, a “lou pastre”, disse rassegnato, erano destinati solo pietrischi e terreni magri, o quelli rocciosi sul mare, ove cresceva un'erba dura come spago e cespugli che nessuna bestia gradiva».13


Un mercato in espansione per almeno due secoli. Nel giro di cinquant’anni, tra il Settecento e l’Ottocento, solo nella Valle di Oneglia vennero impiantate 250.000 nuove piante di olivo, destinate soprattutto ad alimentare la crescente produzione industriale di saponi nell'area di Marsiglia. Una vita felice tutto sommato breve, chè già dagli ultimi anni del Settecento fra gli economisti della repubblica di Genova inizia un vivace dibattito sui rischi della monocultura, che certo risente della suggestione delle teorie fisiocratiche allora in pieno rigoglio, ma interessa anche noi perchè precorre nelle argomentazioni molte tesi degli attuali avversari di una monocultura manifestazione di una politica neo-colonialista subordinata alle scelte delle multinazionali. 

Discussione frutto dei primi segni evidenti della crisi del settore, riflessa anche nel sentire comune delle popolazione delle vallate. Ne è autorevole interprete Giovanni Ruffini che, nelle prime pagine del Lorenzo Benoni, libro straordinario per comprendere Genova e il Ponente del primo Ottocento, fa esprimere al suo giovanissimo protagonista tutta l'insofferenza provata per la centralità invadente che gli olivi hanno ormai assunto non solo nel territorio, ma nella vita stessa delle persone. Per il rivoluzionario Ruffini l'olivo diventa il simbolo stesso del carattere autocratico, conservatore e reazionario, dell'ancien régime:

«Mio zio, sulla sessantina, era un povero spirito, ma in fondo una pasta d'uomo più buona che cattiva: il quale passava una metà dell'anno in fare grandi prognostici sulle raccolte, e l'altra metà in deplorare le fallite speranze, oscillando così tra una sconfinata fiducia ed una assoluta disperazione. La sola idea distinta che avesse nel cervello erano le ulive; il solo interesse della sua vita le ulive; il solo tema dei suoi discorsi, in casa e fuori, le ulive. Ulive d'ogni forma e qualità, salate, secche, indolcite, ingombravano la tavola a desinare e a cena; non v'era piatto che non avesse una guarnizione d'ulive. Tutte le passeggiate sue, nelle quali io ero il compagno obbligato, non avevano altro scopo che di osservare le ulive sulle piante e la loro maturazione. In una parte dell'anno si camminava addirittura sopra strati d'ulive all'altezza di un piede, stese sul pavimento di un'ampia sala della casa. L'aria stessa che si respirava, era pregna di ulive».14

1. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Torino, Einaudi, 1994, p. 47.
2. Giovanni Boine, La crisi degli olivi in Liguria, a cura di Paolo Morganti, Milano, 2010, p. 14.
3. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, Torino, Einaudi, 1983, p. 4.
4. Giovanni Boine, cit., p. 15.
5. Francesco Biamonti, La terra decaduta, in La città di Boine, Imperia, 1987, p. 131.
6. Francesco Biamonti, L'angelo della distruzione e i popoli migranti, in Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2008, p. 137.
7. Francesco Biamonti, Vento largo, Torino, Einaudi, 1991, p.27.
8. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p.53.
9. Massimo Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria, Atti della Società Ligure di Storia Patria, XII (LXXXVI),1972, II, p. 254.
10. Ivan Arnaldi, Nostra Signora di Lampedusa, Leonardo, Milano, 1990, pp. 95-96.
11. Ivi, p. 124.
12. Marco Aime, Rubare l'erba, Milano, Ponte alle Grazie, 2011.
13. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, cit., p. 53.
14. Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni, ovvero scene della vita di un italiano, Liber Liber, edizione elettronica dell'8 maggio 2007, p. 4.

continua


Siddhartha e Odisseo

$
0
0

Oriente e Occidente per noi oggi rappresentano realtà profondamente diverse, eppure entrambe si rifanno ad una Tradizione primordiale comune che ha lasciato segni profondi.Il post è tratto da “Il Buddha delle ciminiere”, un affascinante blog dedicato alle filosofie orientali che invitiamo tutti gli amici di Vento largo a visitare. Ne vale davvero la pena. Ton Ko è il nome iniziatico di un caro amico, un Maestro nel senso tradizionale e vero della parola.

Ton Ko

Siddhartha e Odisseo

È noto che Siddhārtha Śākyamuni, figlio del re Śuddhodana, prima di abbandonare il palazzo paterno per dedicarsi alla ricerca della liberazione dalla sofferenza divenendo il Buddha, sposò una bellissima donna, la principessa Gopā, conosciuta anche con il nome di Yaśodharā. Per poterla sposare Siddhārtha dovette cimentarsi, su richiesta del padre della giovane, lo Śākya Daṇḍapāṇi, in una lunga serie di prove di ogni tipo contro altri cinquecento pretendenti alla mano di Gopā, tutti appartenenti, come lui, al clan degli Śākya, una stirpe di guerrieri. Superò tutte le prove: la conoscenza delle lingue, della scrittura, dei testi sacri, della matematica e della cosmologia, l’abilità nella lotta, nel nuoto, nella spada, nel cavalcare elefanti e cavalli, nel salto ecc.

Tutto questo si trova nelle tradizionali “vite” del Buddha, e lo stesso Bertolucci vi fece cenno in una scena del suo film Piccolo Buddha del 1993. In particolare le competizioni sono raccontate nel XII capitolo del Lalitavistara, il Sūtra buddhista che è in corso di traduzione in italiano, a cura di chi scrive, a partire da una versione francese del XIX secolo.

Anticipiamo qui un breve estratto del capitolo suddetto, dove è descritta dettagliatamente una delle prove di abilità a cui il giovane Bodhisattva si sottopose, uscendone trionfatore, il tiro con l’arco. E ne proponiamo la lettura facendo seguire il testo indiano da un altro passo, indimenticabile, che si trova nei capitoli XXI e XXII di un’opera fondamentale quanto il Lalitavistara, ma appartenente all’area mediterranea, alla cultura occidentale: l’Odissea. Il confronto tra i due passi è estremamente significativo, e non può non spingere a riflessioni profonde sulle radici della cultura umana, al di là di ogni sciocca idea di appartenenza.

Kipling scrisse: “Oh, l’Est è Est, e l’Ovest è Ovest, e mai i due si incontreranno, finché il Cielo e la Terra si presenteranno infine al Grande Seggio del Giudizio di Dio”. Ma proseguì con queste parole: “Ma non c’è né Est né Ovest, non Confine, non Razza, non Nascita, quando due uomini forti si affrontano faccia a faccia, arrivando dai lati opposti del mondo”.

Certo, resta da chiarire e comprendere molto bene, da parte di ognuno di noi, quale significato intendiamo attribuire al concetto di uomo forte…


Si legge nel Lalitavistarasutra (testo forse del I sec. a.C. – I d.C.: la prima versione cinese apparve nel 308 d.C.):

Allora Daṇḍapāṇi rivolse queste parole ai giovani Śākya: Poiché abbiamo visto ciò che volevamo sapere, mostrate ora l’arte del tiro con l’arco.
Subito Ānanda posò un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di due krośa. Dopo di lui Devadatta posò un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di quattro krośa; quindi Sundarananda mise un altro tamburo di ferro alla distanza di sei krośa. Dopo di lui, lo Śākya Daṇḍapāṇi sistemò un tamburo di ferro alla distanza di due yojana. Infine il Bodhisattva dopo aver posato un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di dieci krośa, vi sistemò dietro sette alberi tāla e più lontano una sagoma in metallo con l’immagine di un cinghiale.
Ānanda colpì il tamburo posto come bersaglio alla distanza di due krośa, ma non poté fare di meglio.
Devadatta colpì il tamburo posto come bersaglio a quattro krośa, senza poter fare di meglio.
Sundarananda colpì il tamburo posto come bersaglio a sei krośa, senza poter fare di meglio.
Daṇḍapāṇi colpì il tamburo posto come bersaglio alla distanza di due yojana e riuscì a bucarlo, ma non poté fare di meglio.
Allora il Bodhisattva, dopo aver spezzato uno dopo l’altro tutti gli archi che gli venivano dati [chiese]: C’è qui in città qualche altro arco che, teso da me, sia in grado di resistere alla forza del mio corpo e di sostenere il mio sforzo?
Il re rispose: Ce n’è uno, figlio mio. Il giovane domandò: O Re, dove si trova? E il re: Si tratta di tuo nonno, chiamato Siṁhahanu (mascella di leone), il cui arco è ora custodito e onorato nel tempio degli dei, tra profumi e ghirlande; fino ad oggi nessuno è stato in grado di sollevare e quindi di tendere quell’arco.


Il Bodhisattva disse: Mi si porti quell’arco, o Re. Lo proveremo.
L’arco fu subito portato; e tutti i giovani Śākya, benché facessero il massimo sforzo, non poterono sollevare l’arco né, a maggio ragione, tenderlo.
Quindi l’arco fu dato allo Śākya Daṇḍapāṇi, ma sebbene impiegasse tutta la forza del suo corpo egli riuscì soltanto a sollevarlo, senza poterlo tendere.
Infine l’arco fu consegnato al Bodhisattva; ed egli sollevò l’arco rimanendo seduto sul trono con le gambe incrociate, lo impugnò con la mano sinistra e lo tese con un solo dito della mano destra.
Nell’istante in cui l’arco fu teso, il suono riecheggiò in tutta la grande città di Kapilavastu e tutti gli abitanti, impauriti, si chiesero l’un l’altro che cosa fosse quel rumore. Poi si dissero che il giovane Sarvārthasiddha aveva teso l’arco di suo nonno e che quel rumore proveniva di lì.

In seguito dei e uomini, a centinaia di migliaia, emisero grida di stupore e di ammirazione e i figli degli dei che si trovavano nelle distese dei cieli rivolsero questi versi al re Śuddhodana e a quella grande moltitudine di persone:
Poiché l’arco è stato teso dal Muni senza che nemmeno si alzasse dal suo trono e senza fare alcuno sforzo, certamente il Muni realizzerà presto i suoi propositi, dopo aver sconfitto l’armata di Māra.
Quindi, o Monaci, dopo aver teso l’arco e incoccato una freccia, il Bodhisattva la scagliò con la sua forza, nella direzione in cui si trovavano i tamburi di Ānanda, di Devadatta, di Sundarananda e di Daṇḍapāṇi. Dopo averli attraversati tutti con la freccia, egli perforò, alla distanza di dieci krośa, il tamburo di ferro che aveva piazzato come bersaglio e oltrepassò i sette alberi tāla. Infine, dopo aver bucato anche la sagoma del cinghiale, la freccia penetrò nel terreno e scomparve sprofondando in esso. Nel luogo in cui la freccia era entrata affondando nel suolo si formò un pozzo che ancora oggi è chiamato Śarakūpa (pozzo della freccia).


E nell’Odissea (forse 800-700 a.C.) è detto:

E allora il porcaro portava attraverso la sala l'arco e lo posò nelle mani di Odisseo. Poi Eumeo chiamò fuori la nutrice Euriclea, le diceva: “Telemaco ti ordina, Euriclea, di chiudere a chiave la porta della stanza. E se qualcuna delle ancelle sente lamenti o rumori in casa, nel nostro recinto di uomini, non esca fuori, ma stia là dentro in silenzio al lavoro”.
Così disse: e a lei la parola restò senz'ali.

Ella chiuse la porta della stanza. In silenzio Filezio andò svelto fuori della sala e serrò il portone della corte. C'era là sotto il portico una fune da nave, fatta di papiro: e con questa appunto legò la porta e tornava dentro.
Andava a sedere, il bovaro, sullo scanno di dove s'era prima alzato, e guardava Odisseo. Questi già maneggiava il suo arco: lo girava e rigirava, lo provava di qua e di là nel timore che i tarli avessero roso il corno mentre era lontano.
 E qualcuno diceva volgendo lo sguardo al vicino: “Certo è un intenditore, lo si vede bene, un esperto di archi: o ne ha di uguali anche lui a casa, o pensa di farsene uno così. Guarda come se lo rigira fra le mani, di qua e di là, quel vagabondo! È capace di tutto”.
E un altro diceva, di quei giovani prepotenti: “Oh, gli auguro tanta fortuna a costui! Proprio come gli può riuscire di tendere qui l'arco”.

 Così dicevano i Proci. E Odisseo, dopo che ebbe tastato e riguardato il grande arco da ogni parte - come quando un uomo esperto di cetra e di canto facilmente tende la corda intorno alla chiavetta nuova, fermando da un lato e dall'altro il budello di pecora, ben ritorto - così appunto, Odisseo, tese senza fatica il grande arco.
Con la mano destra prendeva la corda: la tentò. Ed essa cantò bene, parve uno strido di rondine.
I Proci allora ebbero grande dolore e sbiancarono tutti in volto. E Zeus tuonò forte, mostrando un segno di augurio.
Gioiva in cuore l'eroe, il divino paziente Odisseo, che gli avesse mandato un prodigio, il figlio di Crono, del dio dai tortuosi pensieri.
Prese la freccia che gli stava vicino, nuda, sulla mensa: le altre erano dentro, nel cavo della faretra. E ben presto gli Achei le dovevano assaggiare!
La prendeva e posava sul gomito dell'arco: tirava la corda e la cocca di lì, dal suo scanno, stando seduto.


Lanciò la freccia mirando diritto. Di tutte le scuri, non sbagliò l'anello del manico: da parte a parte andò fuori la freccia di pesante bronzo.
Ed egli disse a Telemaco: “Telemaco, non ti reca vergogna questo straniero che siede nella tua casa. Non sbagliai la mira, né faticai a lungo a tendere l'arco. Ho ancora salda la mia forza. Non sono come i Proci insultandomi mi rimproverano. E ora è tempo che si prepari agli Achei una cena in piena luce, e che ci si diverta in altri modi con musica e cetra: esse sono ornamento del banchetto”.
Disse e con le ciglia fece un cenno. Ed egli cinse la spada acuta, Telemaco, il caro figlio del grande Odisseo, e impugnò la lancia. E accanto a lui si piantò presso a un alto seggio. Era armato di bronzo scintillante.
 Ed egli si spogliò dei cenci, Odisseo, e balzò sulla grande soglia tenendo in mano l'arco e la faretra piena di frecce: ne versò fuori i veloci dardi proprio lì, davanti ai piedi, e disse ai Proci: “Questa gara ben dura ormai è finita. Ora voglio vedere se raggiungo un altro bersaglio che mai nessun uomo colpì, e se Apollo mi concede questo vanto”.
Disse, e contro Antinoo drizzava la freccia aguzza.
Lui stava per alzare una bella coppa d'oro, a due anse, e già la teneva tra le mani. Voleva bere vino: non si dava certo pensiero della morte. E chi mai poteva immaginare tra i convitati che uno solo in mezzo a tanti, anche se era gagliardo, gli avrebbe procurato la mala morte e il nero destino?

E Odisseo lo prendeva di mira e lo colpì alla gola con la freccia: da parte a parte andò la punta attraverso il tenero collo.
Si piegò da un lato, il principe: la coppa gli cadde di mano appena fu colpito, e subito un grosso fiotto di sangue gli andò su per le narici. Prontamente spinse via da sé la mensa urtandola col piede e rovesciò le vivande a terra. Il pane e le carni arrostite s'imbrattavano.
Si misero a vociare i Proci per la sala quando videro cadere un uomo, e balzarono su dai loro seggi, eccitati, guardando intorno alle pareti, da ogni parte. Ma non c'era uno scudo in nessun posto né una robusta lancia a portata di mano.

E sgridavano Odisseo con parole di collera: “Forestiero, ti costerà caro, vedrai, colpire così con l'arco uomini. Mai più prenderai parte ad altre gare. Ora per te la morte è certa. Ecco, tu uccidesti poco fa un uomo che era il più nobile e valente tra i giovani d'Itaca. Perciò ti mangeranno qui gli avvoltoi. “
Così diceva ognuno di loro, poiché credevano che senza volere avesse ucciso un uomo. E non avvertirono, quegli stolti, che per loro tutti stavano annodati i lacci della morte.

Il passo dell’Odissea è tratto dalla versione in prosa di G. Tonna, pubblicata da Garzanti Editore nel 1968.


http://zenvadoligure.blogspot.it/

La crisi degli olivi in Boine e Biamonti

$
0
0

Francesco Biamonti e Giovanni Boine di fronte alla crisi della civiltà dell'olivo. Seconda e ultima parte del nostro intervento al Convegno di San Biagio della Cima.

La crisi degli olivi in Boine e Biamonti

La crisi della monocoltura dell'ulivo viene a maturazione alla fine dell'Ottocento quando la rendita si annulla e gli olivicoltori, soprattutto i più piccoli, lavorano ormai in passivo. Una crisi devastante se nel 1883 Agostino Bertani nella sua monografia sulla Liguria avvicina la situazione dei contadini della provincia di Porto Maurizio a quella poverissima dei contadini della Basilicata. Ne risulterà l'inizio di un forte flusso migratorio verso la Francia, in particolare il Dipartimento delle Alpi Marittime e alcune città portuali come Marsiglia e Tolone.15 Un passato ancora tanto vivo nel ricordo da diventare addirittura norma di vita per i personaggi di Biamonti:

«Mai parlar male della Francia: era uno dei suoi principi. Intere generazioni di Luvaira e di Aùrno erano andate a togliersi la fame, fame e tante altre cose, sul porto di Marsiglia. Scaricatori di bastimenti, camallavano nel mistral».16

É con questa realtà che si confronta Boine nel suo scritto del 1911. La “crisi degli olivi” è letta come la crisi di un’intera nazione, una crisi morale prima che materiale

«Gli oliveti di Puglia e di Calabria, gli oliveti di Grecia, di Turchia, di Africa, di Spagna, fan olio a cateratte. Olio denso, olio grasso, olio torbido, od olio aspro e verde. (…) I frantoi in vallata non lavorano più: son chiusi in gran parte, ma i magazzini dei negozianti al mare, le giarre, i pozzi, i truogoli dei negozianti al mare son pieni, son colmi (…). E carri e botti e grue e facchini rubesti, e i doks sul porto, ed in porto le navi ed al porto le calate di pietre squadrate son unte, odorano, fumano d’olio, grondano l’olio. E denaro e denaro (…) denaro a milioni».17


Nelle sue pagine il nuovo ordine del capitale e dei mercati si sovrappone al vecchio ordine austero dei contadini, curvi sulla terra a fare del lavoro una preghiera. Una mutazione violenta che lo coinvolge profondamente perchè rischia di mandare in frantumi quello che è diventato un punto di riferimento fondamentale e non solo a livello letterario:

« Le letture, i discorsi, i miei studi – scrive in una lettera a Alessandro Casati del 13 febbraio 1910 - li vedo ora in rapporto, solo in rapporto alle cose sode che faccio, a questo paese a cui voglio bene ed in cui resisterò fin che mi dura la vita».18

Non sappiamo quanto Boine sia davvero consapevole della portata gigantesca dei processi in atto (mondializzazione dell'economia, sviluppo del capitale finanziario, prevalenza dell'esportazione dei capitali rispetto all'esportazione delle merci) che oltre a travolgere in Italia il sistema di mediazioni politico-sociali del giolittismo, prepara in tutta Europa la catastrofe della prima guerra mondiale. La sua ci pare una reazione più emotiva che politica ad un fenomeno di cui fatica a cogliere cause e prospettive. Non sappiamo neppure se nel 1919-20 alla prova del fuoco per la democrazia liberale egli si sarebbe schierato, come il grosso dei Vociani, con il fascismo. La sua prematura scomparsa nel maggio 1917, proprio agli inizi del “secolo breve”, lascia queste domande senza risposta, anche se il tono quasi rabbioso e l'antisocialismo esasperato delle sue pagine suscitano non poche perplessità. Così come nel 1914 un interventismo che nella guerra vede l'antidoto salutare alla disgregazione morale e sociale dell'Italia giolittiana e la condizione fondamentale della rinascita del Paese. Una ultrareazionaria “Religione della Patria” teorizzata nei Discorsi militari del 1915 dove la condizione del cittadino si identifica con quella del soldato e l'accettazione volontaria della dura disciplina della trincea diventa la forma più alta di libertà possibile.19


Uomo di confine, Boine si colloca tra due epoche e scompare proprio nel momento in cui il vecchio mondo muore e uno nuovo sta, forse, faticosamente e tra travagli dolorosi per vedere la luce. Il suo è un confine temporale, aperto ancora alla speranza. Biamonti, che scrive quando il secolo breve è tramontato, che è stato testimone dell'orrore di Auschwitz e di Hiroshima, che ha visto bruciarsi la speranza dell'Ottobre, non ha più illusioni. Il paesaggio degli ulivi non può essere più come per Boine un qualcosa a cui aggrapparsi. La sua è una affermazione netta, di quelle che non lasciano margini di ripensamento:

Non credo che il paesaggio salvi, anche perchè se il tempo è malato anche lo spazio lo è. Tempo e spazio sono, oggi, entrambi malati. (…) Si lavora su un terreno che frana, su una luce che diventa ombra, su un azzurro che diventa nero. Non esiste più nessuna certezza.20

Il confine di Biamonti non è temporale, non separa più come in Boine un prima idealizzato da un dopo degradato, ma connota solo un presente lacerato da cui non si intravvedono uscite:

Vi sono due Ligurie – pensava – una costiera con traffici di droga, invasa e massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di Castiglia ancora austera; io sto sul confine”.21

Gli olivi, che con la loro onnipresenza hanno creato un paesaggio, sono ormai vecchi e malati, “rami malandati, erbaccio e su per i tronchi, nei loro squarci, licheni e ragnateli”.22un luogo di “pace precaria... assediato dai rovi”.23Una realtà che si può rappresentare solo al crepuscolo, perchè la “piena luce ne rende visibile l'aspetto malato”.24Solo nel ricordo gli olivi possono mantenere intatta quella luminosità interiore che un tempo li rendeva sacri agli occhi degli uomini:

Gli venivano in mente gli ulivi, dalle fronde quasi minerali e dai tronchi quasi umani. Risplendevano dentro, e sembravano parlare nella luce del mattino”,25 scrive Biamonti riecheggiando non sappiamo quanto consapevolmente un versetto bellissimo del Corano che vede nella luminosità dell'olivo il simbolo più puro della luce divina:

Dio è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale, né occidentale, il cui olio sembra illuminare, senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce”.26



In un mondo desacralizzato e privo di speranza gli oliveti da luoghi di luce si sono trasformati in luoghi d'ombra. Non a caso in Vento largo immediatamente dopo la descrizione dell'oliveto malato Biamonti nota come:

Se ne andavano anche i segni cristiani: madonnette sbreccate e rose, e croci, sui bricchi, inclinate dal vento”.27

Il messaggio è chiaro: oliveti e simboli cristiani hanno qualcosa in comune, entrambi rimandano ad una concezione tradizionale della vita fondata sul sacro che ormai non ha più senso alcuno. Nonostante il pessimismo di fondo, Biamonti riprende qui, pur rifiutandone il tono misticheggiante, la lezione di Boine: gli oliveti sono davvero la cattedrale dei liguri, il luogo del raccoglimento e della preghiera. Edoardo, il protagonista di Attesa sul mare, prima di imbarcarsi per una pericolosa navigazione sente il bisogno di tornare per un'ultima volta nei suoi oliveti ormai in abbandono:

Gli vennero in mente i suoi ulivi e si propose di andarli a vedere prima di ripartire. Avrebbe voluto avere con loro un dialogo, divenire davanti a loro un uomo di preghiera”.28

Un sogno impossibile, un desiderio immediatamente frustrato dalla realtà:

Fece un giro largo, ma al suo oliveto non riuscì ad arrivare, il sentiero era invaso dalle arastre. Lo guardò dal basso: era quasi un fantasma accampato nell'aria. Forse era meglio non avvicinarsi , non vedere il male che aveva addosso”.29

Francesco Biamonti non ha illusioni. Quella di Edoardo è la debolezza di un attimo. Non si può tornare indietro. Da sogni di pietra le fasce ulivate sono diventate fantasmi nell'aria. “Gli ulivi sono alla sera... la sera di un lungo giorno”,30 dice con amaro realismo il protagonista di Vento largo. Siamo nel 1991, due anni prima era crollato il muro di Berlino, meglio non si sarebbe potuto descrivere il tramonto definitivo di un secolo che aveva visto il mondo cambiare aspetto almeno due volte.



15. Augusta Molinari, Storia e storie di emigrazione dal Ponente ligure. Alcuni percorsi di ricerca, Recherches Régionales, 132, 1995 – 3ème trimestre, p.110.
16. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., pp. 88-89.
17. Giovanni Boine, La crisi degli olivi in Liguria, cit., p. 16.
18. Giovanni Boine, Carteggio, III, A cura di Margherita Marchione - S. Eugene Scalia, Edizioni di storia e Letteratura, Roma, 1977 , p. 359.
19. Per un'analisi esaustiva di questo aspetto del pensiero di Boine cfr. Ugo Perolino, «Esercito e nazione neiDiscorsi militaridi Giovanni Boine», Italies, 19|2015, pp. 57-66.
20. Paola Mallone, “Il paesaggio è una compensazione”, De Ferrari, Genova, 2001, p.51.
21. Francesco Biamonti, Le parole e la notte, Einaudi, Torino, 1998, p. 90.
22. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.9.
23. Ivi, p. 7.
24. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, cit., p.19.
25. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p. 21.
26. Èil versetto 35 della sura 24 del Corano, quella della “Luce”, ripreso e accostato a Biamonti da Costanza Ferrini. Costanza Ferrini, Pour une littérature de l'olivier, La pensèe de midi, 2003/2 (N°10), pp.136-140.
27. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.11.
28. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p.25.
29. Ivi, p. 55

30. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.69.
Viewing all 3486 articles
Browse latest View live