↧
Il viaggio sulla luna
↧
Trintignant, poesia, utopia (in un mondo senza speranza)
Ieri abbiamo visto Happy end di Michael Hanecke, grande metafora sulla decadenza irreversibile del mondo occidentale. Ci ha colpito particolarmente l'interpretazione di uno straordinario Jean-Louis Trintignant, a 86 anni capace di rendere alla perfezione il senso di lucida disperazione del film.
Angela Zamparelli
Trintignant, poesia, utopia
Siamo sulla terra per costruire qualcosa insieme diceva Trintignant qualche mese fa alla fine di un suo spettacolo. Le parole sono per lui il miglior materiale possibile per farlo. Ho preso molte volte l’aereo, il treno, il pullman per andarlo a vedere a teatro in questi anni, ma non ho mai fatto così tanta strada come quando siedo in platea a guardarlo, allora sì che viaggi sul serio.
Prende delle poesie e le mette in fila secondo un ordine che si rivelerà magico. Ci sono le parole di cantautori outsider (Allain Leprest), Senghor e Carver, il canadese Gaston Miron che ha speso la vita a combattere per la lingua francese e i diritti civili, Paul Cluzet, Prévert, Desnos, Gérard Macé, Laforgue, Apollinaire, Boris Vian.
Continuo a dire poesie, anche se la poesia è un’utopia, non può fare niente dice Trintignant. In questo nuovo spettacolo intitolato Trintignant Mille Piazzolla recita con un’orchestra. I due musicisti che lo accompagnavano fino a due anni fa, il violoncellista Gregoire Korniluk e il fisarmonicista Daniel Mille, non bastano più. Ha aggiunto altri due violoncelli e un contrabbasso.
L’orchestra – mi diceva – era la condizione principale perché il nuovo spettacolo andasse in scena. Lo recitava non più di sei o sette volte, da gennaio ai primi di marzo di quest’anno e concludeva la tournée a Parigi. Ci vuole poco per fare un re dice Trintignant nello spettacolo,un mantello ricamato e uno scacciamosche (Gérard Macé), si muove tra gioco e realtà, parla di sogni e sconfitte di uomini che hanno camminato, dormito, amato, suonato fino alla corda profonda dell’anima o che scelgono di dormire a ovest di mia moglie per sentire meglio il battito del cuore cosi l’amore passa dal cuore all’orecchio (Paul Cluzet), che è più o meno quello che un attore come lui fa da una vita, ma questa volta sembra spingersi ancora più lontano.
Delicato equilibrio
Se all’inizio, nella poesia di Allain Leprest dice j’ai fait un reve saugrenu e parla di un sogno bizzarro appena fatto, alla fine, dopo un’ora e mezza di spettacolo dichiara con le parole della Marche à l’amour di Gaston Miron che dedica per la prima volta a sua figlia Marie: J’affirme que tu existes.
Non si tratta più di un sogno allora, ma di realtà. Una realtà abbacinante e difficile perché è lui che la evoca scolpendola a colpi di battiti del cuore.Affermo che esisti. Lo sforzo produce un prodigio che lo lascia senza forza e lo inebria. E’ uno spettacolo che non può essere recitato molte volte diceva, ha un equilibrio delicato, più musicale che tematico. Ma promette di riprenderlo.
Così Trintignant a ottantasei anni ti conquista ancora, agli applausi si guarda in giro stupito, poi come se si rendesse conto che sono per lui sorride felice e poi torna a smarrirsi, allora ha solo fretta di farli cessare e dice ancora un bis. Il suo Georges Laurent, il capofamiglia, industriale di Calais che interpreta per Haneke in Happy End che arriva in questi giorni sugli schermi, non ha nulla di questo candore, è solo un vecchio stanco, impenetrabile, glaciale e disperato che con qualche scintilla di ironia amarissima accende lo schermo.
Onde
Non sono nient’altro che un bouchon ci aveva detto a Roma nel 2012 all’uscita di Amour, è il regista che fa tutto. L’attore deve semplicemente farsi guidare da lui, come un pezzo di sughero, trascinato dalla corrente. In Happy End Haneke lo prende alla lettera. Nella scena finale, sballottato dalle onde, Trintignant si inabissa nelle acque della Manica, seduto sulla sua sedia a rotelle, mentre la nipotina Fantine filma tutto e la figlia Huppert corre – forse – a salvarlo.
Forse è un finale lieto, forse no diceva a Cannes Trintignant rispondendo alla mia richiesta di raccontare la scena a Haneke non interessa svelarcelo. Lascia che ognuno interpreti come vuole, non lo sappiamo, ma qualunque cosa faccia, la fa bene. Poi Haneke aggiungeva: l’acqua era molto fredda, 16 gradi. Abbiamo girato la scena per tre giorni, la forza delle onde ci ha sorpreso, non ci aspettavamo che fossero cosi violente.
Così, il regista che prevede sempre tutto in modo maniacale, ammetteva candidamente di essersi lasciato sorprendere ma Trintignant è un uomo coraggioso e l’ha girata lo stesso. Una sequenza di inquadrature rapide che espone Trintignant a una delle scene più rischiose della sua carriera. Un frammento di verità assoluta.
Cosi va in scena l’ultimo atto della storia della famiglia Laurent che per tutto il film si è distinta in atti di ferocia quotidiana, drammi piccoli e grandi annegati nell’indifferenza verso ciò che accade a pochi passi da lei, nella giungla dei migranti, fino a un amaro e ironico Happy End che declassa lo sguardo gelido di Haneke nel tragicomico, perché dice Haneke noi occidentali non meritiamo nulla, le tragedie sono altrove, in altre parti del mondo.
Migranti
C’è un onda Trintignant, più forte di quella della Manica, inonda lo schermo. Arriva da Amour, è lo stesso personaggio, la stessa anima. Lo vedi in scene brevi, in brevi cenni, la fuga di notte appena accennata (si schianterà ma non vediamo niente) il ritorno a casa dopo l’incidente. Scene che possono aver richiesto giornate di riprese e di fatiche sono a volte solo ombre dietro una vetrata. Trintignant dice di Haneke è il maestro del nouveau roman, sa che deve fidarsi e non sempre capire.
Anni fa chiesi a Trintignant qual era il suo segreto, ma nel formulare la domanda mi ero tenuta bassa, gli chiedevo come era riuscito, con tanti registi diversi, ad arrivare a darequell’impressione di verità – e lui aveva risposto, semplice, deciso: “non è che do un impressione è che sono vero”. Gli attori sono poco più che una nota sullo spartito nelle mani di Haneke che dirige l’orchestra, ma sono anche lo strumento che può suonare fino alla nota più alta.
La scena del compleanno-concerto di Georges è emblematica. I migranti invece non hanno voce, quasi neanche volto. Sono ombre che abitano il film, non fanno parte della storia, ne sono fuori. Trintignant li ha voluti incontrare ma non era facile comunicare con loro ha detto perché molti non parlavano francese ma solo inglese, desiderano solo arrivare in Inghilterra. Forse dovremmo aiutarli a salire su una nave, sarebbe più utile ha suggerito a Haneke. Ma Haneke pensa sia più utile girare il film, ed è a Trintignant che fa prendere il largo, tra onde dalla forza imprevedibile. Perché è lì che sta il cinema – quello vero quello che Haneke pensa possa ancora salvarci – nel farci provare vere emozioni, fosse anche solo vergogna, sarebbe Happy End.
Il Manifesto/Alias – 2 dicembre 2017
↧
↧
Viaggio attorno a Caravaggio
↧
I segreti dell'alambicco
Storia dello strumento del gabinetto chimico alchemico più conosciuto e affascinante . Raffaele Salinari, che ha appena pubblicato su questi temi un libro molto interessante “Alias:Aleph”, continua il suo affascinante viaggio alla riscoperta della Tradizione.
Raffaele K. Salinari
I segreti dell’alambicco
L’espressione «lambiccarsi il cervello» rimanda immediatamente a pensieri complicati ed astrusi, forse insensati, ma che alla fine, generalmente, portano ad elaborare quella forma di pensiero che lo psicologo maltese Edward de Bono, nei lontani anni Settanta del secolo scorso, definiva «laterale». De Bono pensava che il campo cognitivo fosse come una sorta di gelatina e che una certa maniera, che lui definiva «verticale», di affrontare un problema, fosse come una goccia di brodo caldo che ci cadeva sopra tracciando un solco. Ogni volta che un problema si ripresentava la soluzione non poteva che generare un’altra goccia di brodo caldo che sarebbe caduta immancabilmente nel solco precedente, approfondendolo ancor più, e così generando percorsi stereotipati.
Il «pensiero laterale», titolo di un suo libro famoso tra la Beat generation per la sua componente psichedelica, suggeriva invece che si dovessero fare, appunto, dei passi laterali per risolvere certi problemi apparentemente insolubili, non utilizzando le solite strade oramai tracciate dall’esperienza passata – i solchi nella gelatina del pensiero – ma «lambiccandosi il cervello» per trarne nuove essenze immaginali.
Un esempio famoso è quello dell’elettricista e dei tre interruttori. In una stanza chiusa è contenuta una lampadina ad incandescenza, nella seconda stanza ci sono tre interruttori. Solo uno di questi accende la lampadina e l’elettricista può controllare solo una volta. Stando queste condizioni come si può determinare l’interruttore giusto? Le condizioni iniziali sono due: la lampadina è spenta e gli interruttori in posizione off.
L’approccio diretto al problema si rivela impossibile da un punto di vista puramente «verticale»: una lampadina può essere solamente accesa o spenta, ma gli interruttori sono tre, dunque che si fa? L’unico modo per risolverlo è percorrere una condizione parallela, «laterale» (il fatto che una lampadina accesa si scaldi) che permette di aggiungere un terzo stato. E allora si mettono due interruttori (chiamiamoli 1 e 2) su ON, si attende qualche minuto e se ne spegne uno (diciamo il numero 1). Si va quindi a controllare la lampadina: se la lampadina è accesa l’interruttore giusto è il numero 2, se è spenta ma calda è l’1, e se è spenta e fredda è il numero 3.
Oggi le neuroscienze, ed anche la neuro-paleontologia, ci dicono che forse l’Homo Sapiens ha vinto la gara per la specie dominante su altre popolazioni di ominidi, tra cui il Neanderthal, perché era in grado di formalizzare in qualche modo il pensiero astratto di ordine superiore, simbolico, e dunque di pensare in modo «laterale», creativo, rispetto alle altre specie.
Il pensiero creativo è allora quello che viene prodotto dal «lambiccamento» del cervello, che distilla, per così dire, un percorso nuovo, a volte in grado di fornirci soluzioni originali ed utili. E dunque questo «lambiccarsi» ed i suoi eventuali prodotti, i suoi distillati immaginali, fantastici, simbolici, ben si confanno all’etimologia del verbo che, ovviamente, deriva del noto strumento alchemico-chimico: l’alambicco.
L’Alambicco
L’alambicco è certamente lo strumento del gabinetto chimico-alchemico più conosciuto ed affascinante. La sua stessa forma, come vedremo, riassume il principio sul quale si basa la Grande Opera, quel «solve et coagula» che ne rappresenta il procedimento cardine. Ma cominciamo con l’etimologia di «alambicco», che deriva probabilmente dal vocabolo ambix, una delle parole che i Greci utilizzavano per designare i vasi a matraccio o pallone. Gli Arabi l’hanno fatta precedere dal loro articolo al, ed ecco nata la parola che tutti conosciamo. Infatti, in origine ed ancora oggi, l’alambicco è sostanzialmente un vaso che viene chiuso da un coperchio con la caratteristica di non far entrare nulla, ma di poter far uscire solo ciò che si produce all’interno; in una parola: ermetico.
La parte che chiude il vaso, che lo sigilla, termina a sua volta con una protuberanza e poi con un oggetto per la condensazione. Ora, se analizziamo bene queste parti e le loro rispettive funzioni, ritroviamo nella semplicità allusiva dei loro nomi molta della simbologia alchemico-spagirica di base.
La prima osservazione, come dicevamo, è che l’alambicco si presenta come uno strumento ermetico. L’aggettivo designa appunto questa capacità di non far entrare nulla all’interno e, più estensivamente, di preservare un contenuto. La parola deriva notoriamente dal dio Ermes-Mercurio, la divinità del transito, della trasformazione, degli scambi, ma anche del segreto iniziatico, dei Misteri. Il caduceo di Ermes raffigura i due serpenti, simbolo degli opposti polari che risalgono l’Asse del mondo, bevendo, o riversando, poi nella coppa i loro principi opposti affinché possano ricongiungersi.
Ermes greco è il Thot egizio, la divinità che presiede esplicitamente alle trasmutazioni alchemiche. Nel Medio Evo, verso l’anno mille, riemerse, per così dire, in Europa il famoso Corpus Ermeticum, attribuito al mitico Ermete Trismegisto, cioè il «tre volte grande», autore della famosa Tavola smeraldina: «Cioè che è in alto è come ciò che è in basso per il potere di una cosa sola», summa alchemica in grado di tramandare la saggezza trasmutatoria nel tempo a chi fosse stato capace di comprenderla e di farne saggiamente buon uso. L’Ars Magna è dunque legata al dio Ermes dai tempi dell’antico Egitto, la «terra nera» irrorata dal limo del Nilo, al kema in arabo, da cui deriverebbe il termine «alchimia».
Non è questo il luogo per entrare nelle procedure alchemiche; qui ci basti riprendere l’assunto che l’alambicco è ermetico proprio perché risponde, sia a livello funzionale, sia a livello simbolico – aspetti che nella Grande Opera sono uno specchio dell’altro – all’operazione principale, cioè quella della dissoluzione prima e della ricomposizione dopo, della materia operata. E per fare questo servono appunto le sue tre parti, immutate nei secoli: il vaso per il riscaldamento, il suo coperchio per l’evaporazione e l’apparato di condensazione. Ecco allora che si chiarisce la corrispondenza tra simbologia e operatività alchemico-spagirica.
Per quanto concerne il vaso, la «cucurbita», o «caldaia», essa deve non solo contenere la materia da operare, ma anche proteggerla mentre il calore la dissolve (solve). La parte contenitiva viene detta «cucurbita» dato che ricorda una zucca: è l’analogo della zucca che i pellegrini sulla via di Santiago di Compostela, spesso alchimisti essi stessi, utilizzavano per l’acqua, la Prima Materia senza la quale il viaggio non era possibile.
Si passa poi all’«elmo» o «capitello» o «duomo»: «Se la porta stretta vuoi passare sempre l’elmo devi portare». Così recita una filastrocca ermetica, in cui la «porta stretta» è l’ingresso per la via operativa, mentre l’«elmo» è appunto la parte che chiude ermeticamente il vaso dell’alambicco, consentendo al tempo stesso l’apertura della porta simbolica.
Una discorso a parte meriterebbero le varie tecniche che, nei secoli, hanno consentito di unire questi due pezzi ermeticamente. Solo per citare l’antica Roma, era noto il Lutum, una specie di mastice per sigillare fatto a base di farina e bianco d’uovo spalmati su pezzi di carta o stoffa che venivano poi applicati alla giuntura tra «cucurbita» ed «elmo».
Si arriva così al «becco di pellicano», come viene chiamato il raccordo tra «elmo» e apparato condensante. Dice la leggenda che il pellicano è in grado, col potente becco, di squarciarsi il petto e farne uscire il sangue per donarlo ai suoi figli, in caso ne avessero bisogno per nutrirsi. Ecco allora spiegata l’analogia tra il pellicano ed il Cristo, il «nostro pellicano», che nella simbologia dell’alchimia di ascendenza cristiana, ma non solo, rappresenta il sacrificio della Prima Materia verso la sua stessa purificazione: l’opera al nero.
Per finire la «serpentina», il cui scopo è quello di raffreddare il liquido ottenuto e di farlo così precipitare (coagula). Anche qui il simbolismo relativo al serpente, animale altamente ambivalente, buono e cattivo, saggio e folle, terrestre e celestiale, e via enumerando, che abbiamo già trovato tra gli attributi di Ermes, ben si confà a questa parte fondamentale dell’alambicco. È allora evidente che il serpente rappresenta un principio di trasmutazione, con la sua muta di pelle, e dunque l’essenza stessa dell’Opera che, prima ancora di consistere in una serie di operazioni materiali su un elemento, delinea idealmente una scala con i gradini per la trasformazione spirituale dell’operatore, il suo stesso «mutare la pelle». Come ci ricorda Fulcanelli nel suo Il Mistero delle Cattedrali, questa scala è effigiata insieme alla figura della Filosofia, alla base del pilastro centrale, quello detto del Giudizio Universale, di Nostra Signora di Parigi.
Alambicco e distillazione
L’Alambicco è legato, abbiamo detto, al fondamentale processo della distillazione, dal latino stilla, cioè goccia. In Occidente già Aristotele sosteneva che era possibile potabilizzare l’acqua facendola bollire e poi raccogliendone i vapori in via di raffreddamento. Questo ci porta all’evidenza che il processo fu innescato probabilmente… dalla scoperta del fuoco! e che dunque civilizzazioni antiche (Sumeri, Ittiti, Assiri, Inca, Maya etc.), o addirittura preistoriche, possano aver sperimentato qualcosa di simile. Certamente una primitiva distillazione di cereali, specialmente il riso, era presente in Cina e in India, mentre nell’antico Egitto compaiono geroglifici su papiri e dipinti musivi che rappresentano alambicchi rudimentali; ad Alessandria esistevano già vasi per la distillazione delle erbe e delle piante. La ricetta dell’olio di rose che poi divenne nel Medio Evo il famoso olio di Costantino Porfirogeneta, viene da qui, come un famoso procedimento, ancora oggi usato, il cosiddetto «bagno-maria», probabilmente una scoperta di Ippazia.
Ciò significa semplicemente che, come tutti gli apparati per le operazioni fondamentali, l’alambicco non è stato inventato in nessun luogo ed in nessun tempo particolare, ma ne troviamo esempi basati sullo stesso principio di evaporazione-condensazione in tutte le parti del mondo ed in diversi periodi, anche arcaici. Queste evidenze smentiscono ulteriormente, se ce ne fosse ancora bisogno, la visione eurocentrica che vuole certi procedimenti appannaggio specifico della cultura europea, al massimo con il contributo residuale di quella araba.
Per quanto concerne l’Europa, dunque, sembra che la storia dell’alambicco cominci in un’area corrispondente nell’odierna Slovacchia sud-occidentale. Qui, nel sito archeologico di Abrahám, sono stati rinvenuti i resti del più antico alambicco. Si tratta di uno strumento costruito nientemeno che nel 4000 a. C. composto da tre pezzi distinti assemblati poi in un unico corpo. Il liquido veniva riscaldato nel recipiente basso, vaporizzava e condensava sulle pareti di un coperchio convesso che convogliava a sua volta il distillato in un collettore anulare; una tecnologia definita «estrazione ad anello di recupero». Alambicchi simili ci sono pervenuti dall’alta valle del fiume Tigri, a Tepe Gawra, vicino a Mosul, dove sono stati rinvenuti frammenti di apparecchi in ceramica risalenti al 3500 a. C..
Recentemente l’archeologo John Bartholomew (2015) ha ricostruito un apparecchio sul disegno di quello slovacco ottenendo un buon distillato alcolico. Lo stesso studioso ha ipotizzato come una curiosa ceramica ritrovata nell’antica capitale degli Hittiti – Hattusa – e datata agli inizi del II millennio a.C. in forma di teiera ma con una particolare struttura interna a doppia parete, potrebbe avere svolto la stessa funzione di alambicco, basato sullo stesso principio di evaporazione e condensazione.
Infine, ceramiche simili sono venute alla luce anche in Sardegna, negli scavi della cultura nuragica del II millennio a.C.. Anche qui sono presenti manufatti come quelli trovati in Mesopotamia, cioè ad anello di recupero. I siti sono il Nuraghe Nastasi (Tertenia, Nuoro, XIV-XIII secolo a.C.), e la cosiddetta «capanna delle riunioni» del villaggio nuragico La Prisgiona presso Arzachena.
Una innovazione tecnologica rispetto a questi modelli arcaici la si deve alla civiltà di Pyrgos, nell’isola di Cipro. Scavi recenti hanno riportato alla luce strumenti in cui un «elmo» vero e proprio era appoggiata sopra la «cucurbita» di ceramica, mentre il «becco di pellicano» traportava i vapori in una camera di condensazione immersa in acqua, come nei moderni alambicchi è raffreddata la «serpentina». Dato che vicino sono stati rinvenuti semi d’uva e una giara per vino, l’ipotesi è che il sito fosse attrezzato per compiere una distillazione alcolica a partire da liquidi fermentati.
Passando in Oriente, una tecnica simile a quella cipriota caratterizza i ritrovamenti di Shaikhān Dheri, nella valle di Peshawar, in Pakistan. Reperti del I secolo a. C. mostrano un oggetto del tutto simile agli odierni alambicchi, con camere di condensazione unite ad un distillatore a due corpi. Un importante particolare consiste nel ritrovamento, nel medesimo sito, di numerosi bacini in terracotta dentro ai quali, riempiti d’acqua fredda, veniva poi immerso il recipiente condensatore.
Questa sarebbe la più antica evidenza della pratica di raffreddamento del condensatore a posteriori per aumentare il rendimento del prodotto finito, il distillato, in contrasto con l’affermazione della studiosa cinese Lu-Gwei-Djen, secondo la quale: «Nessun distillatore ebbe un sistema di raffreddamento prima del 1000 d.C.».
Arrivando alle Americhe, troviamo un apparato per distillazione in uso presso gli antichi Peruviani in epoca precolombiana. Un contenitore di ceramica veniva posto a ebollizione, sulla sommità veniva messo un coperchio concavo sulla cui superficie inferiore si formava la condensa, mentre un collettore in forma di cucchiaio dotato di un lungo manico concavo sotto alla sua parte inferiore trasportava il distillato verso un contenitore esterno. Un apparato identico fu commercializzato in Inghilterra nel XIX secolo spacciandolo come una nuova invenzione inglese!
Anche la cultura Capacha del Messico occidentale, nell’odierno stato di Colima, e datata al Formativo Arcaico (1500-1000 a.C.), potrebbe aver sviluppato una particolare tecnica di distillazione: qui veniva impiegato come contenitore principale una sorta di vassoio di ceramica a doppia convessità, cioè con una costrizione centrale che ricorda la forma di una zucca di Lagenaria siceraria.
Per la condensazione e la raccolta del vapore venivano impiegati altri due tipi di contenitore, sempre in ceramica, che sono stati ritrovati negli stessi siti archeologici, e che si adattano alla forma del corpo principale. Il vaso che fungeva da condensatore veniva appoggiato ermeticamente al collo del primo contenitore; al condensatore sarebbe stato poi applicato, mediante un legaccio, un ulteriore piccolo contenitore di raccolta che pendeva internamente al contenitore principale. Sperimentazioni eseguite con modelli ricostruiti ne hanno dimostrato l’efficienza ai fini della distillazione di bevande alcoliche.
Nel corso dei secoli, l’alambicco si è poi ulteriormente evoluto sino a diventare l’apparecchio odierno che conosciamo, a volte altamente sofisticato, come quelli usati nell’industria della fermentazione dei liquori di lusso, ma il suo «corpo spirituale» è sempre il medesimo, perché le regole dello Spirito, sia esso quello che tutto permea, sia quello che sotto forma di «acqua della vita» si beve, sono sempre le stesse.
Il Manifesto/Alias – 2 dicembre 2017
↧
I Corsi al voto. Dopo Barcellona Ajaccio?
Si vota in Corsica. Sette liste in gara. I nazionalisti puntano, per ora, a un'autonomia ampliata, non all'indipendenza.
Anna Maria Merlo
Corsica al voto, i nazionalisti spaventano Parigi
La Corsica non è la Catalogna, cercano di rassicurarsi a Parigi. Ma le elezioni, oggi il primo turno, domenica 10 il secondo, nella regione più decentralizzata del paese più centralizzato d’Europa destano inquietudine. Oggi, 140mila corsi vanno alle urne per scegliere tra 7 liste la composizione dei 63 seggi della nuova Assemblea territoriale, una riforma che darà nascita alla prima regione metropolitana francese, fusione dei due dipartimenti e della Regione in un unico ente, situazione unica in Francia. Queste elezioni arrivano solo due anni dopo le regionali, che avevano segnato la vittoria dei nazionalisti e pochi mesi dopo le legislative, che per la prima volta hanno portato all’Assemblée nationale tre deputati nazionalisti.
I nazionalisti sono dati vincenti da tutti i sondaggi. Presentano due liste, una molto minoritaria e più estremista (Core in fronte) e l’altra nata dall’accordo tra le due grandi correnti e le due personalità della vita politica dell’isola: Pé a Corsica, dove sono presenti (l’unione aveva già avuto luogo alle regionali del 2015), l’autonomista Gilles Simeoni, attuale presidente dell’esecutivo corso (il “governo” locale) e l’indipendentista Jean-Guy Talamoni, attuale presidente dell’Assemblea territoriale, soprannominato “il Puigdemont corso”.
Entrambi sono avvocati. Gilles Simeoni, che nel 2014 è stato il primo leader nazionalista a conquistare una grande città (Bastia), figlio di Edmond Simeoni, il fondatore del nazionalismo corso, è stato il difensore di Yvan Colonna, condannato all’ergastolo per l’assassinio del prefetto Erignac. Jean-Guy Talamoni ha avuto la sua prima formazione politica a A cuncolta, poi Corsica Nazione, i più decisi indipendentisti. All’Assemblée corsa ha fatto sostituire il busto della Marianna con quello di Maria Gentile, l’”Antigone corsa” che nel 1769 aveva sfidato le autorità francesi e seppellito il fidanzato impiccato con l’accusa di aver partecipato a un complotto contro i soldati francesi che stavano conquistando l’isola.
I nazionalisti, per il momento, non parlano di indipendenza. Puntano a un ampio Statuto di autonomia della Corsica, che vada oltre i già ampi poteri (rispetto alle altre regioni francesi) che avrà il nuovo ente territoriale, che dovrà gestire un budget di un miliardo di euro (e 600mila euro di debiti): comprende sviluppo economico, ambiente, cultura, sport, edilizia, infrastrutture, trasporti e scuola secondaria. L’accordo politico tra le due formazioni nazionaliste prevede, entro tre anni, la completa autonomia con potere legislativo, amministrativo e regolamentare. L’insegnamento in corso è già una realtà, ma i nazionalisti vogliono ufficializzare la “co-ufficialità” di francese e corso, oltre a volere l’amnistia per i “prigionieri politici” e per i ricercati (il Flnc ha deposto le armi nel 2014).
Per Talamoni il nuovo ente territoriale è una “tappa” verso l’indipendenza. I rapporti con i catalani sono molto stretti, in particolare con Carles Puigdemont, che è invitato alle Giornate internazionali di Corte, che si svolgono ogni anno ad agosto. “I catalani sono molto pacifici – ha commentato Talamoni dopo la repressione del 1° ottobre a Barcellona – sono rimasti con le braccia alzate, non sono sicuro che qui avremmo fatto lo stesso”.
A contrastare i nazionalisti al secondo turno potrebbe formarsi un “fronte repubblicano”. Ci sono due liste di destra (ma nessuna diretta espressione dei Républicains), una République en Marche: a questa possibile unione al ballottaggio, potrebbe unirsi chi è rimasto fedele a Paul Giocobbi, per decenni punto di riferimento della sinistra corsa, ma ormai fuori gioco dopo la condanna a 5 anni di ineligibilità per truffa ai fondi pubblici. Il Fronte nazionale è presente. La sinistra della sinistra ha una lista composta dal Pcf e da una parte di France Insoumise (Mélenchon ha espresso ostilità per questo accordo).
La campagna è stata in realtà poco seguita sul continente. In Corsica, sono stati elusi i principali problemi. Nell’isola la povertà è aumentata, il 20% degli abitanti vive sotto la soglia della povertà, il precariato si diffonde, mentre dalla Francia metropolitana arrivano residenti, abbienti, con la speculazione immobiliare che esplode (la popolazione è cresciuta del 17% tra il 2008 e il 2013, per i nazionalisti è la prova di “colonizzazione attraverso il popolamento” che porta la minaccia di una “scomparsa programmata del popolo corso”, che al contrario diminuisce).
Mentre i corsi votano, il primo ministro, Edouard Philippe, è in Nuova Caledonia. Qui, alla conclusione di un processo di autonomia iniziato 30 anni fa con il governo Rocard dopo il massacro di Ouvéa (19 indipendentisti uccisi), entro la fine del 2018 ci sarà un referendum per l’indipendenza.
Il Manifesto – 3 dicembre 2017
↧
↧
Il nuovo male dell’Italia si chiama rancore
Cresce il disagio sociale (lavoro sottopagato e precario, disoccupazione giovanile). La politica istituzionale è lontana dalla gente. La sinistra, quasi inesistente, non sa dare risposte. Cresce la rabbia che diventa rancore, mentre avanzano populismo e sovranismo e si riaffaccia sulla scena l'estrema destra neofascista.
Paolo Baroni
Il Censis: il nuovo male dell’Italia si chiama rancore
Incavolati neri e offesi, mortificati, incapaci di esprimere apertamente la propria rabbia ma anche di dimenticare e di perdonare, in una parola rancorosi. Così il Censis dipinge gli italiani, non tutti ma certamente una bella fetta. L’Italia è uscita dal tunnel, l’economia ha ripreso a crescere bene, trainata dall’industria manifatturiera, dall’export e dal turismo che hanno messo a segno risultati da record, ma questo non impedisce che in parallelo dilaghi il rancore. Che assieme alla nostalgia finisce tra l’altro per condizionare la domanda politica di chi è rimasto indietro ingrossando le fila di sovranisti e populisti. Il fenomeno non è certo nuovo, ma ora investe anche il ceto medio e si fa molto più preoccupante, perché in parallelo «l’immaginario collettivo ha perso la sua forza propulsiva di una volta e non c’è più un’agenda condivisa».
La ripresa non basta
Nella ripresa, mette in chiaro il Censis nel suo 51esimo rapporto sulla situazione sociale del Paese, persistono infatti «trascinamenti inerziali» da maneggiare con cura: il rimpicciolimento demografico della nazione, la povertà del capitale umano immigrato, la polarizzazione dell’occupazione che penalizza l’ex ceto medio. In particolare non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e per questo il blocco della mobilità sociale finisce per creare rancore. Un fenomeno questo, è scritto nel Rapporto, che nella nostra società «è di scena da tempo, con esibizioni di volta in volta indirizzate verso l’alto, attraverso i veementi toni dell’antipolitica, o verso il basso, a caccia di indifesi e marginali capri espiatori, dagli homeless ai rifugiati. È un sentimento che nasce da una condizione strutturale di blocco della mobilità sociale, che nella crisi ha coinvolto pesantemente anche il ceto medio, oltre ai gruppi collocati nella parte più bassa della piramide sociale». E ancora: «se la crisi ha avuto effetti psicologici regressivi con la logica del “meno hai, più sei colpito”, la ripresa finora non è ancora riuscita a invertire in modo tangibile e inequivocabile la rotta . La distribuzione dei suoi dividendi sociali appare finora adeguata a riaprire l’unica via che potrebbe allentare tutte le tensioni: la mobilità sociale verso l’alto».
Ceto medio in crisi
L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa infatti che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. La paura del declassamento è insomma il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l’87,3% di loro pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile il capitombolo in basso. Di conseguenza, spiegano al Censis, si rimarcano sempre più le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica, il 48,1% una più anziana di vent’anni, il 42,4% una dello stesso sesso, il 41,4% un immigrato, il 27,2% un asiatico, il 26,8% una persona che ha già figli, il 26% una con un livello di istruzione inferiore, il 25,6% una di origine africana, il 14,1% una con una condizione economica più bassa. E l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai.
Addio vecchi miti
Altro dato, l’immaginario collettivo, ovvero quell’insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuali e i percorsi esistenziali di ciascuno, quindi di definire un’agenda sociale condivisa. Anche su questo fronte si è persa gran parte della forza propulsiva. «Nell’Italia del miracolo economico il ciclo espansivo era accompagnato da miti positivi che fungevano da motore alla crescita economica e identitaria della nazione» è scritto ancora nel rapporto Censis. Adesso, invece, «nelle fasce d’età più giovani (gli under 30) i vecchi miti appaiono consumati e stinti, soppiantati dalle nuove icone della contemporaneità». Nella mappa del nuovo immaginario i social network si posizionano al primo posto (32,7%), poi resiste il mito del «posto fisso» (29,9%), però seguito a breve dallo smartphone (26,9%), dalla cura del corpo (i tatuaggi e la chirurgia estetica: 23,1%) e dal selfie (21,6%), prima della casa di proprietà (17,9%), del buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (14,9%) e dell’automobile nuova come oggetto del desiderio (7,4%). Nella composizione del nuovo immaginario collettivo il cinema è meno influente di un tempo (appena il 2,1% delle indicazioni) rispetto al ruolo egemonico conquistato dai social network (27,1%) e più in generale da internet (26,6%).
Lavoro polarizzato
Nel campo del lavoro la polarizzazione dell’occupazione penalizza operai, artigiani e impiegati. Chi ha vinto in questi anni nella ripresa dell’occupazione si trova in cima e nel fondo della piramide professionale. Nel periodo 2011-2016 operai e artigiani diminuiscono dell’11%, gli impiegati del 3,9%. Le professioni intellettuali invece crescono dell’11,4% e, all’opposto, aumentano gli addetti alle vendite e ai servizi personali (+10,2%) e il personale non qualificato (+11,9%). Nell’ultimo anno l’incremento di occupazione più rilevante - segnala il Rapporto - riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci (+11,4%) nella delivery economy. Nella ricomposizione della piramide professionale aumentano dunque le distanze tra l’area non qualificata e il vertice. E se tra il 2006 e il 2016 il numero complessivo dei liberi professionisti è aumentato del 26,2%, quelli con meno di 40 anni sono diminuiti del 4,4% (circa 20.000 in meno). La quota di giovani professionisti sul totale è scesa al 31,3%: 10 punti in meno in dieci anni.
La domanda politica
Risentimento e nostalgia si riflettono pesantemente anche sulla domanda politica. E l’onda di sfiducia non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. «Non sorprende – segnala ancora il Censis - che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo. L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica».
La stampa – 1 dicembre 2017
↧
Un ribelle concreto. Ricordo di Arrigo Cervetto.
Ristampato il libro di memorie di Giovanni Burzio che ricostruisce la realtà savonese dal dopoguerra agli anni '60. In appendice anche un nostro ricordo di un personaggio già allora centrale nella vita culturale e politica della città.
Giorgio Amico
Un ribelle concreto
Cresciuto nell'Italia fascista, giovanissimo partigiano, nei primi mesi del dopoguerra funzionario del PCI, “uomo in rivolta” secondo la felice espressione di Camus, militante anarchico alla scuola di Marzocchi (altra grande figura di quegli anni), fondatore poi con Pier Carlo Masini dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) che mescolavano pensiero libertario e marxismo, il giovane Arrigo Cervetto incarna quanto di più vivo abbia espresso una Savona operaia in cui si intravvedevano già i segni di una crisi che avrebbe nello spazio di due decenni portato alla pressochè totale deindustrializzazione e alla città amorfa di oggi, del tutto priva di un'identità o, forse meglio, di un'anima.
Operaio metallurgico, licenziato dall'ILVA, in giro per l'Italia nel duplice ruolo di rappresentante della Casa Editrice Einaudi e di militante libertario incaricato di reggere le fila piuttosto fragili dei GAAP, Cervetto intrattiene con la sua città un rapporto intensissimo di amore-odio.
«Passavo mesi tra una città e l'altra. Mi fermavo solo quando l'organizzazione non aveva più soldi per sostenere le spese di viaggio. Ritornavo, allora, a Savona maledicendo tutto. Ingenerosamente me la prendevo anche con una città che non ha mai ostentato bellezze che non ha ma che può essere orgogliosa del suo vento che pulisce le colline e il mare e rende gli uomini concreti, fattivamente e meschinamente concreti».
É un passo dei Quaderni in cui Cervetto ricostruisce il suo percorso di formazione politica negli anni Cinquanta, offrendo di sè un'immagine sorprendentemente calda e ricca di umanità, assai lontana dalla figura asettica di teorico marxista e di costruttore del “Partito” che si è venuta affermando sempre più dopo la sua morte in Italia e non solo.
Insomma, l'immagine di un giovane che sta cercando con passione di trovare la sua strada, che crede fermamente di aver qualcosa di importante da dire, che, come annota in un altro passaggio, «serve a qualcosa, che ha da parlare non più ai portici di Savona».
Certo, nella Savona di quegli anni, dove l'egemonia politica e culturale di un PCI ancora largamente stalinista si faceva sentire spesso anche con modalità non prive di una certa rudezza proletaria, il ruolo di oppositore non era facile e concreto era il rischio di svolgere una funzione di pura testimonianza, insomma davvero di predicare nel deserto.
Eppure quegli anni restano tra i più ricchi e intereressanti dell'intero excursus teorico cervettiano. Nel periodo 1952-1960 appaiono una serie di lavori che Cervetto compie per conto del neonato Istituto Storico Feltrinelli dedicati a ricostruire la storia del movimento operaio savonese. Studi pubblicati poi da quelle che sono le più prestigiose riviste della sinistra di allora (Rivista Storica del Socialismo, Movimento Operaio e Contadino in Liguria, Movimento Operaio).
In questi scritti Cervetto si applica a ricostruire la storia della sua città, rompendo drasticamente con una storiografia locale ossificata per la quale la storia di Savona finisce con il periodo aureo del prefetto Chabrol. Nelle ricerche del trentenne Cervetto, invece, vere protagoniste della vita cittadina diventano le classi subalterne, quelle masse senza storia a cui egli con rigore cerca di ridare un volto e un'identità: i contadini inurbati venuti dall'entroterra e dal basso Piemonte a lavorare nelle fabbriche, i camalli del porto, gli artigiani eredi di una storia secolare di libere corporazioni e ora costruttori di un mutalismo di tipo nuovo che si rifà a Mazzini e Bakunin.
“Antagonista” nel senso più elevato del termine, il giovane Cervetto sa descrivere in pagine di grande efficacia anche narrativa la quotidiana fatica del vivere di quegli uomini e quelle donne, la loro fame di dignità e libertà, consapevole, da operaio figlio di operai, che la lotta proletaria è stata fin dai suoi esordi lotta per il pane, ma anche (e forse soprattutto) per le rose.
Mirco Bottero
Un impegno di ricerca e di studio che diventa poi confronto di idee negli affollati e partecipati incontri del Circolo Calamandrei, vero cuore culturale di una Savona aperta al mondo, ma anche per certi aspetti laboratorio politico cittadino, animato da un personaggio, Mirco Bottero, che a Savona ha dato tanto e che oggi è purtroppo colpevolmente dimenticato anche da chi a quella storia afferma di rifarsi.
In quegli incontri, che nel ricordo di chi scrive hanno l'odore un po' malinconico delle innumerevoli sigarette fumate, Cervetto riporta i risultati delle sue ricerche, ma anche la sua impostazione politica che con gli anni sta evolvendo dall'originario anarchismo ad un marxismo prima con forti connotazioni gramsciane e luxemburghiane, poi sempre più rigidamente leninista. In quei dibattiti, che spesso diventano scontro anche aspro, Cervetto non cerca un consenso facile a scapito della coerenza, ma espone le sue idee senza mai scadere nella polemica fine a se stessa o nella diatriba personale.
Una lezione di stile, quasi impensabile oggi, tempo di una politica spettacolo tanto più urlata quanto più povera di contenuti e di riferimenti ideali. Cervetto, dunque, come occasione di primo incontro con la politica e il marxismo per molti giovani savonesi che in quegli anni si formarono e ciò indipendentemente da successivi percorsi personali che avrebbero poi portato ad approdi molto diversi fra loro, spesso anche molto lontani da un impegno politico rivoluzionario o anche solo di sinistra.
1. Arrigo Cervetto, Quaderni 1981-1982. Ripreso in Guido La Barbera, Lotta comunista. Verso il partito strategia 1953-1965, Edizioni Lotta comunista, Milano 2015, p.51.
2. Ivi, p. 64.
(Da: Giovanni Burzio-Bruno Marengo, Prima di voi, Savona, 2017)
↧
Esoterismo e Arte. Il simbolismo mistico della Rosa + Croce
Séon, Le SAR Peladan
Rose + Croix, un capitolo del simbolismo fin-de-siècle di scena alla Collezione Guggenheim di Venezia. Fra il 1892 e il 1897 si sviluppa a Parigi, intorno al mistico eccentrico Joséphin Péladan, l’arte rosacrociana, reazionaria e «avanguardista»
Davide Racca
Rose + Croix, geste esthétique accarezzando l’Idea
Il 10 marzo del 1892, presso la galleria Durand-Ruel di Parigi, si svolge il primo Salon dell’Ordre de la Rose + Croix du Temple. È il primo geste esthétique pensato e diretto dal mistico eccentrico Joséphin Péladan, la cui eco giunge, a più di dieci anni di distanza, persino nelle cronache mondane della Recherce proustiana. La stampa coeva si mobilita pro e contro questa vera e propria réaction idéaliste. Péladan provoca un forte scompiglio culturale con il suo evento che, nonostante l’elitismo spirituale che lo ammanta, riscuote un grande successo di pubblico.
La prima mostra dei Rose + Croix (cui seguono fino al 1897 altre sei edizioni, sempre in luoghi diversi di Parigi, ma sicuramente di minore impatto mediatico) è sostenuta finanziariamente dal conte Antoine de La Rochefoucauld, che insieme a Péladan (mistico sì, ma anche scaltro imprenditore culturale) sceglie artisti internazionali per un’azione espositiva nuova rispetto ai soliti Salon «bazar» parigini. Anche se non unitaria come le edizioni successive, la prima mostra deflagra nell’epoca del positivismo trionfante. Péladan offre l’innesco per un Idéalisme che è già in sé materiale esplosivo: questo l’«effetto Rose + Croix» più dirompente.
Sâr vale a dire «guida»
Esoterico e cattolico in odore di scomunica, nonché monarchico e reazionario, Joséphin Péladan, o Sâr Merodack, come si fa chiamare (Sâr, che nell’antico ebraico e assiro significa «guida», e Merodack che deriverebbe dal nome di un re babilonese), impone la sua visione mistica all’evento. Stila un manifesto dottrinario dove non si ammettono paesaggi e nature morte. Nessuna scena domestica. Niente che abbia a che fare con il dato storico, reale o di natura, se non in una prospettiva idealizzante e spiritualista. Nessun naturalismo, dunque. E neanche gli «impressionismi» vengono tollerati. Per i discepoli rosacrociani la regola è di presentare opere, senza alcuna preferenza tecnica, ispirate a fonti letterarie, leggendarie, mitiche, meglio se di carattere onirico o allegorico, che esprimano un’arte al servizio della «bellezza».
Émile Bernard, reduce dall’esperienza sintetista di Pont-Aven e dalla rottura con Gauguin, in un impeto di fervente ritorno allo spirito religioso, aderisce all’iniziale manifestazione rosacrociana, che in uno scritto tardo commenta come la prima importante mostra simbolista. Le opere cui il Sâr Péladan si ispira sono le esperienze proto-simboliste di Puvis de Chavannes e Moreau. Artisti entrambi che avrebbe voluto nelle proprie mostre, insieme a Odilon Redon, Denis, e ai preraffaelliti George Frederic Watts e Edward Burne-Jons.
Josephin Peladan
Ma i vecchi maestri si rifiutano. Eppure Moreau, pur diffidando del Sâr, incoraggia i suoi allievi più fedeli, Rouault e Béronneau, a prendervi parte. Altrettanto fa Puvis con i seguaci Séon e Osbert. Così come vi partecipano, tra calcoli di convenienza e reali convinzioni dottrinarie, astri nascenti della scena internazionale come lo svizzero Hodler e l’italiano Previati. Il tutto celebrato in una mostra pensata come un rituale mistico-esoterico, attraverso un’azione che ha provocato all’epoca una vasta gamma di reazioni: dalle spirituali esaltazioni di accoliti e ammiratori alle più mondane battute di spirito della satira.
Le esposizioni organizzate dal Sâr Péladan sono ora l’oggetto della mostra Simbolismo mistico. Il Salon de la Rose + Croix a Parigi 1892-1897, curata da Vivien Greene, è visibile presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia fino al 7 gennaio prossimo (catalogo «in stile» a cura della stessa Greene per le edizioni Guggenheim Museum Pubblications). Seconda tappa dopo la Guggenheim di New York, la mostra è la prima nel suo genere, in quanto tratta, attraverso una quarantina di opere e vario materiale documentario, un aspetto specifico del Simbolismo fin de siècle.
Già nel 2010, con la mostra Utopia matters: dalle confraternite al Bauhaus, Vivien Greene, Senior Curator dell’arte di Otto e primo-Novecento presso la Guggenheim di New York, sondava l’evoluzione di varie forme di spiritualismo tra i due secoli nelle pratiche artistiche occidentali. Ma se lo studio all’epoca era di carattere generale, stavolta, indagando il solo fenomeno rosacrociano, si comprende bene il nodo anti-modernista e a un tempo modernista che questi tipo di simbolismo rappresenta, il nodo cioè che lega insieme le istanze spiritualiste delle confraternite passate (come i Nazareni e i Preraffaelliti) alle future spinte avanguardiste.
Delville, L'idolo della perversione
Le mostre dottrinarie di Péladan nascono nel segno dell’opera d’arte totale di Wagner. Ispirato da una rappresentazione del Parsifal al Festspielhaus di Bayreuth, il Sâr, che dedica ben quattro tomi all’opera teatrale del compositore tedesco, inventa i suoi Salon e si attornia di artisti che vivono delle simbologie e del culto wagneriani. Tra questi vi è l’aristocratico spagnolo Rogelio de Egusquiza, in mostra con una greve incisione presentata nell’edizione del 1896 e intitolata Il Santo Graal, dove la colomba bianca, emblema dello Spirito Santo, immersa in una vaga atmosfera medioevale da saga arturiana, risorge, nel sacramento eucaristico, dalla coppa del sangue di Cristo così cara all’Ordre de la Rose + Croix.
Al di là di espliciti riferimenti a Wagner, e, a suo dire, «senza alcuna preferenza di scuola», Péladan ossequia il principio del Gesamtkunstwerk aprendo a tutte le manifestazioni dell’arte, ferma restando l’idéalité della concezione dell’opera. Per questo anche la musica vi svolge un ruolo importante. Erik Satie, ad esempio, che già aveva lavorato a brani per opere teatrali del Sâr, in occasione della prima mostra compone alcuni pezzi sperimentali, tra cui le Sonneries de la Rose + Croix, utilizzando il computo greco della sezione aurea come principio organizzativo della partitura. Ma il repertorio musicale scelto, e quello artistico in generale, non è univoco, e la mescolanza di suggestioni, dal sacro al profano, dai Primitivi al Barocco, servono a veicolare stati d’animo molteplici e partecipazioni emotive di estasi e contemplazione.
Beronneau, Orpheus
L’idolo della perversione
E così da L’idolo della perversione di Jean Delville, rappresentante il feroce archetipo della femme fatale, si passa allo stereotipo opposto della femme fragile nel ritratto campestre di Giovane santa di Henri Martin. Dal pagano tema dell’Orfeo di Marcel-Béronneau, al misticismo di Aprile o Santa Cecilia di Armand Point, si attraversano riferimenti culturali e stilistici che vanno dal simbolismo di Moreau alle influenze tardo-quattrocentesche di Botticelli. Anche il ritratto trova un suo posto nei Salon, dove, bandito in chiave naturalista, viene accettato in una prospettiva idealizzante, soprattutto se utile alla mitopoiesi del Sâr stesso (come nella versione pseudo-sacerdotale che ne offre Alexandre Séon), o a celebrare le figure ispiratrici dei Rosa + Croix, tra cui Baudelaire, Verlaine e Wagner (come nei ritratti xilografici di Félix Vallotton, anche se non allineati alla mitomania rosacrociana).
Nel suo romanzo-culto À Rebours (1884), Huysmans sintetizza bene il pensiero di un artista décadent e della sua resa dei conti con la realtà, quando esprime il dovere di modificare la vita «fino al punto di annullarla, sostituendo un ideale di poesia alla squallida prosa del quotidiano». E se c’è una cosa che l’esperienza di Peladan e dei rosacrociani riflette, è che Parigi, nelle sue ansie sismiche di fine secolo, sviluppa un elevato tasso di permeabilità al nuovo e all’insolito. Sa di esserne l’epicentro e si prepara ad amplificare le scosse nelle avanguardie del primo Novecento.
Il Manifesto/Alias – 26 novembre 2017
↧
I nuovi camerati. La nostalgia del fascismo
Da un giorno all'altro il neofascismo è diventato per i media uno dei temi centrali. Eppure Forza Nuova esiste dal 1997, Casa Pound dal 2003, ma nessuno (tranne l'antifascismo militante dei centri sociali) si era finora interessato a loro. La presenza di un'area non piccola di nostalgici è una delle costanti della politica italiana: il MSI, che nasce nel 1946, mantiene fino alla sua trasformazione nel 1994 in Alleanza Nazionale un consenso costante attorno al 5/6% dei voti. Più o meno il peso attuale di Fratelli d'Italia più l'insieme dell'estrema destra. Il problema non è dunque quello di una concreta minaccia per la democrazia, non lo fu nemmeno negli anni delle stragi nere dove i neofascisti furono più che protagonisti pedine di una strategia decisa altrove. Ciò che preoccupa (o dovrebbe preoccupare) è semmai il tentativo di queste forze di inserirsi nel crescente disagio sociale, nel vuoto creato da una politica tutta di palazzo, nelle tensioni sviluppate dal fenomeno inedito in Italia di una immigrazione di massa. Un vuoto ampliato da una sinistra che, tutta presa dalla ricerca del leader salvifico, continua a trascurare il rapporto quotidiano con la gente. E su questo terreno che si deve agire.
Piero Ignazi
I nuovi camerati. La nostalgia del fascismo
Si susseguono gli episodi di esaltazione del fascismo e, a volte, affiorano persino simpatie neonaziste. Evidentemente rimangono ancorate al fondo della politica italiana nostalgie inestricabili rispetto a quel passato. Non per nulla per più di quarant’anni la repubblica democratica e antifascista ha tollerato l’esistenza di un partito dichiaratamente nostalgico come il Movimento Sociale di Giorgio Almirante, nonostante una chiara prescrizione costituzionale (la XII disposizione transitoria, tuttora valida), e la legge Scelba, introdotta nel 1952 in attuazione di quella norma della costituzione. Provvedimenti che vennero in seguito rafforzati dalla legge Mancino- Modigliani ( 1993) contro l’ “apologia del fascismo” e le manifestazioni razziste — nei confronti della quale la Lega Nord, nel 2014, ha presentato le firme per un referendum abrogativo.
Nonostante queste iniziative legislative la fiamma della nostalgia continua a bruciare. Come mai questa resilienza? Le responsabilità investono non solo la politica bensì, anche e soprattutto, una società civile indifferente, ripiegata a fare i propri interessi, priva di senso dello Stato, e infastidita dai richiami ai valori fondanti della Repubblica. Troppa indulgenza, per troppo tempo, verso le manifestazioni di nostalgia — e troppa retorica fondata solo sull’anti- fascismo e non sui principi liberali, democratici e solidali — hanno abbassato le difese immunitarie e lasciato campo libero ai cultori dei regimi totalitari.
Quando si è consentito che, per anni, il capo del governo — nella fattispecie Silvio Berlusconi — disdegnasse di partecipare alle manifestazioni del 25 aprile ( eccetto nel 2009, nelle zone terremotate), la causa dell’antifascismo, ancor più delle ambiguità di Alleanza Nazionale, ne risultava depotenziata. Un certo sentimento di fastidio dell’opinione pubblica moderata- conservatrice di fronte all’antifascismo roboante, e di indulgenza rispetto al passato regime, è stato legittimato e rafforzato, per due decenni almeno, proprio dal comportamento della destra “ istituzionale”.
Poi, la resilienza del neofascismo, così come tutte le pulsioni anti-sistemiche, si alimenta delle debolezze del sistema democratico. La scarsa rispondenza e responsabilità verso le domande dei cittadini e l’immagine di inefficienza e corruzione della classe politica fomentano l’antica polemica contro la democrazia, quell’ “ infezione dello Spirito”, secondo la celebre espressione di Pino Rauti.
Alla distrazione/ disattenzione dell’opinione pubblica e ai deficit della politica vanno poi aggiunte le capacità di attrazione proprie dei movimenti nostalgici. CasaPound, ad esempio, non si limita alle azioni dimostrative contro gli immigrati, né a riverniciare i meriti del regime fascista: cerca di creare una “ subcultura nera”, di legare militanti e simpatizzanti in una vita associativa intensa, fatta di rapporti personali e di esperienze comuni in modo da formare una comunità coesa, alimentata sì dal riferimento al fascismo, ma abilmente connesso con la realtà in cui il movimento opera.
Questo mix di esperienze comunitarie e di visioni politiche “alternative” penetra attraverso i varchi della rete civile. Laddove si diffonde la sensazione di abbondono, di marginalità e di esclusione, un messaggio nero di identità, di “ difesa e protezione”, e di opposizione radicale al sistema trova terreno fertile. Non per nulla, persino nell’Emilia rossa movimenti di estrema destra si sono presentati alla ribalta con il manto d’agnello per organizzare eventi sociali e ricreativi con finalità di beneficenza. Un piccolo esempio di come l’antidemocrazia neofascista trovi nuove strade per insinuarsi.
Le intimidazioni e le violenze costituiscono solo il versante più truce e scoperto. Il consenso si acquisisce anche in altri modi, meno eclatanti. E più inquietanti.
La Repubblica – 6 dicembre 2017
↧
↧
Viaggio a Delfi. Quanto è dionisiaco questo Apollo
E' davvero destino dell'uomo occidentale ritornare periodicamente là dove tutto è cominciato. Riprendiamo oggi un bel saggio di Pietro Citati sulla Grecia di Pausania. Continueremo domani con un intervento di Guido Araldo.
Pietro Citati
Quanto è dionisiaco questo Apollo
In questi giorni viene pubblicato il decimo e ultimo libro della Guida della Grecia di Pausania, benissimo curato da Umberto Bultrighini e Mario Torelli (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, pagg. 560, euro 35). Esso è dedicato alla Focide, e specialmente a Delfi, cuore della religione e della civiltà greca.
Pausania nacque nella parte occidentale dell’Asia Minore, e visse nella seconda parte del Secondo secolo dopo Cristo. Per lui, erano tempi tristi. La vera Grecia era un ricordo. I luoghi famosi spopolati: molte città abbandonate: le regge carbonizzate, le tombe sconvolte, le colonne dei templi a metà abbattute; Delfi priva, o quasi, di oggetti preziosi, sebbene gli edifici fossero gli stessi di un millennio prima.
Tra il 118 e il 125 dopo Cristo, l’imperatore Adriano era stato arconte delfico, cercando di riportare quella terra spopolata all’antico splendore. Tutto esisteva sotto il segno di Roma: Pausania pensava che Roma rispettasse o addirittura venerasse la Grecia, che aveva così influenzato la sua storia e i suoi pensieri. Amo molto Pausania. Senza leggerlo, non possiamo conoscere la Grecia: dobbiamo portarlo con noi, nei nostri viaggi ad Atene e nel Peloponneso. Era documentatissimo: aveva viaggiato molto, in Siria, Palestina, Egitto, Roma, Campania, con fonti e informatori eccellenti. Narra benissimo, con in mente il grande modello di Erodoto. Quando abbandona la sua abituale concentrazione, scrive con piacevolezza ed incanto. Percorre le strade principali della Grecia, quelle secondarie e minime, a volte scegliendo tradizioni e itinerari sconosciuti. Verso il mito, il suo atteggiamento è molteplice.
Talora è assolutamente certo: venera Omero senza discussioni ; come dicono le Peliadi, «Zeus c’era, c’è, ci sarà». Coltiva tutto ciò che è oracolare: i misteri eleusini «più di tutti i misteri di pietà religiosa»; i riti, gli eventi singolari, i prodigi, i fatti dietro i quali sospetta la presenza degli dei. Ma, a volte, rivela un profondo scetticismo: cerca di essere scrupoloso, preciso, minuzioso (assai più di Plinio il vecchio). Ama la verità (o ciò che crede essere la verità): ma non racconta tutto, perché vuole scegliere o è pieno di dubbi.
Alla fine sembra incerto, inquieto, perplesso: questo non è l’ultimo motivo del fascino che esercita su di noi. Come Erodoto, ama la storia totale. Non gli basta narrare i fatti storici e religiosi della Grecia, perché all’improvviso racconta di Cartagine o della Corsica. Coltiva il piccolo, il minimo, ma anche le grandiose cosmogonie, convinto che l’onfalo di Delfi si trovi al centro dell’universo. Descrive con competenza i fatti tecnici: specialmente le scoperte che, ai suoi tempi, si erano perdute.
Invece di parlare ancora una volta di cose conosciute, insegue quelle poco note o in apparenza insignificanti, persuaso che il mondo sia, nella sua essenza, incomprensibile e irraggiungibile.
Ma non si perde mai nei dettagli: vuole che la sua opera, dal primo al decimo libro, sia una totalità.
Sullo sfondo, per lui come per ogni greco, stanno il destino e gli dei, i quali si identificano con il destino – più, forse che nell’Iliade: «Il destino che assegna in egual misura la buona e la cattiva sorte».
Ma biasima coloro che credono di vedere dovunque gli dei, sia pure in sogno: ciò spetta, semmai, ai sacerdoti. Gli dei non si rivelano volentieri. Pausania indugia su molti temi: Eracle, Achille, Neottolemo, Dioniso, Iside, le Muse, Ulisse, Olimpia, la fonte Castalia, la fonte Cassiopide, Edipo, il quale, forse, lo affascina più di ogni altra figura.
Delfi. Teatro
Pausania non ha vere antipatie o veri odi per nessuno – tranne, forse, per Sparta: pensa che la guerra del Peloponneso sia stata esiziale per la Grecia. Parla di Sifni e dei suoi meravigliosi tesori delfici: «L’isola dei Sifnii aveva molte miniere d’oro, e il dio insegnò loro di riservare a Delfi la maggior parte delle entrate; essi allora costruirono il tesoro e cominciarono a versare la decima.
Ma quando per la loro insaziabilità tralasciarono di versarla, il mare allagò e fece sparire le miniere».
Siamo a Delfi, dove la figura principale è Apollo. Ecco il dio atasthalos, temerario, sfrenato, empio, accecato: egli non conosce nessuna delle verità che proprio da lui vennero chiamate apollinee; la serenità, il rispetto per la legge, l’armonia, la moderazione. Il dio che avrebbe presieduto alla misura della Grecia pecca di dismisura. Forse era necessario un dio violento, sfrenato, peccatore, assassino, per diffondere sulla terra l’equilibrio nella morale, il rispetto del limite, la quiete dello spirito, il gesto che pacifica e contiene. A Delfi Apollo incontra la Dracena: «Un mostro vorace, grande, selvaggio», figlio della Terra, che ne condivide il santuario oracolare, divorando uomini e animali.
Con una freccia Apollo colpisce la Dracena, che cade a terra ansando e contorcendosi, e gettando un urlo soprannaturale, finché muore con un soffio sanguinoso. Il corpo imputridisce, dando il nome al luogo, Pito, e al dio, Apollo pitico.
Delfi. Tempio di Apollo
Apollo aveva obbedito a un ordine di Zeus, che voleva costruire a Delfi il suo santuario. Eppure commette una colpa: anche gli dei commettono colpe: ha paura; in un luogo che dal suo nome, è chiamato Phobos, terrore, vien assalito dall’angoscia di sentirsi impuro e dalla follia; contamina e diffonde attorno a sé la contaminazione, come all’inizio dell’Iliade. Fugge. Si rifugia nella valle di Tempe, oppure espia presso gli Iperborei, una popolazione ai confini del mondo.
Poi torna a Delfi, incoronato di alloro, tenendo nella mano un ramo di alloro. Come dice Eraclito, Apollo non parla in modo diretto, o in epifanie, ma attraverso segni, o i versi della Pizia, “l’ape delfica”.
Pausania ama le digressioni. La più vasta e drammatica è dedicata all’invasione in Grecia dei Celti (Galati) nel 279-277 prima di Cristo. L’oracolo rispose ai Delfi, terrorizzati, che egli si sarebbe preso cura di sé stesso e di loro.
Nella prima invasione i Celti si arrestano perché sono pochi. Nella seconda invasione Brenno e i Celti attaccano i Greci con una rabbia e un furore non accompagnati dalla ragione.
Delfi. Particolare del Tempio di Apollo
Pausania li esecra, specialmente perché non danno sepoltura ai morti in battaglia. Mai si erano sentite atrocità simili o simili furori; i Celti bevevano il sangue delle donne e dei bambini. Ma nessuno di loro tornò salvo in patria. Il decimo volume della Guida della Grecia finisce quasi all’improvviso, con la storia del santuario Asclepio a Naupatto.
Non sappiamo con certezza se l’opera sia o no incompiuta. Ma, probabilmente, Pausania finisce così, con una conclusione in minore. Vuole imitare Erodoto. Gli piace moltissimo questa conclusione che conclude e non conclude, lasciando l’opera aperta all’infinito: come, forse, sono tutti i grandi libri. Noi torniamo a leggere e risaliamo al principio, provando una specie di nostalgia. Contempliamo di nuovo il più bel paesaggio della Grecia che abbiamo mai conosciuto.
La Repubblica – 1 dicembre 2017
↧
Paul Klee. La dimensione astratta
Fiori dal cielo sopra la casa gialla
La Fondazione Beyeler di Basilea ospita, dal 1 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018, la mostra "Paul Klee - La dimensione astratta". Una grande retrospettiva delle opere di uno dei più significativi autori del Novecento. "L'arte non riproduce il visibile; rende visibile ciò che non lo è", in questa frase di Klee è racchiuso il senso della mostra.
Fabrizio D'Amico
Paul Klee. La dimensione astratta
"Il colore mi possiede, per sempre. Io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore". Con questa certezza Paul Klee tornò dalla Tunisia, dove era andato nel 1914 con l'amico August Macke, che morirà quell'anno stesso in guerra. Tunisi, Hammamet, Kairouan — le loro luci colme, i loro colori gioiosi — gli donano d'improvviso la maturità: giunta dunque tardi, a trentacinque anni. Klee, che era nato nel 1879 nelle vicinanze di Berna da genitori musicisti, aveva diviso fino ad allora il suo lavoro fra musica, disegno e scrittura.
Era giunto quasi inatteso, nel '12, l'invito di Kandinsky alla seconda mostra del Cavaliere azzurro a Monaco di Baviera; quell'anno stesso era anche tornato a Parigi, conoscendovi tra gli altri Robert Delaunay. Ma è solo al ritorno dal viaggio in Tunisia che inizia la sua stagione più felice, con mostre che si susseguono di anno in anno, spesso accompagnate da un convinto successo di pubblico e critica; finché nel ‘20 è chiamato da Walter Gropius ad insegnare al Bauhaus.
Staedtische Komposition mit gelben Fenstern
È una sorta di incoronazione: da allora, Klee entra a far parte della ristretta cerchia di artisti che, un po' ovunque in Europa, cercano, percorrendo strade diverse, la verità della pittura oltre la mimesi della realtà. Ora la Fondazione Beyeler di Basilea dedica una mostra a La dimensione astratta di Klee (a cura di Anna Szech; fino al 21 gennaio 2018), ponendo l'accento su uno dei due poli della sua pittura, quello che ne fece uno degli interpreti più consapevoli e teoreticamente agguerriti dell'arte non figurativa.
All'altro capo dei suoi propositi, l'opposto: disse, al tempo della guerra: «quanto più spaventoso è questo mondo (come oggi), tanto più è astratta l'arte»; e ancora: «Astrazione. Il freddo romanticismo di questo stile senza pathos è inaudito». Vennero allora case, giardini, architetture d'ogni tipo; e spesso i suoi dipinti, le sue carte all'acquarello prendevano titoli che rafforzavano il sospetto di una suggestione provata di fronte alla natura. Eppure, quei suoi dipinti hanno, tutti, quel malessere inaudito — quella separatezza dalla realtà che li fa, infine, ad essa radicalmente estranei.
Non c'è profondità in lui; senza una collocazione prospettica, le cose si snodano sulla superficie senza ordine, senza gerarchia. Vagano in un'atmosfera senza aria, irrespirabile.
Sono sogni? Nemmeno; solo segni disposti sul piano, invasi da un colore eccitato negli anni Dieci, poi più sobrio e talvolta scuro, infine (dal quarto decennio, fino alla morte venuta nel 1940) nuovamente vario e imprevisto, solcato da un segno che s'è nel frattempo inturgidito, e che ora delinea forme più salde.
Segni in giallo
"L'arte non riproduce il visibile; rende visibile ciò che non lo è"; Klee persegue dunque non una "forma come valore", come entità data una volta per sempre, chiusa in sé, immota, ma il "modo del suo prodursi", ha scritto Argan. È per questo che Klee accede indifferentemente ad una elementare e quasi ingenua figurazione, e all'opposto ad una concentrata astrazione geometrizzante, e persino ad una indagine pre-surrealista che posa lo sguardo sulle regioni misteriose dell'abisso, nelle terre "dei morti e dei non nati"; o che guarda, per trarne ispirazione — anticipando in ciò tante avanguardie, fino a Dubuffet — , il disegno infantile, e l'arte prodotta dagli alienati e dai folli.
Una serie di contraddizioni e antinomie toccano allora la sua opera: divisa sempre fra emozione e controllo del pensiero; fra un misterioso tremore e una solare, dimostrabile evidenza; fra cecità e lucida consapevolezza; tra flagranza e sogno; fra giocosa incostanza della creazione e umilissima sistematicità dell'impegno fabbrile; fra tutto quanto è regola, insomma, e tutto quanto, lì a fianco, è sua trasgressione.
Così i suoi "paesaggi" sono non più che implausibili topografie inerpicate su una verticale primordiale, pre-rinascimentale; paesaggi che irridono il canone prospettico e mettono assieme, in uno spazio tenuto precariamente in bilico sul nulla, casette e triangoli, cerchi ed aloni, ellissi e punti esclamativi, lettere e occhi, alberi e stelle: in un'antologia di un mondo creato non dalla memoria, né dallo sguardo, ma dal paziente lavoro di un ricercatore in traccia di una possibile realtà che tutto il già visto sappia dimenticare. Per questo Klee — più del "didascalico" Mondrian, o del "romantico" Kandinsky, che l'avevano preceduto sulla via dell'astratto — è stato maestro di tanti; ed è tuttora il pittore forse più amato, e interrogato, dell'intero secolo scorso.
La Repubblica - 26 novembre 2017
↧
La via verso gli Dei. Riti misterici nell'antica Grecia
Seconda puntata del nostro viaggio di ritorno là dove l'Occidente ha cominciato il suo cammino. Il tema di oggi sono i Misteri, vero cuore della religiosità greca.
Guido Araldo
La via verso gli Dei
Educare non significa trasmettere nozioni e discorsi, secondo l’abitudine di sedicenti professori contemporanei; ma tentare di destare la piena consapevolezza di sé stessi: il nosce te ipsum scritto sul frontone di un tempio a Delfi, non a caso in quello di Apollo.
Vale la pena evidenziare l’allegoria della caverna di Platone, all’inizio del settimo libro de “La Repubblica”, dov’è descritta l’essenza dell’educazione: distogliere l'attenzione ipnotica da fantasmi inconsistenti; oggi, in tempi televisivi, una necessità inderogabile.
I riti iniziatici, noti come mysteria, servivano per uscire dalla caverna in cui l’uomo comune, il profano, consuma la sua esistenza fino alla morte, senza rendersi conto della “vera realtà” che lo circonda, vivendoci all’interno come un bruto, senza cercare di pervenire a virtute e conoscenza. La stessa Divina Commedia di Dante è un percorso orfico – eleusino per uscire dalla selva oscura – caverna e andare verso la luce dell’Empireo. In un simile contesto è prioritario l’abbandono della selva oscura del mondo, dove imperano la lonza il leone e la lupa, ovvero concupiscenza vanità e cupidigia: i tre grandi “peccati” dell’umanità dei quali è difficile esserne immuni. Un viaggio dalla lordura rettiliana a riveder le stelle, verso la luce.
Nell’antica cultura greca questo viaggio iniziatico era noto come la “via verso gli Dei”, parallela alla religione popolare, di cui ne costituiva un superamento.
Il passaggio centrale di questo viaggio sta nella “Teogonia” di Esiodo, essenza dei riti orfici: il giovane Dioniso muore divorato dai Titani, la bestialità umana, ma rinasce per opera di Rea, moglie di Crono e madre di Zeus, la Mater Tellus dei Romani, che ricompone il corpo del giovane dio con le ceneri dei Titani fulminati da Zeus per il barbarico sacrilegio che hanno commesso. In quel corpo di cenere Apollo pone quanto di divino Rea ha trovato tra le ceneri: il cuore ancora palpitante divino. Quale atavico riferimento al Sacro Cuore di Gesù! La prima rappresentazione storica del corpo e dell’anima, con l’ineluttabile contrapposizione che ne deriva: un cuore divino in un corpo bestiale.
Il riferimento a Apollo è determinante: nel corpo dell’uomo bestia, in balia dei suoi sensi, dei suoi istinti, è occultata una goccia apollinea cristallina: una luce nascosta che l’iniziato deve alimentare continuamente, per impedire che si spenga. Anzi, la deve ravvivare, rendendola sempre più luminosa. Si si vuole… Pinocchio che da burattino diventa uomo, mentre Lucignolo, nome non casuale, si riduce a ciuco.
“La via verso gli dei” ha un’unica ambizione: identificare e alimentare la tenue goccia apollinea nascosta nell’umanità, la più preziosa delle perle. “La via verso gli Dei” comincia della consapevolezza di trovarsi nella caverna di Platone colma di apparenze, nella quale si è intrappolati come in un’inestricabile tela di ragno. Questa la condizione di gran parte dell’umanità dalla quale occorre emergere, come Dante dalla selva oscura.
Ma gli antichi “mysteria” non erano soltanto un processo di maturazione e metamorfosi individuale, come un bruco che diventa farfalla; erano anche il modo per trasmettere segrete conoscenze a iniziati accuratamente selezionati: il sapere esoterico dell’antica civiltà egizia, minoica e greca. Conoscenze che dovevano ovviamente essere integrate dalla disciplina morale, in sintonia con un elevato livello intellettuale. Impresa che la storia dimostrò quanto fosse difficile. L’eterna illusione di Pitagora e Platone?
I riti misterici erano il mezzo per cercare di formare una valida classe dirigente della città, la polis. Missione da trecento anni interpretata dalla Massoneria nel mondo anglosassone, memore dell'Atene classica, allo scopo di preparare un élite dirigente attraverso la riproposizione aggiornata di riti antichissimi. Un percorso che all’apparenza potrebbe sembrare stravagante, come lo erano Pitagora e Socrate, quando invece è un metodo serio e efficace, formativo per le simbologie che lo arricchissimo e i rituali che lo permeano.
Passaggio centrale in questo percorso è la morte, ovviamente allegorica, e la successiva rinascita. Nella religione tradizionale, olimpica, i morti erano soltanto spettri, ombre, «teste senza forza» come amava raffigurarli Omero. Nella rappresentazione misterica la morte è il superamento della selva oscura del mondo e dei propri istinti bestiali, attraverso un viaggio individuale solitamente notturno e sotterraneo, in un oltretomba simbolico come per i misteri eleusini e orfici. Simile a quello di Dante nell’Inferno e nel Purgatorio. Per infine rinascere e incontrare la luce mattutina.
Nei moderni rituali il percorso sotterraneo di Eleusi descritto da Plutarco è sostituito dalla bara d’acacia, dove Iside depose Osiride ucciso da Seth, per farlo rivivere: il più antico “mistero di rinascita” di tutti i tempi. Un percorso che non può essere compiuto in solitudine, improvvisando, ma con uno o più maestri: nei misteri eleusini il daduchos, che guidava la processione sotterranea, poi il “mistagogo” che prendeva per mano il profano velato o bendato; per Dante Virgilio, Beatrice e san Bernardo di Chiaravalle, il fondatore dei Templari e dei Cistercensi cui dettò le rispettive regole.
La morte simbolica allude all’abbandono del precedente stato di subcoscienza e ignoranza, per rinascere in una nuova visione di sé stessi e del mondo. Ancora una volta il nosce te ipsum, con la consapevolezza della flebile fiammella apollinea che sta in noi e che mai sarà lecito lasciar spegnere. Tutto questo dovrebbe comportare, similmente al cristiano, un rinnovato stile di vita.
Chi c’era nei misteri eleusini ad accogliere il “maestro risorto” di fronte alla luce dell’alba? Demetra e Dioniso! La prima, Mater Tellus romana, con in mano una spiga di grano o del pane, l’altro con un grappolo d’uva o, più ancora, con un calice di vino.
È mia personale convinzione che il rito eleusino non sia tramontato, che non sia mai morto, poiché c’è ancora chi lo celebra, seppure profondamente mutato dal momento in cui da esoterico divenne essoterico. In origine occorreva essere ben consapevoli del “passo iniziatico” che s’intendeva effettuare. Allora la cenere dei Titani veniva lavata con l’acqua e cominciava un percorso che si concludeva con l’unzione tramite olio santo, per partecipare finalmente al rito misterico del pane e del vino, diventando partecipi di un nuovo gregge.
Lamina orfica
La via verso gli Dei porta alla consapevolezza d’essere partecipi del grande divenire dell’universo, dove l’immenso ciclo di nascita e morte continuamente si rinnova. Un’antichissima iscrizione su un'orfica lamina d’oro ricorda: «O felice, o beato, sarai un dio anziché un mortale.»
Ma l’uomo è uomo, e non è Dio! Nella chiave di volta dell’Apocalisse sta scritto (ultimo versetto del 13° capitolo): “Hic sapientia est! Qui habet intellectum, computet numerum bestiae. Numerus enim hominis est et numerus eius sescenti sexaginta sex”. “Qui sta la sapienza! Chi ha intelletto, computi il numero della bestia. In verità, è il numero dell’uomo e il suo numero è seicento sessanta sei”. Si può soltanto agognare d’accostarsi agli Dei: illusoria e blasfema la presunzione di diventare come loro o di somigliare a loro!
Essenziale la purificazione dello spirito dalle ceneri dei Titani, quasi una “respirazione bocca a bocca” per ravvivare il cuore apollineo che sta in noi. È un arcano processo di metamorfosi spirituale che da Esiodo e Pitagora attraversa gran parte della visione del mondo classico, per arrivare al pensiero stoico greco e romano, e rinnovarsi nel cristianesimo antico che era esoterico e non essoterico, infine nella massoneria (non italiana, ma universale).
Nel rito orfico era chiaro un messaggio: la morte, quella vera, non può essere ingannata e, tanto meno, sconfitta. La morte, il grande enigma dell’umanità, origine di tutte le religioni, è ineluttabile nel processo universale di vita morte rinascita. Orfeo è l’unico mortale cui è concesso scendere e tornare dagli Inferi, ma fallisce nella missione di recuperare l’amata moglie Euridice. Per quale motivo? Non licet! Le leggi universali di Temis sono inviolabili, inalterabili, assolute; anche se molte cose non riusciamo neppure a intuire.
È possibile reperire dolci allusioni della “via verso gli Dei” in favole famose: la morte e la rinascita del grillo parlante, il maestro, in Pinocchio; Obi-wan Kenobi in Guerre Stellari, Gandalf che muore in un percorso sotterraneo ed eccolo ricomparire non più grigio ma bianco a guidare la riscossa. E perché no? Anche il bacio del principe a Biancaneve, che le infonde il soffio apollineo rigeneratore, destandola di un lungo sonno simile a morte apparente…
↧
Poeti della rivoluzione russa. Blok, Achmatova, Mandel'stam, Cvetaeva
Poeti della rivoluzione russa
Blok, Achmatova, Mandel'stam, Cvetaeva
Giovedì 14 dicembre
alle ore 19:30
presso
La Casa della Poesia
Via Formentini 10
Milano
Secondo appuntamento del ciclo di incontri con la poesia della rivoluzione russa, a cura di Milo De Angelis, organizzati dalla Casa della Poesia di Milano.
Per i cento anni della Rivoluzione Russa vengono letti i versi dei poeti piú rappresentativi di questo tragico e vitale momento storico.
Nella voce dell'attrice Viviana Nicodemo risuoneranno la nostalgia e il lirismo di Aleksander Blok, l'aristocratica forza di Anna Achmatova, la parola definitiva di Osip Mandel'stam e l'impetuosa passionalità di Marina Cvetaeva.
Il tutto dialogherà con la musica in un rapporto di confronto e risonanza con melodie classiche e contemporanee dell'epoca, oltre a incursioni originali della musicista Bianca Brecce (pianoforte, l'ama musicale e strumenti elettronici).
↧
↧
Edgar Allan Poe. Lettere di un "adorabile bugiardo"
"Ho preso finalmente la decisione: lascio la vostra casa per trovare un posto in questo grande mondo". Edgar Allan Poe ha solo 17 anni quando inizia il suo viaggio nella scrittura. Racolte in volume le lettere dello scrittore americano considerato il padre della letteratura noir. Una bella recensione che svela aspetti poco conosciuti della personalità dell'artista. Da leggere nonostante il titolo delirante.
Nadia Fusini
Alle sorgenti del Poe
Grazie alla sua cura sapiente, Barbara Lanati, americanista di rango, ci introduce da perfetta ospite al volume delle Lettere di Edgar Allan Poe, che traduce insieme con Nicoletta Lucchetti e Laura Traversi per i tipi del Saggiatore. Non sono tutte le lettere di quell'"adorabile bugiardo" (così Lanati definisce Poe), ma sono abbastanza (più di 700 le pagine) per entrare in una vita travagliata quant'altre mai, perseguitata da un guignon feroce, che intorno al volto del protagonista disegna l'aureola che ispirerà il fraterno e incondizionato amore di Baudelaire.
Figlio di due poveri attori senza arte né parte, che muoiono uno dopo l'altro a distanza di un anno, il neonato orfano trova casa temporanea presso John e Frances Allan, ma anche da questo nido sarà "deietto". E nell'atto dell'espulsione si dovrà avvertire la forza di chi vi riconosce il segno del destino.
Non a caso, se non la prima, la quinta delle lettere del volume contiene la dichiarazione categorica da parte del figliol prodigo al patrigno: "Ho preso finalmente una decisione — lascio la vostra casa e tento di trovare un posto in questo grande mondo". "La mia decisione è irrevocabile" insiste il figlio tradito, che accusa: "per capriccio avete infranto le mie speranze".
Non voleva far altro che studiare; tutti i suoi pensieri erano rivolti all'impiego delle proprie energie per eccellere nel mondo, ma il patrigno, dimostrando di non provare "alcun affetto" per lui, l'ha esposto all'arbitrio e al capriccio della sua autorità, e gli ha tolto ogni possibilità — perché l'affermazione che Poe cercava "non si può conseguire senza una buona Istruzione". In tale volontà il padre non l'ha sostenuto, l'ha lasciato cadere e l'ha esposto così ai casi e agli accidenti della fortuna. Eppure il giovane Edgar, che all'epoca in cui scrive la lettera ha 17 anni, era bravo a scuola, in particolare in latino e in francese.
E aveva l'intenzione di migliorare vieppiù e di farsi onore. Invece, si ripete l'esperienza traumatica dell'abbandono. "Se decidete di abbandonarmi" ripete, incapace com'è di separarsi da chi lo respinge, "allora vi dico addio". "Non avevo idea di che cosa fosse l'angoscia" ripete desolato a questo padre non padre, che però chiama "papà" e da cui continua a pretendere soldi, per sopravvivere.
I debiti e la fame e la solitudine assillano il figlio reietto. Anche perché i soldi che ottiene li dissipa, raccontando però come gli vengano rubati, o svaniscano in incidenti sordidi di cui è vittima. E noi non capiamo se dice o no la verità. E pian piano si insinua nella lettura dell'epistolario un sospetto: è un bugiardo che mente, o un fantasista? Racconta, o inventa? E qual è il discrimine?
Quando dice al "caro papà" che il generale Benedict Arnold era suo nonno, ci crede davvero o se lo inventa? È tanto più difficile rispondere perché noi conosciamo Poe come lo scrittore che diventerà, e sappiamo quanto ami la dissimulazione, la fantasia disinibita e l'immaginazione folle. E ci viene da pensare che più della verità adori la finzione, gli piaccia fare colpo, camuffarsi. In fondo, è figlio di attori; forse ce l'ha nel sangue quell'istinto al gioco; quell'impulso, cioè, a non essere chi è, a mascherarsi.
Siamo abituati a queste "finte" nei racconti, e ora scopriamo anche nelle lettere le mille maschere dietro cui si cela. Per ingenua disposizione d'animo ci aspetteremmo che chi dice "io" per lettera non menta, ma si riveli nell'intimità di una relazione autentica che sceglie di intrattenere con gli altri. Ci aspettiamo, nella scrittura epistolare, un tono di verità. Un timbro confessionale. Sempre ammesso che si riesca, o si voglia distinguere tra verità e menzogna. E non piuttosto intrattenersi, come accade a Poe, nel gioco di ombre che conduce la danza spettrale di parole che inventa ad effetto per esprimere i suoi affetti e le frustrazioni e paure e contraddizioni.
Baudelaire
Forse Poe vorrebbe dire la verità, ma una certa mitopoiesi pare spontaneamente intralciare l'intenzione e proiettare la sua mente in più ardite costruzioni fantastiche. Fino a confondere la verità con la bramosia dell'illusione, il pio desiderio con la realtà. Già, la realtà! Come può abitare nella realtà chi si sente sempre esposto alla contraddizione dell'indolenza congenita che tramuta in frenesia creativa? È la tortura di Poe: Poe è crocefisso al paradosso di chi vive fantasticando, e al tempo stesso è un assoluto materialista.
È inetto e frenetico al tempo stesso; un eremita, ma non a Walden, a New York; un parassita che vorrebbe abbandonarsi alla tendenza all'indugio (uno dei suoi tanti difetti, spiega), epperò in quell'abbandono, crea. Non ha altra smania che andare a zonzo, perdersi nei boschi; però sta lì confitto nella sua miseria a New York. Malato, depresso, pazzo. "Aiutatemi" chiede agli amici, "ora, subito, perché proprio adesso sono in pericolo".
Ma non c'è al tempo chi lo ascolti. Se non Baudelaire, un poeta come lui, che oltreoceano sa cogliere nella sua Nervenkunst l'arte moderna — che non può che essere nevrile, e nevrotica. Il genio folle e maledetto, il vagabondo, il farabutto, il bugiardo, l'ambizioso malinconico, solitario, angosciato, divorato dal suo demone, è tutto qui nelle lettere: un essere sensibile per costituzione, e di natura straordinariamente nervosa, che cerca le parole per mettere il cuore a nudo, nella sua verità di muscolo che cerca l'amore.
La Repubblica/Robinson – 3 dicembre 2017
↧
Dal suono al silenzio (e ritorno). Sull'arte del saper leggere
Gli antichi declamavano ogni cosa.Poi venne l’uomo che McLuhan definì “tipografico”: e lo studio diventò un fatto interiore. Oggi la tecnologia ci riporta alle origini. Perché leggere, in fondo, è anche un po’ pregare. Una bella riflessione sull'arte del saper leggere.
Franco Cardini
Dal suono al silenzio (e ritorno)
Gli utenti abituali delle ferrovie sono per la massima parte gente che viaggia in “seconda”: specie i funzionari statali, per pochi dei quali è previsto il rimborso della “ prima”. Càpita però che il modesto viaggiatore debba comunque prendere il treno in una giornata di speciale affollamento: e debba quindi farsi per forza il biglietto di “prima”. Il top di tale esperienza è il viaggiare nella “ zona silenzio”: ma chi si sente giunto in un’isola felice, può andar incontro a imbarazzanti sorprese.
Anzitutto non si può telefonare, neppure a voce bassissima; quanto alla conversazione poi, c’è sempre qualcuno che protesta. Sembra che il giudicare sul “tono di voce” sia una delle cose più arbitrarie al mondo. E allora, se il malcapitato ch’è stato più volte redarguito chiede al capotreno: “Ma insomma, cosa posso fare senza che qualcuno si lamenti?”, la risposta arriva naturale: “Leggere, ovviamente”.
Si potrebbe obiettare che no, che non è ovvio per nulla. E ricordare l’ormai classica lezione impartitaci da Marshall McLuhan nel suo celebre Galassia Gutenberg, laddove si contrappone “l’uomo tipografico” alla cultura orale tradizionale e si conclude con l’attribuire buona parte della schizofrenia che ormai da ogni parte ci minaccia all’abbandono di un metodo di lettura che, a voce alta, metteva in gioco almeno due dei cinque sensi — la vista e l’udito — a vantaggio di uno che utilizza soltanto la vista.
Peraltro la lettura dei giorni nostri, che spesso si confronta non già con qualcosa di scritto con l’inchiostro su un supporto cartaceo bensì con labili segni che compaiono su un display, fino ai suoni che oggi ci rimandano gli audiolibri, ci ha disabituato a un mondo nel quale avevano il loro bravo ruolo anche il tatto e l’olfatto, e perfino l’udito era stuzzicato dal fruscio delle pagine.
Chi ha avuto la fortuna di vivere nelle biblioteche d’una volta non dimenticherà l’odore, anzi il profumo delle vecchie carte e la gioia quasi sensuale che si provava accarezzando il duro cartone e il buon vecchio cuoio delle copertine. Quanto al gusto, le metafore sono quanto mai eloquenti: “assaporare le parole”, “gustare una pagina”, “divorare un libro”…
Ma tutto ciò, non si può fare anche leggendo in silenzio, con i soli occhi? Chiunque s’intenda sul serio un pochino di lettura vi risponderà in termini perplessi. Per esempio, il vecchio Alessandro Manzoni consigliava di “leggere con la penna”, e aveva ragione: non c’è nulla di meglio di un passo copiato, cioè trascritto, oppure anche semplicemente riassunto, per penetrare sul serio negli anfratti e nei misteri di un testo. Certo, bisogna metterci attenzione e concentrazione: copiare con l’anima, non solo con gli occhi e le mani. Ma anche quando si legge in silenzio ci accorgeremo che, magari impercettibilmente, stiamo ripetendo quanto leggiamo. Non riusciamo a restar perfettamente muti.
La parola letta con attenzione s’insinua sottile dagli occhi alle corde vocali e sale fino alle labbra, un po’ come succede quando ascoltiamo la musica. E, in fondo, proprio di musica si tratta. Peraltro, non è necessario pensare alla lettura monastica o a quella coranica nelle madrase, o a quella degli scolaretti cinesi che si addestrano a leggere in un idioma nel quale il tono e l’accento sono fondamentali. Chi ha udito leggere in coro dei bambini che stanno affrontando i primi rudimenti della lettura conosce la musicalità dei segni tradotti in emissioni vocali. D’altronde, leggere solo mentalmente fa risparmiare un sacco di tempo.
Qualcuno di voi ricorderà le sensazioni che — era appena arrivato il fatale Sessantotto — ci vennero comunicate dal manuale di Lecture rapide propostoci nel 1969 da François Richaudeau e da Françoise e Michel Gauquelin: e il disprezzo, che sapeva un po’ di futurismo, per tutto quel che procedeva lentamente, che faceva perder tempo. Il “buon lettore” doveva arrivare a leggere quindicimila parole l’ora: i metodi di “lettura rapida” prospettati, ancor avveniristicamente, nella Physiologie de la lecture et de l’écriture di Émile Javal, che è del 1905, sembravano divenuti necessari e obbligatori.
Eppure, fra noi, c’era pur qualche reazionario che ricordava ancora la lezione del Louis Lambert di Honoré de Balzac: il prodigioso lettore veloce, alla lunga, diventa matto. A parte il fatto che a leggere in silenzio e troppo in fretta si rischia spesso di non capirci o di non ricordare nulla: e di dover ricominciare da capo. Leggere lentamente, quindi; tornare a una lettura assaporata. Ciò rimetterà in circolo i metodi di lettura “a voce alta”? Non è detto.
Esiste anche una lettura muta che, proprio in quanto tale, è più intima, più profonda, più preziosamente meditata. Quella domenica 17 giugno del 385 il trentenne rètore Aurelio Agostino di Tagaste, nella basilica che poi sarebbe stata detta “ ambrosiana”, s’incontrava proprio con lui, col grande terribile Ambrogio: e, come ha narrato nelle sue Confessioni (VI, 3), si stupiva nel coglierlo immerso in una lettura silenziosa, una lettura che somigliava alla preghiera del cuore.
Perché leggere e pregare — il termine lectio, appunto, ce lo ricorda — sono operazioni profondamente affini: specie nelle religioni che conoscono una Scrittura Sacra e dove quindi il saper leggere (o l’ascoltar chi legge) è la necessaria porta d’accesso alla parola di Dio. Parola scritta, parola pronunziata; segno veduto, segno ascoltato.
Proprio partendo da ciò si andò sviluppando, nella tarda antichità e nel medioevo, una letteratura “da leggere” alla quale se ne accompagnava — e non necessariamente come ripiego dinanzi all’analfabetismo — una “da ascoltare”.
Sul piano dei generi letterari, per esempio, “ da leggere” intimamente, in silenzio, erano soprattutto i romanzi: specie le scene d’amore; mentre “ da ascoltare” — e quindi, per chi leggeva, da declamare — erano le “canzoni di gesta”, i poemi epici. Scandite, e magari gridate, se fate la guerra; tacete, o sussurrate, se vi apprestate a fare l’amore.
Ma sussurri e grida, lo sapevamo anche prima di Ingmar Bergman, più che opposti sono complementari: e il rumore assordante della cascata può produrre silenzio. Ricordate Paolo e Francesca, che leggevano un giorno “ per diletto”, “ di Lancillotto, e come amor lo spinse”. Era lui che leggeva a lei sempre più piano, sempre più vicino; o lei che leggeva a lui sempre più intima, sempre più commossa? O tacevano entrambi, seguendo lo stesso rigo col cuore in gola, con gli occhi e con le dita che si sfioravano? Non lo sapremo mai. ?
La Repubblica – 3 dicembre 2017
↧
Il fascino di Plutarco
Continua il nostro viaggio nel mondo classico. Oggi parliamo di Plutarco, grande scrittore (le sue Vite parallele sono più che storia pagine di grande letteratura e di analisi psicologica dei personaggi), ma anche sacerdote del culto di Iside.
Carlo Franco
Plutarco, perché questo erudito moderato ci attrae
Si racconta che Arnaldo Momigliano fosse preoccupato di dover scrivere per la «Treccani» la voce su Plutarco, senza averne potuto leggere per intero l’opera. Il testo comparve nel volume XXVII pubblicato nel 1935, e contiene oltre all’informazione di base meditati giudizi, che meritano ancora interesse (però chi cerca oggi la voce fidando nella rete, e non nella carta, trova come autore Attilio Momigliano, l’italianista. Errore non isolato nei materiali Treccani on-line…).
Momigliano per altro aveva ragione. Conoscere per intero l’opera di Plutarco pervenuta sino a noi è impegno non da poco: le quasi cinquanta biografie delle Vite parallele sono più note, assai meno lo sono i saggi riuniti sotto il titolo di Opere morali (Moralia). Dei circa ottanta trattati, talora di poche pagine, talora più ampi, non tutti erano finora disponibili e reperibili in traduzione italiana annotata.
Di qui l’iniziativa coordinata da Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, che ha condotto studiosi di varia età ed esperienza a mettere insieme in un volume piuttosto corposo tutte le Operette, con testo greco a fronte e note, insieme alle opere non autentiche e ai frammenti (Plutarco, Tutti i Moralia, Bompiani «Il pensiero occidentale», pp. 3192, € 70,00).
L’epoca di Jacques Amyot
Come d’uso nella collana, si sottolinea orgogliosamente come si tratti della «prima traduzione italiana completa» che in età moderna abbia riunito il materiale in un solo volume (il concetto è ribadito nell’introduzione dove si fa la storia delle traduzioni moderne della cospicua raccolta). Certo, non è più l’epoca di Jacques Amyot (1513-’93) che da solo tradusse le Vite e poi le Opere.
Né quella di Marcello Adriani (1553-1604) che donò eleganza toscana alle moralità di Plutarco così che i suoi scritti «acquistarono quell’uniformità e quella leggerezza di stile che troppo spesso non ebbero dal loro autore», come scrive l’Ambrosoli, tardivo editore di quella traduzione, integrata con qualche aggiunta (Milano, 1825). Il volume Bompiani è redatto a più mani, come è inevitabile e forse giusto, vaste essendo le competenze richieste.
Gli scritti di Plutarco coprono molti ambiti diversi della cultura, dall’etica alla filosofia, dalla critica letteraria alla politica, dalla scienza alla retorica, dalla religione all’erudizione, dalla zoologia alla cultura popolare. Non disturba che le traduzioni, le annotazioni e il commento presentino talora un passo differente, tanto più che nel volume sono ripresi e rifusi anche materiali già pubblicati per altre edizioni parziali. Opportuna è la selezione dei materiali adibiti al commento, dove la completezza sarebbe impossibile e renderebbe il tutto poco utilizzabile: l’introduzione generale alle Opere morali premessa a una celebre collezione francese conta oltre duecento pagine.
Lo scrupolo dei commentatori emerge dalla imponente bibliografia scrutinata, esito dall’intenso lavoro svolto sull’autore negli ultimi decenni. C’è stato infatti un «ritorno a Plutarco»: ne scriveva Carlo Diano nel 1965, e giustamente lo ricorda Pisani. Fino al principio dell’Ottocento era durata una ammirazione altissima per il Plutarco biografo, ispiratore di «egregie cose», e scrittore di temi morali. Invece nell’Ottocento storici e studiosi del positivismo mostrarono una forte delusione, irritati dagli elementi compilativi dell’opera di Plutarco, giudicata poco utile come fonte storica e anche poco originale (ma dire che questo fu esito di una «ottusa filologia», come qui si legge, è eccessivo).
Oggi si è tornati a leggere lo scrittore antico con migliore consonanza, accettandolo come è, cercando di trattarlo anche unitariamente, con le Vite a illuminare le Opere morali, e viceversa. Eppure la nostra epoca è molto lontana dal modello degli uomini grandi, è molto allergica alle esigenze di una estesa minuziosa cultura, e molto indifferente al «bello stile». Che cosa dunque attrae verso Plutarco?
Non certo la prosa lenta e talora sovraccarica, spesso migliorata dalle traduzioni che attenuano certe ridondanze (basta guardare il testo greco a fronte, derivato da edizioni critiche correnti, per notarlo). A interessare invece è la varietà dei temi che Plutarco seppe affrontare, la sua pacata argomentazione, l’efficace gradevolezza del suo ragionamento. I suoi scritti, soprattutto morali, sono abilmente disseminati di efficaci aneddoti, dotte citazioni, pensose massime. Questo è il frutto non di una mente originale e speculativa, ma di un grande ingegno, capace di decantare con mano sapientissima una lunghissima tradizione culturale.
Scoprire pagine inattese
Tra le tante pagine di questo erudito, moralista, filosofo, teologo e letterato, ciascun lettore può costruire la propria antologia. In effetti, il volume che riunisce tutti i suoi scritti invita a scoprire pagine inattese: una discussione su come leggere la poesia, una riflessione sugli usi alimentari, un dibattito sulla crisi degli oracoli, la descrizione di un rito esotico, un’indagine antiquaria su strani usi romani, i consigli a un assennato uomo politico, una polemica su Erodoto e i Beoti, una declamazione su Alessandro Magno, un saggio di critica letteraria, attacchi contro scuole filosofiche rivali, e altro ancora. Difficile non trovare qualcosa che non attragga, fosse solo per curiosità.
Moderato in ogni atteggiamento
Plutarco è per noi uno dei «frutti più maturi della civiltà ellenica», e il testimone di un ellenismo in versione greco-romana: egli per certi aspetti profittava della pace imperiale, per altri si volgeva al passato, come se il presente non esistesse. Ecco allora, proprio nelle Opere morali, un blandissimo messaggio politico: accettare la supremazia romana, ma non identificarsi con l’impero, che greco non era. Ecco anche lo sguardo al passato: la coscienza di una grande eredità culturale, e il piacere di una erudizione antiquaria.
Il panorama culturale di Plutarco è politicamente sicuro, del tutto alieno da tendenze ribellistiche. Moderato egli appare in ogni suo atteggiamento: profondamente pio ma avverso alla superstizione; dotto filosofo ma opportunamente vòlto alla filosofia pratica verificata nei comportamenti di ogni giorno; preoccupato della salute dell’anima ma anche di quella del corpo; teorico della politica ma soprattutto amico dei romani potenti; custode d’identità greca ma, ripeto, intento a discutere soprattutto la Grecia del passato. Plutarco è capace di scrivere discussioni ispirate sulla «democrazia», riferite a Clistene, Solone o Pericle, ossia a situazioni remote di mezzo millennio, e di farlo in un tempo in cui le città greche erano rette dalla élite dei notabili, e l’impero era guidato dal governo di uno solo.
Non è divisivo Plutarco, non suscita conflitti: come certi saggisti che portano grisaglie di buona fattura, senza tempo, persone che esibiscono un eloquio forbito e buone letture di tradizione. Perciò li si legge o li si ascolta con piacere: hanno un rassicurante sapore di cultura, che con buona volontà si può anche trovare attuale. Sono gradevoli perché non impegnativi: non ambiscono aprire nuovi mondi, ma insegnano a abitare con stile e dignità d’altri tempi nei mondi che già ci sono.
Le priorità di Plutarco non sono sempre le nostre: nelle simpatiche Questioni conviviali si leggono temi talora bislacchi (l’innesto nei pini, la maniera di dividere le porzioni a tavola, la posizione dell’alfa nella sequenza delle lettere, e così via). C’è un saggio sul problema della scarsa produzione di oracoli in versi da parte della Pizia: tema marginale già al tempo dell’autore.
Il quale fu personalmente molto devoto, e ebbe grande interesse per il divino, in ogni forma. Dedicò la sua dotta attenzione ai culti di Iside e Osiride, ellenizzandoli e platonizzandoli secondo la sua maniera, e seppe qualcosa anche sul «dio dei Giudei»; ma non pare aver registrato la comparsa del cristianesimo, a differenza dai più accorti intellettuali del suo tempo.
Certo, in compenso Plutarco sapeva stendere pagine ricche di common sense sui rischi derivanti dalla cerimoniosità che impedisce di dire di no; poteva disquisire sul controllo dell’ira senza esibire le nervose agudezas di un Seneca; aveva meditato bene il suo amatissimo Platone; poteva comporre ampie dossografie sulle dottrine più importanti delle scuole filosofiche greche (utili oggi, dopo la perdita degli originali); aveva certe sue idee sulla ‘buona’ politica, e arrivava persino a scrivere frasi forti come questa: «il regime politico che sistematicamente scarica i vecchi, finisce inevitabilmente per riempirsi di giovani assetati di fama e di potere, ma digiuni d’intelligenza politica: e dove l’acquisiranno del resto, se non potranno farsi discepoli o spettatori d’un vecchio che governa?». Tranquilli. Parlava in astratto. Non alludeva ai Renzi-boys.
Il Manifesto – Alias -19 novembre 2017
↧
Svelato il Grassopensiero: uguali si, ma qui comando io e soprattutto siamo amaranto e non rossi.
Una volta a sinistra prevaleva il “noi”, il sentirsi parte di una collettività. Oggi anche lì prevale l'io in un affollarsi di improbabili salvatori della patria. Ultimo, il signor Grasso che ci tiene a distinguere “amaranto” da “rosso” e a far sapere che lui è sempre stato un capo e che dunque a sinistra comanderà lui. Insomma, va bene “liberi e uguali”, ma non allarghiamoci troppo: qualcuno è più “uguale” degli altri. Tra Grillo, Renzi, Berlusconi, Salvini e Grasso più che una campagna elettorale sembra una gara fra comici a chi riesce a far più ridere gli italiani.
Liberi e uguali il leader mostra il simbolo
Grasso: non chiuderò al Pd dopo il voto. D’Alema? Sarò io a guidare, lo faccio da una vita
Il nuovo simbolo, con il suo nome. L’auspicio che la presidente della Camera Laura Boldrini si unisca a Liberi e uguali. E un’apertura per un accordo con il Pd dopo il voto. Pietro Grasso si presenta in tv, da Fabio Fazio, per la prima volta come leader della neonata formazione di sinistra. Il presidente del Senato spiega le ragioni del suo debutto in politica e risponde alle domande in diretta di Fazio.
L’addio al Pd è stato causato, dice, «dal cambiamento delle politiche su scuola, lavoro e sanità. Questo mi ha creato un problema interiore e l’impossibilità di restare». Poi sono arrivati «tre ragazzi quarantenni che mi hanno proposto un percorso politico». Li cita in ordine alfabetico: Civati, Fratoianni e Speranza. Dopo un periodo di riflessione, spiega Grasso, «ho pensato al disagio sociale di tanti, ai 18 milioni di persone a rischio povertà. È stata una scelta di vita, come quando ho accettato il maxiprocesso contro la mafia. La mia aspettativa era fare il nonno, ma ho pensato anche ai nipoti degli altri».
Grasso è appena passato dal grafico e mostra il simbolo. Rosso, naturalmente, anche se preferisce dire «amaranto»: «Colore che per gli antichi romani significava protezione». Le parole Liberi e uguali, «unite da tre foglioline, che danno un’idea dell’ambiente», ma sono anche la declinazione di Liberi al femminile.
Grasso respinge l’insinuazione che a comandare sarà D’Alema: «È una vita che guido e coordino. Ascolterò, ma quando sarà il momento, eserciterò il potere. Se ne accorgeranno». Dopo il fallimento di Pisapia, Grasso non riproverà a ricucire: «Se non ci è riuscito lui, non vedo perché dovrei tentare io. Dopo il voto si potrà vedere. C’è il sistema proporzionale, ognuno prende i suoi voti. Noi proveremo a prenderne qualcuno in uscita dal Pd e costruiremo un tesoretto che magari sarà utile». Il neo leader spiega: «Non voglio guidare una ridotta, penso di allargarmi ben oltre la sinistra».
Il nome del generale Gallitelli, fatto da Silvio Berlusconi, non lo spaventa: «Si vede che ha capito che bisogna avere fiducia nelle istituzioni». E alla battuta di Renzi sulla brutta fine fatta dai suoi predecessori Pivetti e Fini, risponde così: «Io manterrò uno stile e non faremo attacchi scriteriati. Ma se mi provoca dico che io guardo al futuro. Forse la sua fase zen è finita e ha una prospettiva non molto rosea, per questo dà stilettate».
Intanto il ministro Andrea Orlando, intervistato da Giovanni Minoli su La7, attacca Renzi: «Il Pd non diventi il suo partito». E Gianni Cuperlo fa sapere di non avere intenzione di fare «una campagna fratricida contro la sinistra».
Il Corriere della sera – 11 dicembre 2017
↧
↧
12 dicembre. Ricordo di Giuseppe Pinelli, vittima innocente di una strage di Stato
Il 12 dicembre 1969 a Milano una bomba neofascista faceva 17 morti, era l'inizio della strategia del terrore mirante a destabilizzare l'Italia per stabilizzare il potere DC. Il 15 dicembre Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, moriva nei locali della Questura di Milano dove era detenuto illegalmente da tre giorni. Oggi, anniversario di quella strage, che ci cambiò la vita, proponiamo il libro più bello scritto sulla stagione più intensa, nel bene e nel male, vissuta dall'Italia repubblicana.
Gianfranco Bettin
La notte che l’Italia
Che cosa pensi che sia successo, quella notte, al quarto piano della Questura?, chiede infine l’immaginaria ragazza di vent’anni alla quale Adriano Sofri si rivolge per raccontare la vicenda di Pino Pinelli. Non lo so, risponde Sofri, chiudendo il libro.
Sembra una chiusa desolante, impotente. Ma, opposta e speculare, è invece una risposta della stessa natura di quella data da Pier Paolo Pasolini sulle responsabilità dei crimini che hanno resa buia la storia dell’Italia repubblicana: “Io so. Io so i nomi… ma non ho le prove”.
“La notte che Pinelli” (Sellerio) è forse il libro più bello scritto sugli anni delle trame e delle stragi nere e di stato. Sofri racconta immaginando di parlare, appunto, a una ragazza d’oggi, e ci mette di fronte agli indizi, alle prove, alle ipotesi, alle suggestioni che, in realtà, possono condurci a un giudizio chiaro sia sullo specifico episodio – Pinelli che cade dalla finestra della Questura milanese – sia sulla trama generale incentrata sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico di 41 anni, fermato lo stesso pomeriggio della strage perché sospettato di saperne qualcosa, ma del tutto innocente, dopo giorni di interrogatori precipiterà alla mezzanotte tra il 15 e il 16 dicembre. Dalla Questura si dirà subito che il suo è stato un suicidio, commesso perché si era convinto che a mettere le bombe del 12 dicembre fossero stati i suoi compagni, in particolare Pietro Valpreda. È tutta una montatura, naturalmente, che verrà poi smascherata, anche se sul piano giudiziario nessuno verrà mai condannato per aver provocato o comunque agevolato la morte di Pinelli (e neanche per la strage di piazza Fontana).
Il mistero intorno a cui ruota il libro è tutto qui: perché Pinelli è volato giù da quella finestra? è, però, un mistero che sta dentro un mistero più grande: perché ci sono state le stragi in Italia, perché piazza Fontana e perché le altre? Chi ne è responsabile? E perché, mistero più misterioso ancora, nessuno ha pagato? Sul piano giudiziario, a quasi tutte queste domande si può rispondere come Sofri: “Non lo so”.
La targa degli antifascisti
Sul piano politico, e morale, e anche sul piano letterario – che non significa affatto “astratto”, o “velleitario”, “inconsistente” – si può dire invece “Io so”. Si può dirlo con Pasolini ma anche con l’Adriano Sofri di questo libro bellissimo e tragico, la cui chiusa “in negativo” contiene lo stesso pathos conoscitivo e la stessa intuizione poetico-politica della sicura affermazione pasoliniana.
Oltre al nitore della scrittura, che rende agevole seguirne l’ostico percorso tra atti giudiziari e chiacchiere depistanti, tra resoconti e verbali e perizie, oltre al rigore della ricostruzione storica, del libro si può apprezzare in particolare la sincerità, la volontà di riconoscere senza pregiudizi ragioni e torti, motivazioni e argomenti di ognuno dei protagonisti.
Non, ovviamente, restando “super partes”. Non è certo possibile in una vicenda del genere, tanto meno a uno come Sofri che in quegli anni c’era, eccome, e che dentro questa vicenda è stato poi riscaraventato molti anni dopo dall’“affaire Marino” e dall’incredibile vicenda giudiziaria del “caso Calabresi” (vissuta tuttavia con una libertà intellettuale e morale inversamente proporzionale alle concrete restrizioni inflittegli). Sulla sua vicenda personale, che è in realtà una vicenda corale, Sofri ribadisce qui la radicale critica di parole e gesti di quegli anni, a cominciare da ciò di cui si sente più diretto responsabile (“La campagna condotta da ‘Lotta Continua’ contro Calabresi tra il 1970 e il 1972 fu un linciaggio moralmente responsabile, benché nient’affatto penalmente, della morte di Calabresi”).
Allo stesso modo rivendica orgogliosamente le cose giuste di allora e non rinuncia a scavare nei torti del potere, a contrastarne l’oblio (così “inattuale”, questo libro è proprio perciò, senza che ci sia stata giustizia per Pinelli, il più attuale dei libri), a combatterne la minimizzazione (come nel tentativo di ridurre la strage di piazza Fontana a un errore commesso nel tentativo di compiere solo un attentato dimostrativo: Sofri controbatte a questa tesi, condividendo gli argomenti di studiosi come Giorgio Boatti, autore del fondamentale “Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta”, Einaudi, da leggere almeno insieme al libro di Luciano Lanza, “Bombe e segreti. Piazza Fontana: una strage senza colpevoli”, che contiene una lunga intervista al pm Guido Salvini, edizioni elèuthera).
Il libro di Sofri è anche un omaggio a Pino Pinelli (e a Licia, la moglie, che ne ha difeso con dignità e coraggio la memoria), la cui figura risalta qui ingrandita non tanto dal tempo, che invece minaccia di cancellarne perfino il ricordo, bensì dalla viva restituzione del suo ritratto, della sua vita quotidiana, tra lavoro e militanza e famiglia, e delle sue parole, a rammentarci che abbiamo anche il dovere di non lasciare all’oblio o, peggio, alla diffamazione la storia delle persone giuste (e Pinelli lo era).
Tra l’altro, Sofri ne pubblica una lettera, scritta proprio nel pomeriggio del 12 dicembre, ancora ignaro della strage e poco prima del suo fermo. La scrive a un giovane anarchico in carcere a San Vittore perché ingiustamente accusato di essere coinvolto in alcuni attentati (commessi sempre dai medesimi registi ed esecutori della trama che porterà a piazza Fontana). è un bel documento della tempra morale, della personalità limpida di Pinelli, che afferma tra l’altro che “l’anarchismo non è violenza, la rigettiamo”, l’anarchia è “ragionamento e responsabilità”.
Infine, questo è un libro sull’Italia, e non solo di quegli anni. “Forse l’Italia non sarà mai un paese normale. Forse è il paese in cui tutto diventa normale. Si telefonava al centralino della Camera dei Deputati e si diceva: ‘Le Stragi, per favore’, e quello rispondeva: ‘Resti in linea, prego’, e ti passava la Commissione Stragi”: l’incipit chiarisce già il quadro in cui si pone “La notte che Pinelli”.
La targa del Comune di Milano.
È la notte che l’Italia, in effetti. L’intrigo, l’arroganza, la meschinità, la sciatteria, il crimine, l’orrore perfino in cui si perde – si nasconde, e si rivela – la verità su Pinelli e sulle stragi è davvero tipica di una certa Italia, del potere, del sottopotere, delle subculture, delle antropologie e delle psicologie, che vi regnano o vi prosperano da tempo immemorabile.
Sofri ne dà conto, a volte in rapidi schizzi, in ritratti illuminanti, e in molte pagine che convincono e indignano, che rendono desolati e furibondi, che a volte fanno ridere e altre volte venir voglia di andarsene. Si pensa al povero Pinelli e ci si dispera per lui, e con lui, chiuso in quelle stanze affumicate, da sottoposti di quel potere che appaiono insieme volgarmente kafkiani e beceramente machiavellici. Si pensa, scorati, che, in quelle mani e alla mercè di quelle teste, non poteva che andare così. Senza verità e senza giustizia. E che a ogni domanda non si può che rispondere “Non lo so”, appunto. Non possiamo, non si potrà sapere.
Siccome, però, possiamo invece dire anche noi “Io so” e portare questa speciale conoscenza in quella storia buia, portarla come una chiaroveggenza, un sesto senso (prodotto, tuttavia, dalla tensione alla verità di tutti gli altri cinque: Pasolini diceva di poter dire “Io so” perché si reputava “un intellettuale, uno scrittore, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”), per questo, non possiamo non vedere, grazie anche a pagine come queste di Sofri, che la verità è sotto i nostri occhi. Non c’è solo oscurità, nella notte italiana.
http://lostraniero.net/la-notte-che-litalia/
↧
12 dicembre 1969: la strage è di Stato
Il 12 dicembre 1969 ci cambiò la vita. Come ha scritto qualcuno “perdemmo l'innocenza”. Capimmo che per fermare le lotte operaie e studentesche il sistema non si sarebbe fermato davanti a niente utilizzando ogni mezzo, compresi gli apparati dello Stato “democratico”. Da quel giorno tutto sarebbe stato diverso, perché erano cambiati i nostri occhi. Come scrisse Pasolini “noi sapevamo”. E non abbiamo dimenticato.
Luciano Lanza
La strage? Di Stato
La situazione che si è creata a partire dal 1968 preoccupa larghe fasce di imprenditori e ceti medi. La contestazione studentesca prima e le agitazioni operaie poi hanno aumentato la psicosi del «pericolo rosso». I sindacati tradizionali da molti mesi non riescono a mantenere nell’ambito del consueto rivendicazionismo le lotte dei loro iscritti. Tanto che il 3 luglio 1969 lo sciopero generale per chiedere il blocco degli affitti vede gli operai della FIAT Mirafiori di Torino scandire uno slogan ironico, ma che suona minaccioso per la classe dirigente: «Che cosa vogliamo? Tutto». E quello slogan ha una fortuna immediata. Presto nei cortei operai risuonerà con sempre maggiore insistenza. E infatti il 1969 conta 300 mila ore di sciopero contro una media, in quegli anni, di 116 mila. Il costo del lavoro cresce del 15,8% (19,8% nell’industria), per cui la quota dei salari sul prodotto interno lordo sale dal 56,7% al 59%. È iniziata una sensibile redistribuzione dei redditi. Una minaccia per le classi sociali privilegiate e per quelle che solo pochi anni prima sono state beneficiate dal «miracolo economico».
Insomma una situazione apparentemente pre-rivoluzionaria. Anche se la rivoluzione sperata e sognata dalla maggioranza degli studenti e da una frangia di operai non solo è lontana: è praticamente impossibile. Ma che importa? Molti credono sinceramente che sia alle porte, e molti, molti di più, temono che sia vero.
Anche se i portatori di un progetto di trasformazione radicale della società sono un’infima minoranza rispetto alla popolazione complessiva, l’asse politico del Paese si sta spostando a sinistra. Il Partito comunista, pur criticato aspramente dalle frange estremiste, si prepara a conquistare nuovi spazi. Colti impreparati dalle manifestazioni studentesche dell’inizio 1968, i dirigenti di via Botteghe oscure cercano rapidamente di recuperare il terreno perduto. Soprattutto nel luogo della politica istituzionale: il parlamento. Tanto che il 28 aprile 1969 dovrebbe iniziare la discussione per il disarmo della polizia. L’agente italiano come un «bobby» inglese. Ci pensano le bombe a Milano del 25 aprile a mandare nella soffitta delle utopie quel progetto. È cominciata la strategia della tensione. Questa fase è il perfezionamento e la sintesi di quanto dalla metà degli anni Sessanta andavano teorizzando e praticando gli esponenti dell’estrema destra collegati a larghi settori delle forze armate. Nazisti e fascisti italiani vogliono estirpare alla radice il «morbo comunista», assecondati, seguiti e, in definitiva, diretti dai servizi segreti italiani e americani. In Italia la CIA (Central Intelligence Agency) opera con successo dal dopoguerra.(...)
La CIA ha un grande nemico: il comunismo. Così come il KGB combatte con ogni mezzo il capitalismo. Ma se nel Terzo mondo i due organismi si combattono quasi ad armi pari, con prevalenza del KGB, nell’area occidentale la CIA non tollera intrusioni. Tanto che nel 1967 risolve brillantemente la crisi in Grecia installando al potere, con un colpo di Stato, un suo uomo: Georgios Papadopoulos. E da quel momento il «partito del golpe» anche in Europa è egemone all’Agency. E lo sarà fino alla metà degli anni Settanta.
Dopo la Grecia, è la volta dell’Italia. E nel SID, americano-dipendente, ovviamente prevale il partito golpista. Dal 1966 (cioè dall’anno dell’entrata in funzione) alla guida del SID c’è l’ammiraglio Eugenio Henke, mentre l’ufficio D viene diretto da quel Federico Gasca Queirazza che, nel 1969, riceve le informative dell’agente Guido Giannettini su quanto stanno preparando i nazisti veneti Franco Freda, Giovanni Ventura e Delfo Zorzi. Gasca Queirazza comunica quanto sa al suo superiore Henke, che riferisce al ministro dell’Interno, Franco Restivo. E Restivo non dice nulla al suo compagno di partito e presidente del consiglio, Mariano Rumor? Difficile crederlo. Anche perché le continue e incredibili amnesie di cui soffrirà Rumor al primo processo di Catanzaro suscitano ilarità, nonostante il contesto sia drammatico.
Quando nel 1970 Vito Miceli prende il posto di Henke, il partito golpista non è più solo coordinatore degli attentati fatti dall’estrema destra; scende in campo come diretto organizzatore. Il tentativo di Junio Valerio Borghese si inserisce in questa nuova dinamica. Miceli verrà anche processato per questo, ma come al solito senza alcun risultato. Quando agiscono durante la notte del 7 dicembre, gli uomini di Borghese non sono pensionati nostalgici. Hanno coperture e aiuti consistenti. Il ministro della Difesa, Tanassi, viene informato direttamente da Miceli di quanto sta accadendo. Stessa procedura con il capo di stato maggiore Enzo Marchesi. E Restivo sa tutto ancora prima che i congiurati occupino per alcune ore una parte del suo ministero. Restivo, interrogato in parlamento il 18 marzo 1971, cioè quando la notizia è ormai trapelata, nega tutto. Ovvio. La storia del golpe in Italia è una storia infinita. Come quella di piazza Fontana. Una storia che si ripete nell’aprile del 1973 con la Rosa dei venti. Che vede il coinvolgimento di personaggi ancora più seri e preparati di Borghese: cioè gente come il colonnello Amos Spiazzi (peraltro già presente anche il 7 dicembre 1970). Anche lui assolto.
Chi sovrintende a questo moltiplicarsi di attentati e di preparativi di golpe è un distinto ingegnere, Hung Fendwich, che ha la sua base a Roma in via Tiburtina. Ma non è un luogo segreto come molti potrebbero pensare. No, è l’ufficio dove lavora, cioè la Selenia, società del gruppo STET (IRI). Fendwich, che lascia l’Italia dopo il golpe Borghese, è la tipica eminenza grigia: studia, perfeziona piani, elabora analisi sulle situazioni socio-economico-politiche. Il lavoro operativo, quello che in gergo si chiama «lavoro sporco», lo compiono personaggi di levatura più modesta. Agenti di stanza alla base FTASE (il comando NATO di Verona dal 1969 al 1974). Oppure il capitano Theodore Richard della base di Vicenza. Sono questi gli uomini a cui fa capo Sergio Minetto, capostruttura degli informatori italiani della CIA. Cioè l’uomo a cui risponde Carlo Digilio, infiltrato nel gruppo di Ordine nuovo di Venezia. Un infiltrato operativo: prepara gli esplosivi e addestra Delfo Zorzi e Giovanni Ventura. Dove? Nella santabarbara del gruppo: il casolare in località Paese, vicino a Treviso.
Gli attentati che costellano l’Italia dal 1969 fino alla metà degli anni Settanta (ma continueranno ancora) sono considerati propedeutici al colpo di Stato. E se questo non viene attuato, ma sempre ventilato, ha comunque una funzione precisa: mandare segnali forti, minacciosi alle forze di opposizione, cioè al Partito comunista. Un segnale che viene recepito. Non è un caso che, dopo il golpe in Cile nel settembre 1973 (che porta a 47 i regimi militari nel mondo), il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, lanci dalle colonne della rivista «Rinascita» la proposta del «compromesso storico», cioè un accordo governativo tra DC, PCI e PSI. Ma ci vorranno ventitré anni prima che il PDS, erede del PCI, vada al governo con una coalizione di centrosinistra.
Le bombe quindi cristallizzano la situazione politica istituzionale, ma come reazione a sinistra generano il fenomeno della lotta armata. Sono i continui attentati e il pericolo del golpe che, tra l’altro, fanno scendere in clandestinità molti militanti extraparlamentari, ma anche personaggi come l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Tutto creerà un circuito perverso che, in una certa misura, giustificherà, a posteriori, la teoria degli «opposti estremismi», da cui ci si può salvare solo dando fiducia a chi detiene in quel momento il potere. Cioè gli uomini che avallano e coprono quanto stanno facendo l’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e il SID, sotto la direzione della CIA.
I ministri danno le direttive. I servizi segreti eseguono. E ci mettono in più un po’ di loro iniziativa. Quindi non è un caso che nel 1974, quando gli uomini del SID portano a Giulio Andreotti, ministro della Difesa (nel quinto governo Rumor), le registrazioni fatte dal capitano Antonio Labruna con l’industriale Remo Orlandini, coinvolto nel golpe Borghese, Andreotti consigli di «sfrondare il malloppo». Traduzione: depurare i nastri dai nomi più importanti, cioè i vertici delle forze armate inseriti a vario titolo nel mancato golpe.
È un comportamento analogo a quello tenuto dal suo predecessore Mario Tanassi (alla Difesa nel quarto governo Rumor). Nell’estate 1974 il giudice Giovanni Tamburino chiede informazioni al SID sull’attività filogolpista del generale Ugo Ricci: lo ritiene uno dei responsabili della Rosa dei venti. Il SID, che sa perfettamente cosa fa Ricci, risponde: il generale è uomo di sicura fede democratica. Ma prima di mandare questa lettera, il capo del SID invia la richiesta del giudice a Tanassi che la restituisce con l’annotazione: «Dire sempre il meno possibile».
La pratica del silenzio e della menzogna si tramanda negli anni. È il 13 ottobre 1985 quando il settimanale «Panorama» pubblica stralci di un documento di Bettino Craxi, presidente del consiglio, che invita gli uomini dei servizi segreti a «mantenere una linea di mancata collaborazione» con i giudici che li interrogano. Craxi non negherà mai l’autenticità del rapporto. E come potrebbe? Ma farà pressioni sui giudici affinché lo ignorino. Dunque i politici sapevano tutto delle trame dei servizi segreti. Spesso ne erano gli ispiratori. Sapevano che venivano utilizzati i fascisti per creare la strategia della tensione. Erano corresponsabili o direttamente promotori come Restivo.
Un affare di Stato sta, dunque, dietro le bombe del 12 dicembre. Un affare di personaggi che scelgono il terrorismo per perpetuarsi nella gestione del potere.
«Il 12 dicembre 1969 segna una frattura, nella storia della repubblica [...] perché effettivamente, allora, insieme a sedici persone comuni, morì un pezzo significativo della prima repubblica: una parte consistente dell’apparato statale passò consapevolmente nell’illegalità. Si pose come potere criminale continuando a occupare istituzioni vitali ed essendone tollerato (sono migliaia i ‘servitori dello Stato’, poliziotti, giudici, agenti segreti, politici, cancellieri, ministri, passacarte e uomini di mano che hanno cooperato per realizzare e poi coprire, depistare, insabbiare, rendere impunibile quel delitto). È da allora che l’Italia ha cessato di essere una democrazia costituzionale in senso pieno», scrive il politologo Marco Revelli nel suo libro Le due destre.
L’analisi politica è confortata e documentata dalle indagini del giudice Guido Salvini: «La protezione dei componenti della cellula veneta [...] era un’attività assolutamente necessaria in quanto il cedimento anche di uno solo degli imputati avrebbe portato gli inquirenti, livello dopo livello, a risalire fino alle più alte responsabilità che avevano reso possibile l’operazione del 12 dicembre e le ripercussioni che ne sarebbero derivate sarebbero state forse addirittura incompatibili
con il mantenimento dello statu quo politico del Paese».
Un coinvolgimento così esteso alimenta anche un dubbio. Quanto sapeva della strage di piazza Fontana il principale partito d’opposizione: il PCI, oggi DS? Molto, certamente. Ma quanto? E fino a che punto la paura delle bombe e del colpo di Stato hanno ammorbidito le posizioni del PCI? Fino
a che punto questa paura ha portato a proporre il compromesso storico e ad accettare poi il consociativismo? La risposta è solo negli archivi dell’ex PCI, impenetrabili come quelli del Vaticano.
Una risposta è però possibile. Una risposta che, viste le responsabilità a tutti i più alti livelli, può essere una sola: piazza Fontana è una strage di Stato. Di più: la madre di tutte le stragi.
(Da: Luciano Lanza, Bombe e segreti, Eleuthera,2005, pp. 127-133)
↧
Il pretesto della pazzia. Le donne nei manicomi nell'Italia del Novecento
Fino agli anni Settanta le donne ribelli o vittime di violenza erano spesso rinchiuse in manicomio. Un saggio di Annacarla Valeriano (Donzelli) sull’uso degli ospedali psichiatrici come strumento per colpire i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi.Una pratica intensificata sotto il fascismo ma proseguita anche nel dopoguerra.
Paolo Mieli
Il pretesto della pazzia
Un lavoro straordinario, quello portato a compimento da Annacarla Valeriano, che ha passato in esame le cartelle cliniche delle ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950, per definire un «percorso dell’esclusione» assai particolare. Esclusione che «tende a essere interpretata spesso come una condizione ineluttabile toccata in sorte ai più deboli, ai più disperati, la naturale conseguenza di stili di vita condotti fuori dagli schemi». E che proprio per questo «appare» come un «oggetto» opaco, «confinata ai margini di società in continua trasformazione o racchiusa tra le mura di un luogo deputato a gestirla, fino a farne perdere le tracce».
Un «percorso» che inizia, ovviamente, ben prima della marcia su Roma, ma che — come vedremo — trova il suo culmine ideologico proprio nel ventennio mussoliniano. Ne è venuto fuori un libro prezioso, Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli), che, è prevedibile, verrà discusso con grande interesse.
In principio — come ha raccontato David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza) — fu la legge del 1904, imperniata sul concetto del malato di mente come persona pericolosa e «non più adeguata all’evoluzione sociale dei tempi» che dovrà essere iscritta nel casellario giudiziario come da imposizione dell’articolo 604 del Codice di procedura penale. Un’importante questione sarà in tempi immediatamente successivi quella della «cornice eugenetica» all’interno della quale, già nel corso della Prima guerra mondiale, andrà collocato il trattamento delle donne (ma non solo) negli ospedali di cura delle malattie mentali.
Il punto di riferimento era, però, precedente all’esplosione del conflitto, per la precisione il primo Congresso internazionale di eugenica tenuto a Londra nel 1912, i cui risultati erano stati immediatamente recepiti e portati nel nostro Paese dal Comitato italiano per gli studi di eugenica, nato nel 1913 proprio per «studiare i fattori che possono determinare il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico».
Ma, avverte Valeriano, l’eugenica italiana — a differenza di quel che si potrebbe credere — non era affatto in sintonia con quelle dell’Europa settentrionale: la prevenzione, l’igiene, il recupero morale delimitarono i confini del discorso scientifico in Italia e consentirono al nostro Paese di non sfociare nelle «esagerazioni» tedesche. Poi venne la Grande guerra.
Le donne ricoverate in frenocomio tra il 1915 e il 1918 — «con patologie che sembravano avere un collegamento diretto con i traumi bellici» — «furono probabilmente inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, sulla quale era bene adottare delle misure di risanamento».
Se si guarda alle cartelle cliniche, «è facile accorgersi di come ad essere medicalizzata fosse stata la sfera dei sentimenti»: «emotività, paura, rifiuto, quando non incanalati», erano deviati in «un indicibile tormento», con «manifestazioni a colorito depressivo che avevano perlopiù congelato le pazienti in stato di torpore e apatia». In questa dimensione sospesa «tutto il mondo si era annullato ed era rimasta in piedi solo la violenza del trauma vissuto».
L’immobilità, l’incapacità di assolvere i ruoli, di accudire i figli e di «far continuare la vita» — come scrive Anna Bravo in Donne e uomini nelle guerre mondiali (Laterza) — il non essere più le stesse persone che gli uomini avevano lasciato a casa nel giorno dell’arruolamento, animano i documenti che fotografano «un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediabilmente compromesso nelle sue consuetudini». Bombardamenti, «ansie, attese, paure, fame erano divenuti orizzonti familiari nella quotidianità delle donne e non tutte riuscirono a uscirne indenni». Quantomeno negli equilibri psichici.
I «deliri di perdizione e di rovina» erano «una manifestazione tipica dell’angoscia indotta dalla guerra». Attraverso la negazione del proprio corpo, della propria personalità, del proprio essere nel mondo aveva trovato espressione la sensazione di essere state tagliate fuori da un universo di valori e di abitudini al quale non si sarebbe più fatto ritorno.
In Italia il cosiddetto «grande internamento manicomiale», scrive Valeriano, può essere individuato in un periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ed è nel corso di questi decenni che viene edificato un consistente numero di manicomi su tutto il territorio nazionale. Questo periodo coincide con la nascita di un Paese moderno «così come siamo abituati a pensarlo oggi». Un «Paese moderno» nel quale, accanto alle campagne, cominciavano a svilupparsi grandi agglomerati urbani capaci di accogliere famiglie sempre più numerose, in cui compaiono «infrastrutture potenziate» anche dal sistema manicomiale, concepito per «assistere la follia», ma usato «soprattutto per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità, attraverso la presa in carico della pericolosità sociale e del pubblico scandalo».
Questo aspetto «già dispiegato all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustisce negli anni del fascismo quando, con la stretta repressiva attuata dal regime, si ampliano i contorni che circoscrivono i concetti di marginalità e devianze». I manicomi, di riflesso, accentuano la loro dimensione di controllo, affiancandosi allo Stato per contribuire a plasmare «uomini e donne chiamati ad assolvere una serie di compiti che rispecchiano il clima dei “tempi nuovi” e a mettere le proprie vite al servizio della “rivoluzione fascista”».
È in questa fase storica che in manicomio finisce la «malacarne» che, «nella sua destinazione di genere», è composta da «quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguatezza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato».
Attorno a queste «anomalie della femminilità», ridotte dallo sguardo psichiatrico a semplici «corpi» che «non eseguono più i loro doveri e che si dimostrano incapaci di qualsiasi freno», il regime mussoliniano «intreccia discorsi diversi, attingendo in larga parte alle costruzioni culturali di matrice positivista intessute per conferire un’identità a quelle frange marginali che sono in antitesi con la parte sana della società».
Dalla consultazione della documentazione medica e della pubblicistica di regime «balza però agli occhi come i “discorsi” sulle donne diverse non siano una novità introdotta dal fascismo ma siano stati, semmai, ideologicamente utilizzati nel corso del Ventennio per delimitare la devianza femminile e contrapporre ad essa un’immagine pubblica di femminilità disposta ad assolvere compiti e doveri nell’interesse comune».
Si tratta «di un’operazione di reinvenzione delle identità femminili». Attuata dal regime «con la volontà esplicita di inserire anche le donne in un più ampio progetto di educazione spirituale e morale, al fine di trasformarle in cellule organicamente produttive, soggetti capaci di interagire armonicamente con l’apparato statale, fondendosi in esso come ingranaggi perfettamente sincronizzati».
L’ospedale per «malati di mente», in uno scenario di questo tipo, «oltre a controllare e custodire l’anormalità, diventa», scrive Valeriano, «uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglianza che annulla i diritti individuali in nome dell’ordine pubblico». All’istituzione psichiatrica vengono consegnate «quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita».
Lo stesso richiamo alla «normalità biologica» diventa essenziale all’interno della politica sanitaria che, già a partire dal 1927, si incardina sui temi della «difesa» e della «cura della razza» e si impegna per la «realizzazione di obiettivi di politica demografica attraverso l’allontanamento dalla società di coloro che, tarati sotto il profilo somatico e morale, non possono trovare altro spazio di accoglienza se non in luoghi — come i manicomi — deputati al trattamento dei comportamenti più turbolenti e al risanamento degli istinti deviati».
In questo sistema assistenziale, «riprogrammato sugli obiettivi di politica demografica», i manicomi «conoscono uno sviluppo sostanziale e registrano per tutto il Ventennio un aumento costante dei ricoverati, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa sessantamila a quasi novantacinquemila unità».
Tra le loro mura vengono rinchiuse «le madri inadeguate — che hanno ricusato un ruolo materno vissuto come costrittivo — oppure le ragazze ribelli, colpevoli di non saper controllare pulsioni sessuali, caratteri indomiti, e assimilate, in diversi casi, a vecchie figure patologiche come le isteriche di Charcot»; ma anche donne che oggi tutti sarebbero naturalmente portati a «tutelare», come «le vittime di violenza carnale o dei traumi di guerra».
Poi il fascismo cadde, ma il secondo dopoguerra fu, per la «malacarne», ugualmente terribile. Annacarla Valeriano riporta alla luce diversi casi inquietanti. Quello della giovane ricoverata dopo essersi ribellata allo zio e alla madre, con i quali aveva avuto dissidi e «litigi continui», finché il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado».
La presa di coscienza avvenne solo negli anni Sessanta. Dapprima con un libro di Lieta Harrison, Le svergognate (Edizioni di Novissima). Poi con una serie di articoli di Angelo Del Boca, successivamente raccolti nel volume Manicomi come lager (Edizioni dell’Albero). In quegli stessi anni Sessanta il ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, inizia una campagna di denuncia degli ospedali psichiatrici, divenuti, a suo dire, vere e proprie «bolge dantesche».
È incredibile, ma ancora cinquant’anni fa — come documenta ampiamente Pier Maria Furlan in Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia (Donzelli) — i manicomi erano affollati da donne «sane trattate come pazze solo per punizione». Donne rinchiuse perché avevano palesato un «temperamento ostinato e ribelle», compiendo «fughe frequenti e immotivate da casa», cercando la compagnia di «uomini di qualunque ceto e condizione».
In alcuni casi erano accusate di essersi rese protagoniste di litigi «con la portiera e i vicini di casa». In altri di aver condotto «vita irregolare con spiccate tendenze erotiche e rifiuto di qualsiasi ordine o minima regola di vita». Talvolta di aver «tralasciato le preoccupazioni per la famiglia» e qualcuna di aver preferito spendere «sconsideratamente il denaro che il marito le affidava». Oppure di aver esibito, a detta dei parenti più stretti, un «comportamento inadeguato» e «abnorme in campo sessuale».
Qualcuna, anziché dedicarsi alle «faccende», aveva cominciato a «uscire molto spesso e a dimenticare l’ora del rientro a casa». Suo padre raccontava di aver fatto tutto il possibile «per frenarla, ma lei non voleva sentire niente, né consigli, né minacce». Per giunta aveva gettato l’ombra del disonore sulla famiglia «perché la si vedeva spesso coi giovanotti». Un’altra era stata considerata affetta da «disturbi sotto forma di intolleranza alla disciplina familiare» che la portavano a compiere «conquiste amorose, fughe da casa».
Un’altra ancora era ripetutamente fuggita dalla famiglia e — a detta dei suoi parenti — aveva preso l’abitudine a «sperperare il proprio denaro regalandolo e facendo acquisti non necessari» (ma i medici avevano accertato che questa «alterazione psichica» si era manifestata dopo che era stata «ripetutamente percossa alla testa con un bastone dal proprio marito, riportando contusioni multiple al capo»).
In qualche caso, dopo che il medico di famiglia aveva diagnosticato «isterismo di alto grado», gli psichiatri, avendo tenuto la paziente in osservazione per oltre un mese, l’avevano considerata «rassegnata per la sua sorte tragica», ma «perfettamente orientata e cosciente» e l’avevano restituita alla famiglia (uno zio che la maltrattava), specificando che non riconoscevano in lei «alcuna malattia mentale».
Questo genere di medici più scrupolosi erano, però, un’eccezione. Quasi sempre la diagnosi di «comportamento quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale» (o cose del genere) era sufficiente per rinchiudere molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro «per unirsi con i capelloni» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».
Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamente fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibile.
Il Corriere della sera - 12 dicembre 2017
↧