Quantcast
Channel: Vento largo
Viewing all 3488 articles
Browse latest View live

"Vedrai mirabilia". Un libro di magia del Quattrocento

$
0
0

«Vedrai mirabilia», un antico manuale anonimo del Quattrocento per operazioni di magia bianca e nera, è occasione di una riconsiderazione del ruolo della magia rituale negli ambienti intellettuali dell'Italia prerinascimentale.

Marina Montesano

Un manuale per negromanti

Nei primi secoli dell’età medievale, la tradizione della magia colta, tipica del mondo ellenistico e strettamente collegata con la gnosi, era nota soltanto attraverso gli scritti di Tertulliano e di Agostino, ripresi nel VII secolo dall’«enciclopedia» di Isidoro di Siviglia, ma a lungo essa era sembrata una realtà lontana, relegata al passato. La cosiddetta «rinascita» del secolo XII mutò radicalmente questo panorama, comportando anche la crescente diffusione di testi magici, specialmente di stampo astrologico, ricondotti dall’antichità e ravvivati dai testi ebraici e musulmani.

La società basso e tardomedievale non elaborò pareri e comportamenti univoci nei confronti di tali fenomeni. Da un lato, la preoccupazione per la vanitas magicarum era rinverdita da una larga parte del mondo ecclesiastico, con in testa i domenicani e poi i francescani, per i quali il magus va accostato ai «negromanti» (termine che deriva da «necromanti», ossia coloro che divinavano interrogando i morti, ma che aveva ormai assunto una valenza più ampia) e agli astrologi, cioè a coloro che oggi tendiamo a definire nell’ambito della «magia cerimoniale colta» e di forme elaborate di divinazione. D’altro canto, quei secoli conobbero anche una ripresa «in positivo» della magia come scienza sperimentale e naturale.

Ma di quali strumenti si servivano i «negromanti»? Se è vero che le testimonianze in negativo sono prevalenti, è possibile identificarne certi caratteri di fondo a partire da alcuni libri che venivano usati dagli stessi «maghi». Fra questi, i più celebri sono quelli che si riteneva tramandassero notizie sui presunti poteri magici del biblico re Salomone. Al leggendario sovrano si attribuiva la stesura di numerosi testi magici, come il Testamentum Salomonis, che descrive i demoni principali e il modo per sottometterli al proprio volere; abbiamo notizia anche di un Liber Salomonis, bruciato nel 1350 su ordine di papa Innocenzo VI. Nel suo Speculum astronomiae Alberto Magno ne ricordava numerosi, la gran parte dei quali non è giunta sino a noi.


La «Clavicuka salomonis» era forse il più noto di tutti; la copia manoscritta più antica, in greco, risalente al XII-XIII secolo, è oggi conservata presso il British Museum di Londra. Ne esistono tuttavia numerose varianti, molte delle quali pubblicate a stampa nei secoli successivi. L’origine sembra esser stata prevalentemente ebraica, con interpolazioni greco-egiziane, e più in generale orientali, e solo remotamente cristiane. Le preghiere devote a Dio si accompagnano a una accentuazione della necessità per l’officiante il rito di requisiti di castità, digiuno e nitore; tuttavia la finalità appariva tutt’altro che devota, essendo sovente rivolta a procurarsi mezzi magici per seminare morte, discordia e distruzione.

Per il periodo fra XIV e XV secolo gli studi più recenti mostrano l’effettiva diffusione nella società di rituali di magia «nera». Il Picatrix, il più celebre fra questi testi, ha ricevuto studi ed edizioni. Nel 1998 lo studioso statunitense Richard Kieckhefer ha trovato e pubblicato un vero e proprio manuale quattrocentesco di tecniche «negromantiche», Forbidden Rites. A Necromancer’s Manual of the Fifteenth Century, purtroppo mai tradotto in Italia.

Si saluta quindi con grande piacere lapubblicazione di Vedrai mirabilia. Un libro di magia del Quattrocento, a cura di Florence Gal, Jean-Patrice Boudet, Laurence Moulinier-Brogi (Viella, pp. 470, euro 46), un anonimo manuale in volgare che appartiene all’Italia del Quattrocento. Presentazione ed edizione sono estremamente accurate, opera di specialisti del settore; ma nulla tolgono alla godibilità del testo, che mescola magia astrale, «negromanzia» e rituali apotropaici: «Vedrai mirabilia» è il motto ricorrente che l’anonimo estensore impiega per attirare l’attenzione dei suoi lettori.

Ma il libro apre allo stesso tempo uno spaccato raro sulla storia sociale e culturale del tempo perché, come scrivono nell’introduzione, l’Italia del Quattrocento era terreno fertile per questo tipo di scritti, data la grande diffusione dell’astrologia presso le corti aristocratiche, in collegamento con la cultura del Rinascimento, che guardava con favore al mondo antico, del quale tecniche e riti che noi definiamo «magici» erano stati componenti fondamentali.


Il Manifesto – 22 novembre 2017

Com'è profondo il mare. Il '77 di Lucio Dalla

$
0
0


Riedizione a quarant'anni di distanza di «Com'è profondo il mare», lo storico album dell'artista bolognese. Otto pezzi con stratificazioni sonore e vocali.

Fabio Francione

Il settantasette di Lucio Dalla


Musicalmente questo 2017 si sta trasformando in una splendida corsa del gambero, il cui viaggio a ritroso si ferma inevitabilmente a quarant’anni fa, con sporadiche eccezioni risalenti al 1967. Ma il riferimento è a quel 1977 che produsse tra le tante cose anche molta musica. Non dimenticando che essenzialmente il ‘77 fu spartiacque, di una generazione faticosamente tesa ad uscire dagli anni di piombo e votata a reinventare con altri mezzi quella fantasia che, per pochi anni, aveva acceso le intelligenze di tanti. Ed infine che, curiosamente, quarant’anni dopo si trova a dover lasciare il testimone ad un anniversario che lo soppianterà per mole di celebrazioni: il cinquantennale del ’68.

Dunque questo è il 2017 e in musica il 2018 già si preannuncia pieno di novità: il prossimo 4 marzo Lucio Dalla avrebbe compiuto 75 anni e anche qui giù altre sorprese, la prima delle quali è stata presentata all’Auditorium Sony di Milano con l’uscita della Legacy Edition di Com’è profondo il mare (doppio cd con 7 tracce di versioni live inedite e in vinile) e l’anteprima della prima delle sette puntate di 33 giri – Italian Masters dedicata per l’appunto al disco del ’77 del cantante bolognese (stasera ore 21.15 su Sky Arte). La pubblicazione celebrativa del disco e la coincidenza degli anniversari che scivoleranno via nei prossimi mesi hanno suggerito come i due poli contrassegnati dal ’68 e dal ’77 siano stati, non a caso, i due punti di svolta della carriera di Lucio Dalla.

Il primo consegnò con l’uscita del film I sovversivi dei fratelli Taviani, un artista impegnato e lontano dalle apparizioni sanremesi, mentre il ’77 lo consacrerà tra i nostri maggiori cantautori. Infatti reduce dalla trilogia progettata e realizzata con il poeta Roberto Roversi e chiusasi con Automobili e con non pochi strascichi polemici – ben presto spente dallo stesso poeta che riconobbe, così si dice, la grandezza dei testi di Com’è profondo il mare – Dalla avvertì l’esigenza di voltare pagina e si rifugiò a scrivere alle Tremiti, le isole dell’Adriatico dove costruì il suo buen retiro.

Non erano stati anni facili, spesso il successo non arrivava e in concerto erano più lanci di ortaggi ad occupare la scena che a ricevere applausi. Oggi sono solo osanna, allora erano fischi. Ron ricorda con trasporto lo stato di grazia in cui Dalla scrisse quelle otto canzoni che andarono a comporre il disco e come questo incantesimo produsse i due lavori successivi.

Nessuna delle quali fu un riempitivo. Tutte erano pronte per stare lì al loro posto. Titoli come Quale allegria o Disperato erotico stomp divennero elegie per un pubblico sempre più smaliziato. Lo stesso cantante pavese prestò chitarra e pianoforte a quasi tutti i brani: «Allora ascoltavo molto Neil Young, soprattutto ero affascinato da Harvest, la chitarra di Com’è profondo il mare arriva proprio dal modo di suonare di Young». Il sound ipnotico di quella chitarra si eleverà anche al di sopra delle tastiere e sulle stratificazioni sonore e vocali che diventeranno il marchio di fabbrica di Dalla e di un album, a cui sta stretta la definizione di capolavoro.


Il Manifesto – 22 novembre 2017

Pietro Ingrao, Memoria

$
0
0


In libreria le memorie di Ingrao. Le leggeremo con l'attenzione che meritano i ricordi di uno dei protagonisti della storia della sinistra. Francamente non ci attendiamo molto. Uomo di molte parole, ma di poca sostanza politica, Ingrao fu più che altro un grande equilibrista, impegnato a dare costantemente una veste “di sinistra” al proprio adattamento a tutte le svolte della politica del PCI. Tanto bastò a dargli fama di eretico presso una sinistra intellettuale salottiera e inconcludente, alla costante ricerca di un padre protettore. E comunque, visti gli attuali candidati al ruolo (i Grasso, Pisapia, Boldrini, Falcone, Montanari di cui son piene le pagine dei giornali) anche Ingrao (che come si è capito, non amiamo particolarmente) assume ai nostri occhi figura di gigante.


Paolo Franchi

Le tante guerre di Pietro Ingrao Il comunista che sapeva ascoltare


Rinvenuto da Nino Cardillo tra le carte di Pietro Ingrao, spunta un inedito datato 1998, Memoria , domani in libreria, con una bella postfazione del curatore Alberto Olivetti, per i tipi della Ediesse, la casa editrice della Cgil. Dentro ci sono gli ultimi settant’anni del Novecento letti da un comunista tanto atipico quanto cocciuto. E soprattutto riflessioni, giudizi, ricordi, vividi flash, utilissimi per capirne meglio il profilo politico e intellettuale. Che emerge già dal titolo con cui Ingrao aveva inizialmente archiviato questo testo, Memorie di guerra , in chiaro riferimento alla «imperiosa inclinazione militare» assunta nel secolo scorso dallo scontro politico e sociale, e alla «lettura armata» di questo, diffusa non soltanto tra i comunisti, ma tra i comunisti, cresciuti nel mito della rivoluzione d’Ottobre, particolarmente radicata. È sulla possibilità di emanciparsene senza rinunciare a una prospettiva, o meglio a un processo di liberazione che Ingrao, contro lo spirito del tempo, testardamente si interroga.

Memoria, memorie di guerra. È sull’onda della guerra civile spagnola che il ventenne o poco più Pietro Ingrao, studente universitario annoiato ma appassionato neoiscritto al Centro sperimentale di cinematografia, incontra i comunisti, ai suoi occhi interpreti della «lotta al fascismo che rifiutava l’attesa»: sin lì, è stato fascista, «non solo ebbi la tessera, partecipai». Certo, ai Littoriali ha scoperto l’esistenza del dissenso; certo, ha visto e letto, amandoli, film e libri che con la retorica fascista non c’entrano proprio. Magari il dubbio si è già insinuato in qualche modo nella sua testa. Ma è solo di fronte all’ alzamiento di Francisco Franco, uno shock, che il cammino trova il suo sbocco: comincia il tempo della cospirazione. C’è il tempo dei «passaggi ibridati» e delle «vie tortuose e persino ambigue». E c’è il tempo delle scelte di vita.

Memoria, memorie di guerra. La Resistenza, la clandestinità, la fame. E infine la pace, la corsa all’alba per vedere i carri armati americani per le strade di Roma, l’arruolamento volontario come sergente nell’Esercito di liberazione, la miseria e le speranze di un’Italia allo stremo, «l’emozione grande di quando vedemmo ritornare dagli Usa Misha Kamenetzky, e scrivere con il nome di Ugo Stille sul “Corriere della Sera”». Ma soprattutto il Partito («allora lo scrivevamo con la maiuscola»), e «l’Unità», dove Palmiro Togliatti spedisce tanti giovani di belle speranze come lui, da Alfredo Reichlin a Luciano Barca, da Luigi Pintor a Luca Pavolini, ad inventarsi magari controvoglia giornalisti, «caricati dall’obbligo di orientare la sinistra, giorno dopo giorno, in un Paese sortito da una sconfitta storica e avviato verso un domani abbastanza ignoto».

La Seconda guerra mondiale è appena terminata, se ne apre una nuova, fredda ma sempre sul punto di riscaldarsi. Per il Pci il contraccolpo è durissimo, stretto com’è «nell’angolo dal conflitto tra i due blocchi e l’adesione fatale allo stalinismo». Come tutti i partiti «fratelli», ricorre a un linguaggio e a una cultura «militari», invoca (Togliatti) una «ferrea disciplina», teorizza (Ingrao) la necessità imperiosa di stare «da una parte della barricata». Ma, a differenza di altri, resiste. Perché — questa è la tesi di Ingrao — con tutta la sua struttura gerarchica promuove una straordinaria «dilatazione della politica», che investe la quotidianità, chiamando al rapporto con gli altri anche i militanti più settari, e diventa così «l’interprete di estesi bisogni civili e, assieme, l’allusione a un rivolgimento sociale». Quando non riuscirà più a farlo, inizierà un inesorabile declino.


Memoria, memorie di guerra. Conta, eccome, il condizionamento internazionale. Quanto, lo prova l’«indimenticabile 1956», per Ingrao «il primo lampo del lento tornado che poi travolgerà» il comunismo mondiale. Prende corpo l’inimmaginabile, a cominciare dallo scontro mortale tra Mosca e Pechino. Nel 1962, in una Cuba che non gli piace neanche un po’, un emozionato Ingrao chiede al Che cosa pensi del movimento operaio europeo: «La risposta che diede mi ghiacciò: mi disse che… era perduto, stava nell’altro campo».

Poi le speranze si appuntano, invano, sul Vietnam. Prima della fine i rapporti si diplomatizzano, in un dialogo tra sordi. Nel 1980 Ingrao è in Corea del Nord, per incontrare Kim il Sung: «Mi domandavo, uscendo, quale vento aveva portato a incontrarsi in quei siti imperiali un intellettuale comunista della penisola italiana e quel vecchio rivoltoso contadino di un estremo angolo dell’Asia. Ambedue in qualche modo accomunati da una storia che avevamo chiamato comunismo».

Memoria, memorie di guerra. Lo stragismo, Aldo Moro, le Brigate rosse. Ingrao è presidente della Camera. Chi sono i brigatisti? «Ricordo l’ostinata saggezza con cui mia moglie mi diceva: sei sciocco; ti fa comodo cavartela dall’impiccio in questo modo, dicendo che non è roba nostra… In qualche modo erano “nostri”, o almeno assai prossimi». Nel 1978 milita autorevolmente nel partito della fermezza. Vent’anni dopo annota: «A guardare oggi, con la calma della distanza, quelle vicende tragiche, non vedo come escludere l’ipotesi che si potesse trattare per la vita di Moro e sconfiggere i brigatisti». Domande, risposte, domande. Forse sono proprio questa capacità di ascolto e questo impenitente interrogarsi il principale lascito (smarrito) di Pietro Ingrao.

Il Corriere della sera – 22 novembre 2017

Dalla parte sbagliata della storia. Intellettuali e fascismo

$
0
0
    Ezra Pound

Il fascismo è stato un fenomeno complesso. In alcune sue correnti si presentò come reazione ad una modernità capitalistica vista come massificazione e banalizzazione dell'esistente. La prima guerra mondiale e il crollo delle illusioni positiviste fu il brodo di cultura in tutta Europa di un'ideologia attivistica capace di affascinare anche una parte del mondo intellettuale. Andrea Colombo racconta la storia di sedici intellettuali, da Céline a Pound, in modi diversi sostenitori del fascismo visto come un movimento capace di rigenerare una Europa in decadenza.

Claudio Gallo

I maledetti del Novecento catturati dal vortice fascista


Come l’Angelus novus di Klee, che Benjamin vedeva con lo sguardo rivolto all’indietro, l’inizio del XXI secolo resta ossessionato dagli orrori e dalle passioni del secolo precedente. In questo filone di febbrile rilettura si colloca I maledetti, dalla parte sbagliata della storia di Andrea Colombo (Lindau, pp. 262, € 21) le vicende di sedici grandi e meno grandi intellettuali contaminati dall’ombra demoniaca del ’900. La scelta dell’autore è subito chiara, niente taglio saggistico, niente note: il lettore è affidato al potere delle storie individuali attraverso una scrittura giornalistica che mentre spiega vuole intrigare.

Che cosa accomuna questi personaggi così diversi tra loro (Hamsun, Céline, Benn, Heidegger, Gentile, Lorenz, Riefenstahl, Cioran, Eliade, Sironi, Marinetti, Pound, Wyndham Lewis, Evola, Brasillach, Eliot) è suggerito da Colombo nell’introduzione: «la consapevolezza che l’800, il secolo dei buoni sentimenti, del liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un progresso illimitato, era definitivamente tramontato. Dalle macerie della Prima guerra mondiale doveva sorgere un nuovo mondo completamente trasfigurato».


Illustrano bene quello spirito che aleggiò a più riprese sull’Europa, dall’inizio del ’900 agli Anni 40, le parole di George Valois, passato dall’anarco-sindacalismo al Faisceau, il fascismo francese, e morto anti-nazista nel lager di Bergen-Belsen. Le cita Zeev Sternhell nel classico Né destra, né sinistra: «Fascismo e Bolscevismo sono una stessa reazione contro lo spirito borghese e plutocratico. Al finanziere, al petroliere, all’allevatore di maiali che credono di essere i padroni del mondo e vogliono organizzarlo secondo la legge del denaro, secondo i bisogni dell’automobile, secondo la filosofia dei maiali, e piegare i popoli alla politica del dividendo, il bolscevico e il fascista rispondono levando la spada». Nonostante nel secondo dopoguerra i due movimenti politici siano stati talvolta collocati nella medesima categoria di totalitarismo, l’accostamento tra fascismo e comunismo sembra ancora oggi arduo, ma proprio per questo testimonia bene lo spirito insofferente dell’epoca.

L’irrazionalismo fascista e il culto della razza sfociano nell’antisemitismo che l’autore ritrova in quasi tutti i suoi protagonisti. Non si tratta di un antisemitismo granitico: ci sono sfumature e differenze importanti come faceva notare negli Anni 70 il finlandese Tarmo Kunnas nel suo La tentazione fascista. Non giustificano un’assoluzione, ma rivelano una realtà non facilmente riconducibile e categorie generali troppo nette: apparentemente, il razzismo non fa parte, ad esempio, dell’orizzonte di Ernst Jünger o di Gottfried Benn, mentre è radicato nell’irrazionalismo di Céline (una parola definitiva sul tema l’hanno detta Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour in Céline, la race, le juif pubblicato in Francia da Fayard all’inizio dell’anno).

D’altra parte il fascismo, come reazione alla ragione positivista e all’ipocrisia borghese, si appella alla volontà, all’inconscio, a tutto un armamentario irrazionale nemico di ogni misura. Il risultato non cambia, ma talvolta leggendo Céline o Drieu La Rochelle ci si chiede se certe conclusioni aberranti non siano più imposte dal demone dello stile che dal pensiero.

    Céline

Ripercorrendo le vite dei proscritti di Colombo, si riflette anche sulla consistenza dell’individualità: tutt’altro che definita, nei sedici ritratti sembra un serraglio di personaggi che in ciascuna testa si alternano più o meno imprevedibilmente sul palco della coscienza. Grandezza e meschinità, angeli e demoni. Come poteva Ezra Pound, geniale architetto dei Cantos, lodare dal manicomio criminale le idee desolanti di John Kaspers, impresentabile suprematista bianco?

Eppure, sia Against Usura sia gli apprezzamenti della retorica razzista stile Ku Klux Klan escono dallo stesso cervello, anche se, probabilmente, non dalla stessa persona. Ma tutto questo al giudice non importa, per la giustizia e per la morale ognuno di noi è un individuo e quello soltanto. Dimenticarlo sarebbe come minacciare l’esistenza del nostro mondo.


La Stampa – 22 novembre 2017

L'altro Galileo, scienza e arte

$
0
0

Ripensare Galileo. Una grande mostra a Padova espone dipinti, video, oggetti e disegni in un viaggio lungo sette secoli Dopo di lui il cielo non fu più lo stesso.

Raffaella De Santis

L'altro Galileo, scienza e arte

C'è stato un momento a partire dal quale il cielo non è stato più lo stesso. La Luna, i pianeti, la via Lattea, il Sole sono cambiati da quando Galileo Galilei ha puntato il suo cannocchiale in alto e li ha guardati in un altro modo. In quell'esatto momento il cielo è passato dagli astrologi agli astronomi, dalle narrazioni simboliche all'osservazione scientifica.

A Padova si inaugura oggi una mostra interamente dedicata a Galileo Galilei, curata da Giovanni Carlo Federico Villa e Stefan Weppelmann ("Rivoluzione Galileo. L'arte incontra la scienza", Palazzo del Monte di Pietà, fino al 18 marzo), che ha al centro proprio il rapporto tra uomo e universo. La mostra è un viaggio nella storia dell'arte su Galileo, scienziato e letterato, matematico e artista, amante degli astri e di Ariosto. Dice Villa: «Galilei è l'ultimo degli uomini del Rinascimento e il primo della modernità». L'ingresso è affidato ai versi di Primo Levi dedicati al Sidereus Nuncius di Galilei: «Ho visto Venere bicorne / Navigare soave nel sereno / Ho visto valli e monti sulla Luna / E Saturno trigemino / Io, Galileo, primo fra gli umani…».


Il Sidereus Nuncius, che aprirà lo scontro con la Chiesa, era stato pubblicato nel 1610. Galileo, allora professore di matematica a Padova, dove insegnò per 18 anni, era stato il primo ad osservare con un cannocchiale da lui costruito la Luna. Per un anno aveva puntato il suo strumento sul cielo, scoprendo, tra le altre cose, che la Luna aveva monti, valli, asprezze, che la rendevano simile alla Terra.

La mostra è un percorso concettuale ed estetico dal cielo prima di Galileo al cielo dopo Galileo, dai testi astrologici di Igino e Sacrobosco ai disegni astronomici di Leonardo, dall'Origine della via Lattea di Rubens, in cui la galassia alla quale appartiene il sistema solare è ancora mitologicamente avvinta al seno di Era, agli acquerelli e agli schizzi dello stesso Galilei. È esposto per la prima volta anche il ritratto dello scienziato dipinto da Santi di Tito. Dopo aver puntato un cannocchiale sulla superficie lunare è difficile dipingere il satellite come si faceva prima.

    Una sala della mostra

Con il passare del tempo pittori come Gaetano Previati ( La danza delle ore), Pellizza Da Volpedo ( Il sole nascente) o Giacomo Balla ( Mercurio passa davanti al sole) tentano di rendere con le immagini quello che aveva studiato Galileo. «Anche la scomposizione della luce attraverso la tecnica pittorica divisionista ha alle spalle l'osservazione scientifica galileiana», spiega Villa, professore di storia dell'arte a Bergamo e curatore negli anni di grandi mostre, tra le quali quelle su Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Tintoretto e Tiziano.

La mostra però non si ferma alle suggestioni del passato, ma spinge il gioco delle corrispondenze fino ai tempi più recenti, ai fumetti di Tintìn ( Objectif Lune e On a marché sur la lune) o al cortometraggio protofantascientifico del 1902 di Georges Mèliès intitolato Il viaggio nella Luna ( Le voyage dans la Lune), ispirato a Jules Verne, a H.G.Wells e alle incisioni con cui Gustavo Dorè nel 1868 aveva illustrato Le avventure del barone di Munchausen. Per arrivare infine al film Hugo Cabret di Martin Scorsese, in cui compare come personaggio lo stesso Méliès. E poi ci sono le opere di artisti contemporanei, da quelle spaziali di Anish Kapoor e Thomas Ruff fino all'americano Trevor Plagen, che fotografa scie luminose di rifiuti cosmici e ai video del tedesco Michael Najjar, tra cui Spacewalk, in cui un astronauta nuota nello spazio.


«Dopo Galileo anche lo spazio diventa sempre più prossimo, a portata di mano e noi ci scopriamo una piccola parte dell'universo. Oggi non siamo più noi ad osservare il cosmo, ma è il cosmo che osserva noi», dice Weppelmann, studioso ed esperto di arte italiana, che ha seguito da vicino la curatela della parte contemporanea della mostra. Non c'è da stupirsi. Dopo lo sbarco sulla Luna nel 1969, Italo Calvino, che considerava Galileo il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, scrisse: "Il fatto che siamo obbligati a ripensare la Luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in modo nuovo tante cose". Parole che potrebbero fare da epigrafe alla mostra padovana.

La repubblica – 18 novembre 2017




Sant'Andrea e il Bosco di Savona

$
0
0

Sant'Andrea chiude il mese di novembre e, grazie a uno strano detto, testimonia del secolare legame fra le Langhe e Savona.

Guido Araldo

Sant’Andrea

Il mese di novembre finisce con sant’Andrea, quando nella civiltà contadina si teneva l’ultima fiera dell’anno.

Sant’Andrea apostolo, il cui nome è greco ανδρεία significava virile, valoroso, è un santo sottovalutato in Occidente, eppure un tempo importantissimo al punto di diventare patrono d’intere nazioni: dell’Impero Bizantino che considerava sant’Andrea, e non san Pietro, il vero successore di Gesù, della Scozia la cui ricorrenza è festa nazionale e la cui croce a forma di X sventola nella bandiera di questo paese; della “Grande Madre Russia”, dell’Ucraina, della Grecia, della Romania e dell’antica Repubblica di Amalfi.

Andrea, umile pescatore nel Mare di Galilea, divenne pescatore di uomini con gli altri apostoli; poi, con il fratello Pietro, si divise il mondo: l’Occidente a Pietro; l’Oriente ad Andrea.

Un apostolo un po’ anomalo rispetto agli altri: già discepolo del Battista, come evidenziato dall’evangelista Giovanni, fu il primo a riconoscere a Gesù il ruolo del Messia.


La tradizione lo vuole un grande viaggiatore e anche un buon navigatore. I suoi innumerevoli viaggi lo portarono in molti paesi d’Oriente, quasi un novello argonauta: dalle sponde del Ponto (Nero), all’Asia Minore (Turchia), fino alla Scizia (Ucraina), per poi risalire il fiume Volga nel cuore dell’attuale Russia. Sulla via del ritorno fondò la prima comunità cristiana di Costantinopoli: il seme della Chiesa Ortodossa.

Le leggende dei viaggi di Andrea, con la prima croce infissa a Kiev dall’apostolo, sostituirono il mito degli Argonauti: un mito molto radicato in Grecia e in tutte contrade dell’antico Impero Romano d’Oriente, soprattutto sulle rive del Mar Nero. Emblematico, inoltre, il suo martirio: l’apostolo Andrea finì i suoi giorni a Patrasso, nel Peloponneso, appeso a una croce a forma di X poiché, secondo gli agiografi medioevali, non poteva morire come il suo Maestro. A sua volta San Pietro finì appeso alla croce, ma a testa in giù.

A riguardo di sant’Andrea è opportuno ricordare che anticamente la stagione della transumanza invernale cominciava alla sua festa, il 30 novembre, per finire alla festa di san Marco, il 25 marzo.

    Faggi secolari nel "Bosco" di Savona

Nelle Alte Terre Langasche è rimasto un detto ormai dimenticato: à sant’Andreja us vä à fè ra föja = “a sant’Andrea si va a fare la foglia”. Un detto all’apparenza misterioso che ricorda l’antica transumanza tra le Alte Langhe e la costa ligure in prossimità di Savona, soprattutto nel suo grande bosco (il nemus), dove la stagione invernale è più mite, soprattutto priva d’abbondanti precipitazioni nevose.

Documenti medioevali tuttora reperibili rievocano aspre e sanguinose liti per gli antichissimi diritti di transumanza: da epoche remote i pastori di Saliceto, Cengio, Camerana, Gottasecca, Cosseria vantavano “il privilegio” di condurre greggi e branchi di porci nel grande bosco di Savona che, all’epoca, si estendeva dalle porte della città allo spartiacque alpino. Diritti che i Savonesi, dopo che si ersero a libero comune, tendevano a misconoscere.


(Dal volume Mesi Miti Mysteria)

Giannici. Il rito della pittura

Situazione Simondo


I luoghi magici di Dario Franchello

Gobekli Tepe, una Stonehenge di 12000 anni fa

$
0
0


Immaginate un complesso di Pilastri a T, finemente scolpiti e posti in cerchio sulla misteriosa collina di Saniurfa, nella Turchia Orientale, in una vasta area che presenta altri complessi templari analoghi ancora da scavare...realizzati oltre novemila anni prima di Cristo, seimila anni prima delle Piramidi e di Stonehenge...

"Questa è la scoperta di un santuario monumentale che, a rigor di logica, non dovrebbe nemmeno esistere. Prima che venisse in luce, infatti, nessuno avrebbe creduto che i nostri predecessori, già 12000 anni fa, fossero in grado di realizzare opere d'arte e d'architettura di tale portata"

GOBEKLI TEPE

conferenza conversazione con il Prof. Roberto MAGGI
Archeologo presso Sopraintendenza per i beni archeologici della Liguria

Sabato 2 Dicembre
ORE 16.00
Bibilioteca Civica A.G. Barrili
Via Barrili CARCARE (SV)  

Preistoria del fuoco. La civiltà incomincia grazie al dono di Prometeo

$
0
0


La domesticazione del fuoco è stata una svolta fondamentale nella vita dell'umanità. Alcune ricerche ne raccontano la preistoria.

Marco Belpoliti

La storia della civiltà incomincia grazie al dono di Prometeo

La legna tagliata e accatastata a fine estate ora arde nella stufa. L'inverno non è ancora arrivato, tuttavia abbiamo già acceso il fuoco. Ogni volta che getto un pezzo di legno nella stufa penso a cosa deve essere stata la vita dell'umanità prima. Prima che il fuoco diventasse una fonte di calore, d'illuminazione e strumento di nutrimento. Secondo Catherine Perlès, autrice di "Preistoria del fuoco" (Einaudi), già all'epoca della glaciazione di Mindel, 450mila anni fa, alcuni uomini mantenevano il fuoco nelle loro abitazioni.

Come se l'erano procurato? Oggi è facile, basta comprare i fiammiferi in una qualsiasi tabaccheria (anche se non tutte vendono più i cosiddetti "svedesi"). Ma come hanno fatto i nostri progenitori a ottenerlo? Veniva ricavato da fonti naturali o era prodotto artificialmente? Tre sarebbero state le fasi dell'ancestrale rapporto dell'uomo col fuoco: in un primo tempo gli uomini non sarebbero stati capaci di padroneggiare quello provocato da fulmini, e ne avevano gran paura; poi hanno imparato a raccoglierlo e ad alimentarlo, senza però riuscire a produrlo; nella terza fase, infine, 400mila anni fa, sono stati in grado di far scaturire il fuoco ogni volta che serviva loro.


Senza il fuoco non saremmo sopravvissuti, e non avremmo avuto la ceramica, la prima arte secondo Lévi-Strauss, e neppure la fusione dei metalli. In breve: niente civiltà. Siamo figli del fuoco, come ci ha spiegato in modo poetico e filosofico, Gaston Bachelard nella sua Poetica del fuoco.

L'uomo si differenzia dagli animali solo il giorno in cui diventa padrone del fuoco; lo fa, come ci rammenta il mito di Prometeo, a spese degli dèi, poiché il fuoco è di natura divina (James G. Frazer, Miti sull'origine del fuoco, Xenia). Se anche noi siamo divini, lo dobbiamo perciò al fuoco. Tuttavia la cosa più interessante che ci spiegano i paleontologi è che la scoperta e l'utilizzo del fuoco presuppone non un progresso tecnico, bensì psichico. L'Australopiteco possedeva già i mezzi necessari per usare il fuoco (fuochi spontanei, conservazione e produzione), però non sembra avesse, scrive Perlès, la struttura mentale per sfruttarli.


Questo scarto si crea nella percezione del rapporto tra percussione o confricazione e produzione del fuoco. Lo scatto è avvenuto lì, nella testa dei nostri progenitori; poi la questione diventa puramente tecnica. Spesso ci dimentichiamo che le scoperte umane sono prima di tutto l'effetto di un progresso psichico e solo dopo di un fatto tecnico, il computer come il fuoco.

Su come l'hanno prodotto i nostri antenati ci viene in soccorso un libro curioso: Fire. L'arte delle fiamme (Piemme) di Daniel Hume. Hume è un esperto di sopravvivenza in zone selvagge, uno di quei curiosi personaggi che cercano di ripercorrere il cammino dell'umanità reinventando i metodi perduti per cui siamo quello che siamo. Appassionato del fuoco da ragazzo, come racconta, è stato in giro per il mondo, dall'Africa all'Asia e all'Oceania, per scoprire come le tribù sopravvissute nelle foreste di quei tre continenti si procurano ancora oggi il fuoco. 


Mentre sto scrivendo giro le spalle alla stufa dove brucia un ciocco di legna che i miei vicini hanno tagliato e io ho stoccato sotto il portico nel mese di settembre. Ho da poco finito di leggere il libro di Hume, seguito naturale del libro di Lars Mytting, Norwegian Wood (Utet). Mentre il libro di Mytting era un libro centripeto, fondato sulle pratiche di taglio e accatastamento della legna, questo di Hume è invece centrifugo: ci porta in giro per il mondo all'inseguimento dei sei metodi fondamentali attraverso cui l'umanità è stata in grado di produrre fiamme quando e dove voleva. Anche se non si è stati scout, tutti conoscono il metodo del piolo a mano, e quello del trapano ad archetto, sua variante: frizionare un legno su un altro legno, possibilmente asciutto, e avere un'esca di paglia o foglie per raccogliere il fuoco.

C'è uno strano connubio di ontogenesi e di filogenesi nel percorrere con Hunt, narratore vivace ed entusiasta, i metodi dei cosiddetti "primitivi", metodi che ci riportano all'infanzia dell'umanità, ma anche alla nostra (o mia), quando accendere il fuoco era un bisogno insopprimibile: non si diventava adulti senza aver fatto questa prova, fosse anche con la lente e il sole (settimo metodo, non antico però). Siamo tutti degli incendiari, potenziali discepoli di Erostrato: è il complesso del fuoco di Bachelard.


Gli altri metodi sono: quello dell'aratro, sempre usando legno; della sega, simile; della cinghia, sua variante; e quello del pistone pneumatico, il più curioso. La base di tutto è strofinare, frizionare e agitare un legno con un altro legno, salvo il caso di accendere il fuoco con le scintille provocate dal percuotere una pietra con un'altra (ottavo metodo). Hume è un tipo pratico e va al sodo. Non si pone il problema di cosa sia per noi il fuoco. Forse non ha neppure letto il libro della Perlès, o l'altro bel volume di Johan Goudsblom, Fuoco e civiltà (Donzelli editore); e neppure si pone la questione che ha coinvolto Richard Wrangham, docente di Antropologia biologica a Harvard, in L'intelligenza del fuoco (Bollati Boringhieri). Questi ha dimostrato come la cottura del cibo abbia modificato l'umanità nel corso di migliaia di anni, problema che neppure Darwin aveva esaminato. Wrangham ha concluso che noi, Homo Sapiens, siamo sopravvissuti perché abbiamo cominciato a cuocere il cibo.

Eppure un fascino un po' selvaggio (e ingenuo) il libro dell'esperto di sopravvivenza Hume ce l'ha. Adesso che l'ho letto, in caso d'improvviso collasso della civiltà, so come accendere un fuoco. Naturalmente spero di non dovermi mai trovare nelle condizioni del protagonista de La strada di Cormac McCarthy. Mai dire mai.


La repubblica – 15 novembre 2017

Nicola Bucci, Mnemosyne

$
0
0


A cura di Vincenzo Lagalla e Sandro Ricaldone
Entr'acte
via sant'Agnese 19R – Genova
6 dicembre 2017 – 12 gennaio 2018

orario: mercoledì-venerdì 16-19
inaugurazione: mercoledì 6 dicembre, ore 18


Entr’acte apre la nuova stagione espositiva con una personale di Nicola Bucci, Mnemosyne, che raccoglie un gruppo di lavori inediti realizzati tra il 1979 e il 1981, coevi alle mostre tenute al Teatro del Falcone (con Francesca Biasetton e Danilo Cavo, 1980) ed al ciclo di opere esposte in occasione della rassegna Lavori in corso alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna (1981).

Come l’artista stesso ha dichiarato in un’intervista condotta da Marta Traverso in occasione della mostra Il lavoro dell’artista. Un percorso genovese 1977-1989 (Genova, Palazzo Ducale, 2013), il suo percorso di ricerca in quegli anni «è una riflessione metalinguistica sull’arte. Ovvero: non solo realizzare opere, ma utilizzarle come strumento di riflessione sull’arte, sui suoi linguaggi, sul rapporto fra l’opera e il suo pubblico».

Questi lavori «sono una sinestesia di diversi linguaggi: fotografia, fotocopia, “fotografia della fotografia”, pittura. Un preludio a quella che oggi si chiamerebbe multimedialità. L’immagine ha una funzione concettuale: esprime in forma visuale le teorie espresse da Jacques Lacan, Walter Benjamin, Guy Debord e altri». L’utilizzo di immagini estratte da vecchi libri o giornali, la loro ripresa e iterazione in sequenze analoghe per certi versi allo scorrere della pellicola cinematografica, finiscono per costituire una sorta di «archeologia del presente: siamo così immersi nella nostra contemporaneità che non la vediamo, il salto nel passato è qui un paradigma per comprendere meglio l’oggi».


Nicola Bucci è nato a Genova nel 1961. Docente di discipline pittoriche al Liceo Artistico Klee-Barabino, a partire dal 1985 si è dedicato specificamente alla ricerca filosofica. In quest’ambito ha pubblicato, con Federica Chisalé, Il silenzio delle sirene. Per una critica all'atto di creazione (Edizioni Masnata, 1995) e Considerazioni inattuali (De Ferrari, 2013) oltre a numerosi contributi in riviste. Presso Former, nel 2014, ha tenuto il seminario Capitalismo come religione. Economia, teologia politica critica della religione, a proposito dell’omonimo scritto di Walter Benjamin. Alcuni suoi contributi possono essere letti o seguiti tramite il suo profilo Facebook (https://it-it.facebook.com/public/Nicola-Bucci)  


Il signor Bonaventura. L'ultima grande maschera della commedia dell'arte

$
0
0


Cent'anni fa debuttò sul “Corriere dei Piccoli” l'eroe che più di ogni altro, col suo “milione”, ha incarnato l'ottimismo italiano. A crearlo fu Sergio Tofano, attore teatrale che firmava i suoi disegni con la sigla “Sto”.

Marco Giusti

Il signor Bonaventura. L'ultima grande maschera della commedia dell'arte

Cent'anni del Signor Bonaventura e del suo milione. Chi non lo vorrebbe ancora oggi un milione? E cent'anni della sua sventura iniziale, «qui comincia la sventura...», che si capovolge sempre in buona ventura, come spiega lo stesso nome. Del resto il Signor Bonaventura, scritto, disegnato e poi messo in scena e interpretato da Sergio Tofano, nasce, sulle pagine del Corriere dei Piccoli, glorioso inserto illustrato del Corriere della Sera, il 28 ottobre 1917, negli stessi giorni della tragedia di Caporetto. E deve divertire i bambini italiani col suo impassibile ottimismo assieme al fido Otto il Bassotto che «il color ha del risotto », al Bellissimo Cecè e al torvo Barbariccia «dalla maschera verdiccia», mentre si sta ancora combattendo una guerra terribile e sanguinosa. La sua buona ventura finale è costruita in contrapposizione alla mala ventura di Fortunello, grande protagonista, allora, delle pagine del Corrierino.

Fu il direttore del giornale, Silvio Spaventa Filippi, dopo aver pubblicato molte novelle illustrate di Tofano (o Sto, come si firmava) fin dal 1912, a offrirgli le prestigiose due pagine esterne del giornalino chiedendogli proprio un fumetto sulla scia di Fortunello. Nel 1917 Tofano era già noto non solo come attore teatrale (aveva pure esordito in due film muti nel 1916), ma anche come disegnatore. Sia per giornali per bambini, come Il Giornalino della Domenica di Vamba, che per riviste di moda, come Lidel.


Tofano porta nel suo Bonaventura gran parte di se stesso, della sua figura magra e ossuta, e della propria esperienza teatrale. Come scrive Attilio Bertolucci, «nasce già grande, d'età indefinita, piuttosto giovane si direbbe, non giovanissimo, mettiamo sulla trentina, gli anni che aveva allora, pressappoco, il suo creatore». Bonaventura è quindi lo specchio di Tofano, e sarà naturale per lui portarlo a teatro vestendone il costume da lui stesso disegnato. Anche se ciò accadrà dieci anni dopo, Bonaventura diventa da subito una maschera, anzi, «l'ultima maschera della commedia dell'arte», come scriverà Silvio D'Amico. Alla teatralità della maschera unirà quella grazia, quel buon gusto e una sorta di understatement altoborghese, come lo definisce Bertolucci, che lo distingue da tutti.

Figlio di un magistrato napoletano, nato a Roma il 20 agosto 1986 (dove morirà il 28 settembre 1973), Tofano, laureato senza convinzione per far contento il padre, si era sentito subito diviso fra due passioni, il teatro e il disegno. Pur non brillando nei corsi di recitazione di Santa Cecilia a Roma, «mi dicevano che avevo la voce da gobbo, l'accento romanesco, una figura meschina», fa una rapida carriera nel teatro, soprattutto quando, nel 1927, mette in piedi la Compagnia Comica Italiana Almirante -Rissone- Tofano, che durerà fino al 1939 e dove reciteranno con lui campioni come Vittorio De Sica, Gino Cervi, Checco Rissone. È con questa compagnia che metterà in scena, il 17 marzo del 1927 al Teatro Carignano di Torino, su richiesta di Luigi Almirante, la prima commedia di Bonaventura, Qui comincia la sventura.

Delle sei commedie di Bonaventura, è quella preferita da Tofano, «perché è più pura e omogenea, in essa vi sono soltan-to i personaggi familiari al mio comico e melancolinco eroe». Li troviamo infatti tutti, dal Bellissimo Cecè, intepretato da Luigi Almirante, al Bassotto interpretato da Checco Rissone, alla moglie dell'eroe, interpretata dalla sua stessa moglie, Rosetta Cavallari, che aveva sposato nel 1923.

Non perde certo l'idea vincente del milione. Negli anni aveva anche cercato dei finali diversi, dove il milione lo smarrisce anziché trovarlo, ma i suoi piccoli lettori avevano protestato, furiosi, al Corrierino. In un'Italia ancora depressa per la Grande guerra, l'ottimismo di Bonaventura e del suo Milione era ciò che ci voleva. I critici del tempo, da Alberto Cecchi a Renato Simoni, impazziscono per il Bonaventura teatrale, che intanto, nel 1928 e 1929, torna con due nuove commedia, La regina in berlina e Una losca congiura, con uno strepitoso Vittorio De Sica nei panni del verde Barbariccia e Rosetta come Felicetta.


Nell'Italia fascista del tempo, il Signor Bonaventura prende apertamente le distanze sia dalla glorificazione dei Balilla sia dal pietismo degli scolari alla De Amicis. Non è mai una maschera fascista. Si chiude invece in un ottimismo impassibile fuori dal tempo, che le cronache di allora definiscono come «cattolico e italiano», e nel buon gusto, pensato come nota dominante in un teatro per bambini dallo stesso Sto. «Essi, d'accordo, non sapranno capirlo né apprezzarlo al punto giusto, ma inconsciamente lo sentiranno e l'assorbiranno». Nel 1936 Bonaventura venne richiamato a forza a teatro con L'isola dei pappagalli, con prima al Teatro Alfieri di Torino 18 gennaio, musica addirittura di un giovane Nino Rota. Un vero e proprio musical di successo. Al punto che Tofano, che nel cinema si era mosso quasi sempre in ruoli minori con gustose caratterizzazioni, si decise a portare lui stesso, da regista, il suo personaggio sugli schermi.

In piena guerra, siamo nel 1942, gira Cenerentola e il signor Bonaventura, sorta di mischione del suo primo romanzo, Il romanzo delle mie delusioni e della commedia La regina in berlina. Sulle pagine di Film il direttore di produzione, Fabio Franchini, rivela che sarebbe stato girato in parte a colori «nelle scene di maggior effetto coreografico, valendoci di un brevetto nuovissimo». Di certo sullo schermo il colore non si vede, ma non si vede neanche, purtroppo, il Bonaventura di Sergio Tofano, visto che il Tofano regista ha la pessima idea di farlo interpretare da Paolo Stoppa. Bravissimo, per carità, ma per nulla somigliante all'originale.


Il film non convinse, ahimè, nessuno. Nel dopoguerra, tornando al teatro, Tofano scrisse due nuove commedie del suo eroe, Bonaventura medico per forza, 1948, e Bonaventura precettore a corte, 1953. Non solo. Cercò di portare al cinema L'isola dei pappagalli, come risulta da un trattamento in inglese, The Island of Parrots – comedy for children. Inutilmente. Riuscì invece a portarlo in televisione, con lui stesso come Bonaventura e Luigi Pavese come stupendo Barbariccia in due bellissime serie di Caroselli per la Lanerossi. Al momento del milione offerto con un «i miei ringraziamenti più commossi…», Bonaventura risponde con un «…grazie, preferirei le Lanerossi ».

Dopo la scomparsa drammatica e improvvisa della moglie Rosetta, introducendo nel 1964 una raccolta di 99 vignette di Bonaventura per Garzanti, Sto scrisse: «Queste storielle di Bonaventura, Rosetta, abbracciano un arco di tempo che è quello su per giù della nostra vita insieme. Tu, accanto a me, le hai viste nascere una per una, ma sei stata la prima lettrice e spesso ispiratrice. Ora che te ne sei andata, anche lui il mio pupazzo, ha quasi contemporaneamente conclusa la sua carriera di milionario involontario ». E, più o meno, così fu.

Protagonista di vignette, spettacoli, film e spot tv, nacque per tirare su il morale dei lettori durante la Grande guerra Ma il suo successo durò per decenni Cent'anni fa debuttò sul "Corriere dei Piccoli" l'eroe che più di ogni altro, col suo "milione", ha incarnato l'ottimismo italiano A crearlo fu Sergio Tofano, attore teatrale che firmava i suoi disegni con la sigla "Sto"


La Repubblica – 27 ottobre 2017

Salus Per Musicam: alchimie musicali a Savona

Martin Lutero. Il protestantesimo nello specchio sociale

$
0
0

L'eredità del monaco agostiniano, a cinquecento anni dalle “95 tesi”

Alberto Corsani

Martin Lutero. Il protestantesimo nello specchio sociale

Nel 1917, a 400 anni dalle 95 Tesi di Lutero, varie chiese sorte dalla Riforma si trovarono di fronte a un problema: sentirsi unite da una celebrazione che era motivo di coesione identitaria o prendere atto del fatto che i loro Paesi erano nel bel mezzo di una guerra mondiale? Accettare l’eredità del monaco agostiniano, che fece da cerniera tra il tardo Medioevo e la modernità, o adeguarsi alla politica drammatica di guerra che poneva come prima esigenza quella di combattere il nemico? Per la prima volta, forse, le chiese luterane degli Stati Uniti si sentirono pienamente americane, nonostante la filiazione diretta dalle «chiese sorelle» di Germania. E che dire dei protestanti che in Europa videro i propri territori occupati dalla Germania nazista? Puoi condividere la stessa fede in Dio con coloro che stai combattendo?

Fare i conti, oggi, con cinque secoli di Riforma protestante comprende anche questa presa d’atto: per quanto il messaggio della fede in Gesù Cristo sia universale e rivolto all’umanità intera, la famiglia protestante nel mondo, rispetto alla chiesa cattolica romana si vede frazionata, anche se chiunque, a qualunque latitudine può sentirsi partecipe di una comunità cristiana; certo, riunirsi nell’alveo di una chiesa significa pur sempre fare i conti con la dimensione terrena dell’esistenza, dimensione ben lontana dall’essere perfetta; ma d’altra parte nessuna chiesa, nella visione protestante, può pensare di essere l’unica. E infatti quelle nate dalla Riforma hanno anche una identità nazionale, a partire dai valdesi, diffusi come movimento già tre secoli prima di Lutero.

La consapevolezza dei propri limiti caratterizza l’essere protestante: una cognizione di sé che trova il suo naturale sbocco nel radicamento sociale. Se questo per i valdesi si tradusse nella difesa strenua della propria terra di montagna, per tutti tale atteggiamento significò e significa tuttora inserirsi nella società e spendere nella comunità civile la personale risposta alla chiamata (vocazione) ricevuta da parte di Dio, attuando opere mirabili, ma anche nefandezze come il regime sudafricano dell’apartheid, che bestemmiò la dottrina calvinista.

    Concilio di Trento

Tuttavia alle infezioni si possono opporre degli anticorpi: è quanto avvenne quando l’Alleanza riformata mondiale (oggi Comunione mondiale di Chiese riformate – ramo calvinista della Riforma) sospese negli anni ottanta due chiese sudafricane di origine olandese, per il sostegno dato al regime razzista; persasene una per strada, l’altra è stata riammessa avendo condannato le proprie posizioni.
Ognuno di noi – a partire dalla definizione di Lutero – è simul iustus et peccator, a un tempo reso giusto da Dio e però pur sempre umano e incline al peccato.

Intorno a questa dialettica tra universalità e radicamento si sono sviluppate anche le iniziative del 500/mo anniversario, cominciate invero il 31 ottobre 2016 nella cattedrale luterana di Lund in Svezia, con la partecipazione di papa Bergoglio a significare un’auspicata nuova stagione di rapporti fra cattolicesimo e chiese nate dalla Riforma. La sua presenza presso la «famiglia luterana mondiale», pur ponendo problemi a qualche oppositore in casa cattolica, che vedono la Chiesa di Roma «protestantizzarsi», ha fatto capire come vi siano le condizioni per avviare una lettura il più possibile condivisa del passato.

Uno sguardo nuovo per una comprensione nuova, come testimoniato dal bel convegno organizzato nel novembre scorso dalla Conferenza episcopale e dalle chiese evangeliche, proprio nella Trento che fu sede del Concilio, da parte di chiese che hanno un problema in comune: parrocchie cattoliche e chiese del protestantesimo storico si vanno svuotando, sotto l’influsso incrociato di secolarizzazione e progresso scientifico.

La naturale tendenza protestante alla coscienza critica (per secoli rubricata alla voce «individualismo protestante») finisce per esporre le chiese della Riforma a un’autocritica serrata, non avvistata per ora all’orizzonte di altre formazioni neo-protestanti (evangelical) che vedono aumentare i fedeli e le presenze ai servizi liturgici, sia in Asia e Africa sia in paesi come il nostro, che accolgono (quando lo fanno) immigrati evangelici di provenienza terzomondiale.

Vi sono anche altri ambiti in cui le chiese nate dalla Riforma si affacciano e dialogano con la Chiesa cattolica (e in parte anche con il mondo ortodosso). Bene avviati ormai da decenni gli studi teologici comuni con le Università cattoliche e le traduzioni e studi filologici sulla Bibbia, sono sotto gli occhi di tutti le sinergie nei settori di accoglienza e assistenza, come testimoniato dai «corridoi umanitari» per richiedenti asilo, avviati nel marzo 2016 dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia con la Comunità di S. Egidio e la Tavola valdese, attraverso un protocollo siglato con i ministeri dell’Interno e degli Esteri, modello ripreso nel corso dell’estate dai protestanti francesi.

Le note dolenti si situano a un livello più ecclesiologico che teologico: la strutturazione gerarchica della Chiesa cattolica, nonostante l’opera pluridecennale di alcuni ambiti di avanguardia (per esempio nel campo dei matrimoni interconfessionali), le rende difficile pensare alle altre chiese come sullo stesso piano rispetto a lei. E poi è il piano etico quello che fa più parlare di sé.


Il carattere più normativo che dialogante della Chiesa di Roma è respinto in quanto «impositivo» da parte della cultura laica: procreazione assistita, fine-vita, eutanasia e suicidio assistito, etica sessuale, a fronte di posizioni abbastanza rigide da parte cattolica, fanno registrare una tendenza delle chiese protestanti a puntare molto sull’autonomia e sulla coscienza dell’individuo, in linea con la consuetudine del libero accesso al fondamento della vita cristiana, cioè le Scritture bibliche, sede della rivelazione di Dio all’umanità. Capita però che il mondo non-cattolico in Italia interpreti questa accentuazione di libertà dell’individuo spingendolo «oltre».

Il credente protestante è infatti sì libero, ma «libero per servire», cioè per servire, amandolo, il proprio prossimo (Epistola ai Galati 5, 13): e questo avviene con la cura dei propri simili, all’interno della società e non ai margini di essa; inoltre, è nella società e nella politica che si spende l’esistenza del o della credente protestante, alle prese con la propria coscienza e consapevole di non rappresentare un’intera chiesa.

Alla base di questo atteggiamento, però, è la convinzione che questa libertà non è frutto di nostre conquiste, ma ci è stata data. Più che libero o libera, il (la) protestante sa di essere stato «reso libero», e di questo è grato o grata a Dio. Essere stati resi liberi significa sapere che di questa autonomia un giorno saremo chiamati a rispondere a chi l’ha donata gratuitamente. Ogni risultato è provvisorio, come lo è questo anno di celebrazioni, da intendersi come nuova, ulteriore ripartenza.


Il Manifesto – 26 ottobre 2017

E' morto don Bof

$
0
0

E' morto don Bof. Altri ricorderanno il sacerdote, il teologo, lo scrittore. Io ricordo solo il mio insegnante, conosciuto a 17 anni in piena crisi esistenziale. L'unico, con il Prof. Locatelli, capace di trattarci con attenzione come le cose fragili che noi ragazzi e ragazze in quel momento eravamo. E questo nonostante le nostre arie di sufficienza e i nostri toni eccessivi, maldestri tentativi di nascondere la nostra sostanziale insicurezza.

Ci ha voluto bene Don Bof e noi gli abbiamo voluto bene. Noi, io e tutti i ragazzi e le ragazze che hanno avuto la fortuna di incontrarlo allora. Si. Gli abbiamo voluto bene, perchè da lui ci sentivamo capiti e soprattutto non giudicati.

Don Bof è stato il mio professore per tre anni e poi un amico, per tutta la vita. Un punto di riferimento sicuro nei momenti di crisi.


Di lui ci resta qualcosa di più del ricordo. Resta quello che ci ha dato allora, che ci ha aiutato a crescere, a affrontare la vita, a fare le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano state. Da vecchio insegnante vorrei un giorno anch'io essere ricordato così.

Talmud babilonese. Il trattato delle benedizioni

$
0
0

Berakhòt (Benedizioni)

Berakhòt (Benedizioni) è il primo trattato del Talmud e fa parte del Séder Zera‘ìm (Ordine delle Sementi) che ha come oggetto l’insieme dei precetti relativi all’agricoltura, come le norme sulle decime dei prodotti agricoli, l’anno sabbatico, le primizie, l’angolo del campo da destinare al povero e allo straniero. Leggendo il trattato Berakhòt si comprende prima di tutto come il significato di "benedizione" abbia nell’ebraismo numerosi significati, rituali, religiosi e filosofici, che conducono il lettore a riflettere sul rapporto tra l’uomo, Dio e il creato.

Questo trattato che apre il Talmud, considerato tra i più profondi e interessanti, affronta anche molti altri argomenti oltre alle norme agricole e le regole relative alle benedizioni.

La prima parte del trattato è dedicata alle regole concernenti la più importante preghiera ebraica, lo Shemà. La prima frase di questa preghiera rappresenta l’essenza della fede ebraica: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno”. Essa afferma l’unicità e l’unità di Dio, ed è alla base del concetto di monoteismo. Dopo la preghiera dello Shemà si affrontano le norme relative a un’altra preghiera centrale nella liturgia ebraica: la Amidà.

In particolare si trattano le regole che traggono origine dalla preghiera di Channà, la donna sterile che si recò al Santuario per pregare il Signore di concederle un figlio. La preghiera fu efficace e da lì a un anno nacque un bambino, Samuele, il profeta alla cui vita e opere sono dedicati i due libri biblici omonimi. All’inizio del primo libro è riportata la preghiera di Channà la cui storia viene raccontata nel trattato.

In seguito si affrontano le norme relative a tutte le altre benedizioni, da quelle sul cibo a quelle della vita quotidiana e quelle particolari come quando si assiste a un miracolo, a un particolare fenomeno atmosferico o a uno spettacolo della natura o quando ci si salva da un pericolo o si riceve una buona o una cattiva notizia.

Ma il trattato Berakhòt è famoso anche per le sue numerose parti di racconto, di Aggadà. Si tratta di passaggi che aprono lo spazio a considerazioni filosofiche, alla conoscenza storica, archeologica e scientifica, con brani di grande interesse anche economico e sociologico, sempre senza censure nei confronti di qualsiasi argomento.

E infine troviamo un’affascinante disamina dei sogni, della possibilità di interpretarli e del valore che può essere loro attribuito. Leggendo i nove capitoli di Berakhòt si entra, nella migliore tradizione talmudica, in una sorta di “universo” nel quale nessun argomento è escluso dalla discussione dei Maestri.


   

Il dono

$
0
0

Eredibibliotecadonne in collaborazione con l’Associazione culturale ‘Il Labirinto’ inaugura sabato 9 dicembre una mostra su “IL DONO”. Ore 18 presso la sede di Via Famagosta 10 a Savona. La mostra rimarrà aperta fino al 7 gennaio, venerdì e sabato dalle 17 alle 19.

Dieci artiste, tre poete insieme alle Eredi e alle amiche e agli amici che vorranno portare il loro contributo entreranno in dialogo con opere, testi poetici, pensieri e racconti per presentare il lato femminile della grande esperienza umana del Dono, che è al centro delle celebrazioni natalizie.

Saranno presenti con una loro opera: Alba Dabove,Dolores De Giorgi, Elisa Traverso Lacchini, Eva Del Carmen Jorquera, Ines Ponzone, Laura Macchia,Laura Peluffo, Lia Franzia, Linda Finardi, Rosanna la Spesa. Parteciperanno con loro poesie: Maria Ivana Trevisani, Maria Luisa Madini, Maria Teresa Castellana.


L’incontro sarà allietato da un Buffet Creativo sul tema della Mostra. Per la riuscita dell’evento chi intende partecipare è invitato/a a dare comunicazione entro mercoledi 6 Dicembre all’indirizzo eredibibliotecadonne@gmail.com o al tel. 3398417369


Ligabue

$
0
0

Un povero, un marginale, un “matto”. Eppure capace di vedere dietro il grigiore della Bassa padana animali esotici e piante tropicali. Dove per gli altri, i “normali”, c'era solo nebbia, Antonio Ligabue vedeva grandi macchie di colore. Una pittura visionaria dalla potenza evocativa assoluta.

Alberto Manguel

Ligabue

Borges, in un testo ormai famoso, lamentava la povertà dei nostri sogni, che trovava incapaci di ricreare a piacimento le cose del mondo esteriore. Cercare di sognare, per esempio, una tigre, diventò un esercizio fallimentare, confessava Borges. «Appare, sì, la tigre, ma debole o smagrita, o con impure variazioni di forma, o di una grandezza inammissibile, o in una visione troppo fugace, o somigliante a un cane o a un uccello". La nostra esperienza del mondo che ci circonda è immancabilmente superficiale: giudichiamo dalla pelle e dalla corteccia e non andiamo oltre, se non attraverso le invenzioni della psicologia e i miracoli del microscopio. La vista è un esercizio di intromissione. A volte, se le stelle sono benevole, vediamo non le bestie deboli e smagrite che apparivano a Borges, ma la tigre di Blake e i leopardi che irrompono nel tempio di Kafka.

Non sappiamo, naturalmente, che cosa vedesse Ligabue, ma possiamo osservare ciò che ha cercato di testimoniare, e queste rappresentazioni sono per il pubblico più vere della cosa vera. Le sue visioni sostituiscono le nostre. Le sue tigri e le altre sue creature selvagge — i gatti assassini, i ragni giganti, i lupi cattivi — prendono il posto, con sorprendente violenza, degli animali in gabbia dei nostri zoo urbani e delle bestie dei libri illustrati della nostra infanzia. Anche nelle sue scene di serene attività pastorali — l'aratura della terra, l'artista e la sua motocicletta (la stessa che gli sarebbe stata fatale) raffigurati durante una gita in campagna, la fattoria con i suoi pollai e i suoi cavalli aggiogati — trasudano un senso di pericolo dietro il loro aspetto di vita quotidiana. In queste scene, è accaduto, o sta accadendo, qualcosa di cui non siamo a conoscenza, o sta per accadere e verrà sparso del sangue. Il nostro sangue, forse, se non stiamo attenti.


Questo senso di minaccia o di timore viene in parte dalle stesse immagini raffigurate, ma in parte anche dal tessuto fisico dei dipinti, dalle spesse pennellate di colori primari, dalle forme ben definite delle zanne e degli artigli, dei rami e delle piume. Le creature di Ligabue e i loro paesaggi sono tangibilmente presenti, letteralmente sulle nostre facce, e premono fisicamente su di noi rivendicando il posto che gli spetta tra i vivi. Nei dipinti di Ligabue, il noto si rivela ignoto, l'atteso come inatteso. Ciò che è Heimlish (in tedesco, segreto) diventa Unheimlisch (rivelato).

Freud, nel suo saggio sul perturbante, osserva che «quelle cose, persone, impressioni, eventi e situazioni capaci di destare in noi con particolare forza e nitidezza il senso del perturbante», agiscono sui nostri sensi facendoci chiedere se «un essere apparentemente animato sia veramente vivo, o viceversa, se un oggetto privo di vita non sia per caso animato». Freud (citando un collega psicologo) fa riferimento al disagio che provocano in noi figure di cera, bambole artificiali e automi, aggiungendo a questa categoria l'effetto perturbante di crisi epilettiche e manifestazioni di follia, in quanto «fenomeni che suscitano nello spettatore la sensazione che processi automatici, meccanici, si celino dietro l'apparenza ordinaria dell'animazione ». Lo stesso si può dire in gran parte dei ritratti di Ligabue.


Degno di nota, tra le fauci spalancate di tigri, leoni e altre creature, è il volto dell'artista stesso. Il nostro viso è la nostra identità pubblica: dice al mondo chi siamo. La maschera, la faccia che imita una faccia, era indicata nell'antica Grecia come "persona", come se le sue fattezze, e nient'altro, bastassero per affermare la presenza di un individuo: una presenza o un'assenza. I ritratti sui sarcofagi romani del Fayum, le miniature dei defunti che pendevano al collo delle vedove rinascimentali, le fotografie color seppia dei cari scomparsi sulle tombe di marmo in Sicilia, attestano la persistenza di queste memorie dei morti ancora riconoscibili per i loro occhi, il loro naso, la loro bocca.

Per Ligabue, il volto dell'artista è la sua pretesa di esistere nel presente di chi lo osserva. Questa intuizione ha forse una giustificazione psicologica che ci insegna che lo "io sono" inizia con un "io non sono". «Nei primi mesi della nostra vita, quando il mondo comincia a formarsi in un sistema ordinato di segni significativi, salviamo dal magma di immagini che ci assediano l'immagine di un volto. Il primo senso di identità del bambino (un'esperienza che gli esseri umani condividono solo con elefanti, scimmie e delfini) deriva dal vedersi in uno specchio scoprendo che quel volto non appartiene a nessun altro. "Io non sono il volto al di sopra del seno che mi nutre", impara il bambino, "né il volto che si china su di me preoccupato quando piango, né il volto che ride con me quando sorrido. Sono un altro volto, un volto che è mio"».

Il volto di Ligabue, costruito con pennellate di colori non diluiti, è solo il suo, modellato da lui stesso per se stesso. Figlio di padre ignoto, orfano della madre e dei fratelli che morirono per un'intossicazione alimentare quando era ancora adolescente, rinchiuso in una clinica psichiatrica dalla madre affidataria ed espulso dalla Svizzera per una denuncia del padre adottivo, Ligabue fu più volte spogliato della sua identità. Solo quando l'artista Renato Marino Mazzacurati scoprì il talento di Ligabue e lo aiutò ad acquisire la tecnica pittorica, Ligabue cominciò a scoprire dei lineamenti che poteva definire suoi in autoritratti apertamente provocatori. In ognuno di essi, gli occhi nel viso emaciato guardano di lato, come sfidando lo spettatore a spostare il suo sguardo verso un angolo invisibile al di là della cornice.



Tutti i volti, reali o immaginari, seguono in qualche forma un processo di auto-riconoscimento e auto-costruzione. Il dottor Frankenstein porta a termine la costruzione del suo mostro solo dopo aver dato un volto adeguato al carattere perturbante della creatura. È il volto che Boris Karloff avrebbe immortalato nei film di James Whale, grazie all'abilità di Jack Pearce, un'artista del trucco.

Pearce si attenne rigorosamente alla descrizione di Mary Shelley: dove, secondo il romanzo, il dottore aveva inserito un cervello nel cavo del teschio preso in prestito, Pearce tracciò una lunga spaventosa cicatrice e diede alla pelle il pallore cadaverico descritto dall'autrice, che ottenne usando, in un film in bianco e nero, una pittura verde. Per indicare la sorgente elettrica che dà vita al mostro, Pearce inserì due bulloni sui lati del collo della creatura, con la funzione di orribili elettrodi.

Questo volto mostruoso, implicitamente composto dai pezzi dei tanti corpi smembrati da cui il medico ha tratto le sue parti, è quasi troppo grande per essere vero. Il volto enorme del Mostro è l'opposto del volto svuotato di Greta Garbo che fissa il mare che la circonda in La regina Cristina. Gli spettatori riempiono quel viso classico, privo di pensiero o sentimento, con i propri desideri e le proprie paure. Nel caso di Ligabue, il volto ritratto dell'artista non è vuoto come quello della Garbo, né pieno come quello del Mostro: volge lontano il suo sguardo da quello curioso dell'osservatore verso una zona di auto-definizione invisibile a tutti se non a lui.

In definitiva, cerchiamo la conferma della nostra esistenza nel nostro volto percepito, intuito o immaginato, come il pellegrino croato nel Paradiso che, dopo aver visto l'immagine della Veronica, esclama: «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?». Questa rassicurazione ci è data ogni mattina davanti allo specchio: Ligabue l'ha cercata di tela in tela. Credere in questa modesta supposizione dipende dalle nostre aspettative, dalla nostra memoria, dalla nostra capacità di arrenderci ai "non falsi errori" e all'evidenza delle cose viste.

Traduzione di Luis E. Moriones


La Repubblica – 21 novembre 2017

L’Ottobre russo nella morsa dello stato autoritario

$
0
0


Come fin dagli inizi la rivoluzione russa perse l'anima libertaria. Riprese in un libro le critiche alla dittatura bolscevica, fin da subito avanzate da Rosa Luxemburg e poi dagli esponenti del comunismo dei consigli (da Korsch a Paul Mattick). All'inizio del Novecento Trotsky era stato davvero profetico quando scriveva che il leninismo avrebbe portato al predominio del partito sulle masse, dell'apparato sul partito e del capo supremo sull'apparato. Nel 1917 le sue idee erano cambiate ed era ormai più leninista di Lenin, ma quella profezia si sarebbe puntualmente avverata e proprio Trotsky ne sarebbe stato la più illustre vittima.

Benedetto Vecchi

L’Ottobre russo nella morsa dello stato autoritario

A cento anni dalla presa del Palazzo d’inverno è tempo di tornare all’inizio di quell’esperienza tragica che è stato il «comunismo di stato». È questo il prologo del saggio scritto da Pierre Dardot e Christian Laval dal titolo programmatico Il potere ai soviet (DeriveApprodi, pp. 174, euro 15 – traduzione di Antonello Ciervo e Lorenzo Coccoli; il libro sarà presentato oggi a Roma in un incontro tra Mario Tronti e Pierre Dardot presso la libreria Odradek, in via dei Banchi vecchi, alle ore 18).

I due filosofi francesi non hanno remore a scrivere che il socialismo reale è stata una delle esperienze che, in nome della liberazione dell’umanità dallo sfruttamento, ha costruito soffocanti società autoritarie dove i gulag erano la sperimentazione delle nuove relazioni sociali. Ed è per queste ragioni che non è concessa nessuna nostalgia o apologia della Russia sovietica o della Cina maoista.

Il volume, dunque, non asseconda le letture che hanno individuato nella arretratezza della Russia zarista e nella durezza della guerra civile che accompagna i primi anni dopo la presa del potere dei bolscevichi, i motivi della degenerazione della Rivoluzione nell’oppressione sistematica del «comunismo di stato». Dardot e Laval non sono neppure interessati a distinguere Lenin dal suo successore, Stalin.


Né salvano Lev Trotski, autore e dirigente politico al quale si ispiravano le esperienze politiche che hanno condiviso in gioventù.

I due filosofi lo ripetono incessantemente per tutto il libro: a cento anni di distanza è tempo di tornare all’inizio perché è lì che ci sono tutti gli elementi che spiegano la tragedia sovietica. In altri termini: è nella teoria politica leninista che si annida quel che poi sarebbe accaduto con Stalin.

Per Dardot e Laval la presa del Palazzo d’inverno non è niente altro che un colpo di stato perché Lenin riusciva a immaginare solo una rivoluzione politica che aveva il suo acme nella conquista del potere politico e amministrativo dello Stato. Era attraverso lo stato che poteva essere instaurato (per legge?) il comunismo. E chi prospettava il linkage tra rivoluzione sociale e rivoluzione politica, veniva liquidato da Lenin come un infantile estremista. Inoltre il partito comunista, l’avanguardia e il mezzo per portare dall’esterno la coscienza di classe al proletariato, non poteva che sviluppare, gestendolo, un capitalismo di stato: detto brutalmente, il comunismo non è che un capitalismo di stato gestito dal partito comunista. Una semplificazione, questa, che non aiuta certo a comprendere sia i limiti dell’ottobre sovietico che la necessaria elaborazione di istituzioni che non chiudono la dialettica tra potere costituito e potere costituente.


Ma il dispositivo teorico dei due autori non accetta il luogo comune della tradizione comunista che vede la teoria leninista del politico come un processo scandito in due tempi: quello della necessaria transizione (la presa del potere, l’uso dello stato per dare forma ai bisogni della classe operaia, la sospensione della democrazia socialista in nome della difesa della Rivoluzione) e successivamente, quando le condizioni lo avrebbero permesso, l’estinzione dello stato, la socializzazione dei mezzi di produzione, cioè quello sviluppo di una società dei produttori fattore indispensabile per dare linfa vitale a quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti prospettato nella seconda metà dell’Ottocento da Karl Marx.

Dardot e Laval sintetizzano la loro presa di distanza e critica dalle tesi leniniste con la parole d’ordine di «tutto il potere ai soviet» che orienta la rivoluzione di febbraio e che Lenin rifiuta perché la priorità del partito comunista era la preparazione dell’insurrezione armata che culminerà con la presa del palazzo d’inverno. Dunque la rivoluzione d’ottobre come un colpo di stato che avrà come vittima sacrificale proprio i soviet. Per i due autori, la rivoluzione d’ottobre contemplava la costruzione di uno stato nazionale centralizzato e autoritario. Non c’è stato nessun tradimento staliniano, ma un processo che non poteva che costruire una società amministrata e gestita come un carcere.

Per questo, gli autori di riferimento del volume sono i comunisti consiliaristi come Anton Panneokek o la spartachista Rosa Luxemburg, così diversi tra loro, ma accomunati dalla critica alla concezione leninista del partito-avanguardia e dalla necessaria complementarietà tra rivoluzione sociale e rivoluzione politica. Ed è sempre per questo motivo che i modelli di rivoluzione preferiti sono la rivoluzione messicana del 1919 e la breve stagione della repubblica spagnola del 1936.


A cento anni di distanza occorre dunque tornare all’inizio, per metterlo a critica e superarlo proprio quando la rivoluzione è ritenuta una necessità per gestire un sistema sociale come pervasivo e illiberale come il capitalismo contemporaneo. L’analisi di Dardot e Laval punta cioè a recuperare lo spirito comunardo delle origini del movimento operaio per evitare il ripetersi di una tragedia, quella del socialismo reale.

Obiettivo ragionevole, ma comunque quella rivoluzione ha cambiato il corso della storia. Non è stata cioè solo tragedia, ma la possibilità aperta di una liberazione per uomini e donne.

Forse il bandolo della matassa da riprendere è proprio questo carattere liberatorio che ha prospettato – più che rispondere – la domanda dell’aderire o meno a quella rivoluzione. Perché, come recitano i versi della poesia Ottobre di Vladimir Majakovskij «Aderire o non aderire? La questione non si pone per me. È la mia rivoluzione».

Il Manifesto – 21 novembre 2017


Viewing all 3488 articles
Browse latest View live