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Situazionismo ad Albenga
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L’altra verità su Spartaco
Lo storico Giovanni Brizzi propone un‘interpretazione originale della sanguinosa rivolta di Spartaco. Numerosi indizi suggeriscono che l’autentica posta in gioco fossero i diritti delle popolazioni italiche che reclamavano la cittadinanza.
Paolo Mieli
L’altra verità su Spartaco
È giunto il momento di aprire il dossier dell’«altra Italia», quella del mondo appenninico e meridionale che fino all’inizio del I secolo a.C. prese più volte le armi contro Roma. E lo fece in conflitti che, pur assai diversi tra loro, ebbero, però, in questa costante ostilità uno speciale filo conduttore. Un filo conduttore già intravisto in passato, ma che è oggetto adesso di un interessantissimo e approfondito studio di Giovanni Brizzi, Ribelli contro Roma. Gli schiavi, Spartaco, l’altra Italia , edito dal Mulino. Prima Annibale, poi Silla che cercò di reclutare gli Italici alla sua causa, infine Spartaco, tutti provarono a far leva sull’«altra Italia». E in più occasioni quest’«altra Italia» fu sul punto di travolgere la città più importante dell’epoca.
La storia ricostruita da Brizzi ha inizio con la Seconda guerra punica (218-202 a.C.) che, secondo lo studioso, avviò una serie di processi «gravidi di conseguenze funeste». E, se si può dire che le spese sostenute dall’erario della Repubblica erano state molto, molto grandi, si può altresì documentare che «le distruzioni e i danni, anche permanenti subiti dalla penisola durante i quindici anni di presenza cartaginese» erano stati «spaventosi».
Le città prese da Annibale (e successivamente riconquistate dai Romani) furono ben 400. Molte di queste 400 città furono distrutte e date alle fiamme, le altre «ripetutamente espugnate e messe a sacco dalle parti in lotta». Con danni specifici per l’Italia del Sud: «I campi del Meridione furono per anni sistematicamente devastati e brutalmente sfruttati dagli opposti eserciti, intere popolazioni conobbero la deportazione in massa». Ciò che produsse la fuga dei contadini dalle loro terre (la Lucania e l’Apulia rimasero quasi deserte) e, assieme ad essa, la crisi irreversibile della piccola proprietà, progressivamente assorbita nel latifondo.
Il latifondo, d’altra parte, poté svilupparsi esclusivamente in virtù dell’utilizzo di schiavi, un grande utilizzo di schiavi. Di tale sfruttamento della manodopera servile si occuparono due autori greci, Strabone e Diodoro Siculo, contemporanei di Augusto, che avevano entrambi ampiamente attinto da Posidonio di Apamea, lo storico vissuto centocinquant’anni prima di loro. Il ricorso agli schiavi era già stato praticato in Sicilia in tempi precedenti. Ma, a seguito della sconfitta di Cartagine nella Seconda guerra punica (202 a.C.), i Siciliani godettero per sessant’anni di una immensa prosperità e tutti quelli che avevano estensioni di terra acquistavano, per poterle coltivare, enormi quantità di nuovi servitori.
In quali condizioni vivevano questi schiavi? Alcuni «erano tenuti in catene, altri erano gravati di lavori pesanti e in modo infame venivano tutti marchiati a fuoco», riferisce Diodoro; la Sicilia intera — dove la schiavitù introdotta prima dai Punici e poi dai Greci era praticata da almeno tre secoli — fu all’epoca «gremita da una massa di schiavi» in una misura che ancora adesso appare davvero «incredibile». I padroni di questi schiavi si distinguevano per «arroganza, avidità e crudeltà».
Ma le prime sommosse, in realtà, non si ebbero in Sicilia, bensì a Sezia e a Preneste nel 198 a.C. e poi ancora in Etruria due anni dopo. Si trattava di schiavi provenienti dalle «città fedifraghe», quelle cioè che nel corso della guerra avevano parteggiato per Annibale.
In queste aree geografiche si erano diffuse — in particolare nelle grandi fattorie dell’Apulia ma non solo — società segrete dedite ai culti misterici di Dioniso e di Proserpina. Culti di cui Catone il Censore, intuendone la carica ideologica, chiese fin dagli inizi una decisa repressione. Secondo Appiano, il tribuno Tiberio Gracco si allarmò per quello che stava accadendo in Sicilia a causa della concentrazione di grandi masse servili e fu il primo a predicare — anche sulla base di acute considerazioni in merito alle possibili conseguenze di questa proliferazione della schiavitù — il ritorno alla piccola proprietà coltivata da liberi contadini.
La rivolta siciliana scoppiò nell’autunno del 135 a.C. e fu domata solo nel 132 a.C. dal console Publio Rupilio. Ideologo di questa grande sommossa fu il carismatico siriaco Euno, che assunse il nome di Antioco. Euno, racconta Brizzi, si propose — come poi avrebbe fatto Spartaco — quale «vate di una realtà migliore», puntando a trasformare gli schiavi in combattenti. Come poi Spartaco, che vietò di introdurre oro e argento negli accampamenti, Euno «impose una spartizione rigorosamente equa della preda e, sembra, non permise se non in due circostanze soltanto che i prigionieri romani fossero costretti a battersi come i gladiatori». Inoltre bandì il saccheggio e incoraggiò «il rispetto di una proprietà che ebbe a soffrire piuttosto — a quanto riferisce Diodoro — dal rancore di quel libero proletariato che si era unito alla rivolta».
Trent’anni dopo, nel 105 a.C., esplose una seconda insurrezione che fu sconfitta solo quattro anni dopo, nel 101 a.C., dal console Manio Aquilio. E Spartaco? Brizzi è convinto che la sua sia tutta un’altra storia e che sia riduttivo considerarlo esclusivamente il capo di una rivolta servile. È chiaro, scrive, «che tra i suoi seguaci vi furono anche schiavi; ma le energie più consistenti e autentiche che alimentarono quella rivolta furono forse altre». Le «vere» rivolte degli schiavi, quelle siciliane, avevano costituito, secondo lo storico, «una sorta di drammatico preludio rispetto alla nuova, interminabile sequenza di lotte intestine che per venti lunghissimi anni bruciarono come in una fornace la gioventù italica e insieme quella romana, opposte su tutti i campi di battaglia della penisola».
Seguirono altri anni di guerra civile e l’«avventura di Spartaco» si inserisce con caratteristiche peculiari in questo interminabile conflitto. Conflitto che si produsse — ed è qualcosa da tenere bene a mente — lungo una linea fissata con efficacia da Santo Mazzarino: all’epoca «solo la parte a destra degli Appennini si può chiamare propriamente Italia; quanto all’altro versante, quello che digrada verso lo Ionio, ora anche questo è chiamato Italia, ma sono Greci coloro che abitano lungo la costa ionica; e il resto l’occupano i Celti». Due Italie diverse, insomma. Tant’è che gli scontri avrebbero avuto termine solo con la piena unificazione della penisola ad opera di Augusto.
Tornando a Spartaco, Brizzi dubita, tra l’altro, che fossero davvero tutti schiavi i seimila uomini crocefissi lungo la via Appia allorché la rivolta fu domata. Ricorda che «al termine del primo conflitto combattuto in Sicilia, a conclusione di quella che potremmo definire forse la più autentica tra le guerre servili, gli schiavi non vennero uccisi, bensì restituiti ai loro padroni, nel rispetto di una proprietà nei confronti della quale i Romani mostrarono allora massima considerazione». Con Spartaco le cose andarono in modo diverso. Molto diverso. E questa differenza, secondo Brizzi, «potrebbe essere stata motivata non dal differente momento storico, ma dalla diversa natura del nemico, così almeno come veniva percepita».
Nel 71 a.C. è probabile che la caratteristica attribuita ai seimila seguaci di Spartaco crocefissi fosse quella («imperdonabile per i Romani») di «ribelli a oltranza». E forse «si volle dare un definitivo, atroce esempio a chiunque intendesse ripercorrere la strada di quanti, neppur dopo Silla, si erano lasciati piegare dalle recenti tragiche disfatte».
Racconta Appiano che, in procinto di misurarsi ancora una volta con Roma, Mitridate ritenne di poter contare sugli Italici poiché sapeva che «recentemente quasi tutta l’Italia per odio si era ribellata ai Romani e a lungo aveva fatto loro guerra, e contro di loro si era unita al gladiatore Spartaco».
Se questo è vero, si domanda Brizzi, «da che cosa gli ex alleati poterono essere indotti, pur dopo la concessione della cittadinanza, a una nuova, sanguinosa rivolta, a capo della quale finirono addirittura per accettare un gladiatore trace?». Certo, concede l’autore, «lo strazio della guerra civile e le proscrizioni, gli espropri sillani e la miseria nata dal conflitto: fattori, questi, che, certo, contarono tutti».
Ma la risposta più autentica alla domanda posta poc’anzi «può forse essere cercata in una significativa anomalia». Quale? Il tentativo compiuto dai censori eletti per l’anno 89 di contare tutti i cittadini, compresi quelli più recenti, era andato incontro al fallimento più completo; e un censimento regolare si era tenuto successivamente solo nell’86-85 a.C.
In questa seconda circostanza però — malgrado il dato ancora una volta inequivocabile dello stesso Appiano secondo il quale «i nuovi cittadini superavano largamente per numero i vecchi» — rispetto ai 395 mila circa censiti alla fine del secolo precedente, ne erano stati computati 463 mila, «con un incremento assolutamente irrisorio di 68 mila soltanto». Pochi, troppo pochi furono quelli che avevano effettivamente ottenuto la cittadinanza. Cosa che non poteva non destare il malcontento degli Italici.
Spartaco ebbe l’astuzia di farsi interprete di questo malcontento. Forse in un primo momento si calò nei panni di un «comandante vittorioso venuto dall’Oriente», di cui qualcuno proprio in quel momento storico aveva vaticinato l’avvento. Ma quella del «comandante» che prima o poi sarebbe entrato a Roma accolto come un trionfatore fu un’illusione di breve durata. Escluso dal mondo delle città, sostiene Brizzi, Spartaco «tornò, sia pure con speranze sempre più fievoli, a cercare nuovi alimenti alla lotta in quella seconda Italia che per secoli aveva combattuto contro Roma; e che prima durante la guerra sociale, poi durante la guerra civile sillana, era stata sconfitta senza però essere stata ancora completamente domata».
Ed è forse «per esorcizzare questa immagine, e soprattutto per dimenticare che una parte cospicua dell’Italia di allora aveva seguito un gladiatore trace contro la res publica , che — con l’eccezione di Sallustio (e, parzialmente, di Appiano…) — quasi tutta la storiografia romana sembra aver deformato la figura di Spartaco in una maschera, che sovrapponeva alla sua identità reale l’immagine dello schiavo fuggiasco». E, allo scopo di infangarlo, del «gladiatore partecipe della peggior condizione umana» (Floro), della «belva insensatamente scatenata contro lo Stato egemone».
Così un esercito fatto di genti che provenivano dalle aree montuose del Meridione d’Italia fu identificato con la figura di quel capo di una «rivolta servile», un personaggio che non avrebbe potuto nutrire altra aspirazione che quella, «nobile ma limitata», alla libertà individuale o, al più, sognare, sottolinea Brizzi «un ritorno a una patria che egli, invece, rinunciò fino dall’inizio a perseguire». Ma in realtà Spartaco non fu niente di tutto questo. Fu piuttosto il ribelle con la cui morte si chiuse di fatto una ferita aperta da secoli.
Nell’arco di diciotto anni appena l’Italia aveva conosciuto ben tre feroci guerre intestine («poiché di questo, in realtà, si era trattato», scrive Brizzi, «anche nell’ultimo caso»); guerre che, «se alquanto diversi erano stati gli spunti iniziali», avevano però invariabilmente attinto le principali energie «da un ben preciso serbatoio di instabilità». A chiudere la partita fu la decisione romana — guarda caso proprio dopo aver sconfitto Spartaco e aver esposto lungo la via Appia i corpi degli ultimi seimila ribelli crocefissi — di concedere finalmente agli Italici quello che anche Silla aveva tentato di garantir loro: la piena fruizione della cittadinanza.
«Non può essere una coincidenza», fa notare Brizzi, «che, contro i 463 mila dell’atto precedente, il nuovo censimento del 70-69, il primo dopo la morte di Spartaco, registri nelle liste ben 910 mila cittadini, ai quali vanno aggiunti probabilmente i 70 mila uomini sotto le armi oltremare». Quasi un milione di persone.
Ecco chi fu davvero Spartaco secondo Brizzi: «l’ultimo condottiero di un’Italia disperata e furibonda, da secoli in lotta con Roma che, pur nella morte, l’aveva, in fondo, portata alla vittoria».
Dopo di lui altri cercarono di pescare almeno in parte dal fondo dello stesso barile: Catilina è uno di questi. O Lepido, il «console sovversivo» che si appoggiò ad alcuni capi «mariani» dispersi, altri «banditi», gli ultimi «Etruschi ribelli». Forze alle quali «aveva forse pensato già Spartaco nella sua infruttuosa puntata verso nord, venendone però rifiutato». Ma ormai la spinta si era esaurita, tant’è che l’autore considera Spartaco e non Lepido «l’ultimo vero conduttore della seconda Italia».
Quanto a Roma, «ripensando a questi eventi nella sua più tradizionale storiografia, preferì dimenticare e rimuovere; come del resto già aveva fatto nei confronti degli infelici Sanniti, quando l’annalistica di età sillana aveva cancellato “ufficialmente” la sconfitta subita dalla stessa Roma nella prima guerra contro di loro, giungendo a stravolgere la cronologia degli eventi». Pratiche non inusuali in una storiografia avvezza a riscrivere il passato in funzione del presente.
Il Corriere della sera – 7 novembre 2017
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Proverbi di novembre nelle Alte Terre Langasche
Una paginetta di cultura popolare langarola
Guido Araldo
Proverbi di novembre nelle Alte Terre Langasche
ai Sant, scarpon e guant = ai Santi, scarponi e guanti (comincia il grande freddo);
nuvembr in campägna u-descpöia ‘a casctägna = novembre in campagna spoglia la castagna
l’isctâ ‘d san Marten a-düra da ‘a seira a la maten = l’estate di san Martino dura dalla sera al mattino.
se a san Marten u-l’è sren, i bergé e-catu ‘r fen = se a san Martino è sereno, i pastori comprano il fieno (poiché l’annata successiva sarà magra di fieno);
a sant Omobòn, vanta fè fescta se ‘r temp u-l’è bon = a sant’Omobono (13 ottobre), bisogna far festa se il tempo è buono (giacché ormai la brutta stagione avanza);
a nuvembr, su l’è sren, ‘a brena a fâ ben = a novembre, se è sereno, la brina fa bene (spoglia gli alberi, impedendo rovinose nevicate premature “sulla foglia” che devastano gli alberi, rende croccante i cavoli e completa la maturazione dei cachi);
a sant’Andréia l’invern u-monta ‘n cadréia = a sant’Andrea (30 novembre) l’inverno sale sulla sedia.
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L'America operaia di Carl Sandburg
"La nebbia avanza/ su piccole zampe di gatto./ S’accuccia a osservare/ il porto e la città/ su terga silenziose/ e poi se ne va".
Poesia del Novecento. Con «Chicago Poems», la sua raccolta d’esordio (ora in traduzione integrale da Sedizioni), Carl Sandburg rimise in discussione nel 1916 l’usurato discorso ottocentesco sulla bellezza .
Caterina Ricciardi
L'America operaia di Carl Sandburg
Nonostante sia stato riconosciuto come uno dei più fortunati biografi di Lincoln, Carl Sandburg, che sarebbe diventato il menestrello con chitarra omaggiato da Bob Dylan e Marilyn Monroe, ha avuto un po’ di vecchia gloria in Italia grazie ad alcuni stimati ammiratori e a una selezione curata da Franco De Poli nel 1961, cui è seguita – a cinquant’anni di distanza – la sola prima sezione di Chicago Poems nella traduzione di Laura Ferri.
Era tempo, dunque, di rimetterci le mani su questo poeta dell’avanguardia di casa, un midwesterner (come i migliori letterati di quel tempo), figlio di immigrati svedesi, e probabilmente il primo poeta americano dell’immigrazione non anglofona. A farlo in modo più sistematico ci ha pensato Franco Lonati, il quale, con un nutrito saggio conclusivo, presenta nella sua integrità Chicago Poems (premessa di Francesco Rognoni, testo originale a fronte, Sedizioni, pp. 375, euro 29,99), la raccolta di esordio pubblicata nello stesso 1916 in cui si consolidò il successo di Edgar Lee Masters.
Fu un anno felice per la Chicago letteraria che, geograficamente lontana dagli sperimentalismi di una generazione più giovane trapiantata allora in Europa, entrava in gara nel dettare le linee di un rinnovamento, e promuovere un sentire poetico dal gusto autoctono.
Un segnale che le sette sezioni e 133 poesie di Chicago Poems mostrano nella modulazione della varietà di stilemi, dei ritmi e delle forme, fattori che, contestualmente, ridimensionano il luogo comune del Sandburg epigono modernista e proletario di Walt Whitman, un giudizio ammesso dal vigore diffuso nei versi liberi e lunghi di molte poesie e in particolare della prima dedicata alla multietnica, indaffarata Chicago (la città dei mattatoi e della finanza): la «Macellaia di Maiale per il Mondo», la «Maneggiatrice del Trasporto Nazionale», città «rozza» e «rissosa» nei suoi bassifondi, città «perversa». Con le sue affiliazioni e soprattutto con le sue rotture, Sandburg rimetteva in discussione l’usurato discorso ottocentesco della «bellezza» e – su altro versante – quello della gestione dell’ideale democratico, con sguardi su un’altra America, un’America più dimessa, tradotta nella scrittura poetica con mezzi che sfuggivano alle regole del decalogo ufficiale.
Perché l’occhio del poeta si sofferma in ampie tirate su semplici operaie di fresca immigrazione che «al mattino vanno al lavoro – camminando in lunghe file fra i magazzini e le fabbriche del centro, a migliaia con i cestini del pranzo a forma di mattone avvolti in giornali e portati sotto il braccio»; sull’incontro con un «dinamitardo» in «una trattoria tedesca a mangiare bistecca e cipolle» e discutere della «causa del lavoro e della classe operaia»; o, in versi più brevi e sincopati ammiccanti a un jazz di sottofondo, su un afroamericano: «Io sono il negro, / Canto canzoni, / Ballo … / Più soffice di un batuffolo di cotone».
Sono tessere di un affresco che, scrive Lonati, «come i dipinti di Pellizza da Volpedo, glorificano – non senza occasionali eccessi retorici – il cammino dei lavoratori, l’umile ma inesorabile avanzata del popolo», anche quando, e senza eccessi retorici, da quell’affresco emergono, con i batuffoli di cotone, i bellissimi (anche in traduzione) volti truccati delle prostitute di North Clark Street: «Rose / Rose rosse, / Sgualcite / Nella pioggia e nel vento / Come bocche di donne / Percosse dai pugni degli / Uomini che le sfruttano. / O piccole rose / E foglie infrante / E frammenti di petalo: / Voi che solo ieri / Splendevate scarlatte / Al sole». Sono i «fiori del male» d’America appena spuntati alla luce.
È, dunque, soprattutto una poesia di impegno sociale quella di cui Sandburg si fa tra i primi portavoce in un disinibito ritratto della città corrotta che ama, mentre, con un tocco dell’Imagismo inventato oltreoceano, al suo respiro ecumenico e commemorativo, egli alterna una vena più lirica, contemplativa, da epifanico micro-osservatore di particelle della natura, dei moti dell’anima, della morte e dell’amore: «Il ricordo di te è … un’azzurra lancia in fiore. / Non riesco a ricordarne il nome. / Accanto a un ardito papavero sgocciolante ci sono fuoco e seta. / E ti ricoprono».
Non sono estranei all’influsso pittorico (dall’Impressionismo al Japonisme) certi improvvisi accostamenti coloristici e gli scarti semantici, che sfumano invece nell’idillio monocromatico in quei componimenti in cui con voce incantata si coglie lo spirito antico del luogo: la lucentezza notturna del lago, le sue «bianche bolle sfinite», la «svolazzante burrasca di gabbiani», e la nebbia che «avanza / su piccole zampe di gatto. // S’accuccia a osservare / il porto e la città / su terga silenziose / e poi se ne va». In queste «Manciate» (così il titolo della seconda sezione) di puro lirismo resta il contributo più vincente del futuro menestrello.
Il Manifesto/Alias – 22 ottobre 2017
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Ungaretti a Savona
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Le Quattro giornate di Napoli, una foto di massa della città combattente
«Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti» di Giuseppe Aragno. Uno studio che ricostruisce l'insurrezione antitedesca partenopea restituendole il posto che le spetta nella storia della Resistenza. [Le immagini sono tratte dal film di Nanni Loy]
Piero Bevilacqua
Una foto di massa della città combattente
Ci sono eventi della nostra storia, anche con caratteri insolitamente epici e drammatici, che non riescono a inserirsi nella narrazione positiva e dominante della vicenda nazionale. Gli stereotipi finiscono con l’avere la meglio sulla realtà effettiva e dunque riescono a confinarli nella sfera dell’eccezione, nella nicchia di un’altra retorica. È il caso delle Quattro giornate di Napoli e della loro collocazione nella storia della Resistenza italiana.
A dispetto dei tratti perfino eroici di una insurrezione popolare impari, per rapporti di forza, di semplici cittadini contro l’esercito tedesco occupante, quelle memorabili giornate vengono confinate, e quasi staccate dalla storia generale della Resistenza, per essere racchiuse nell’icona di una ribellione plebea, fatta di rabbia, spontaneità e di disordinati istinti libertari. Lo racconta ora con chiarezza e con passione Giuseppe Aragno, rendendo giustizia e onore a tanti protagonisti (Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, pp. 327, euro 18).
«Tra settembre e ottobre del 1943 – ricorda l’autore – dall’armistizio all’arrivo degli alleati, la città che combatte presenta alla storia una delle più significative ’foto di massa’ della guerra di liberazione, ma nell’immaginario collettivo prevalgono sin dall’inizio la città dei vicoli, del degrado e del ’popolino’». Finisce coll’imporsi nell’immaginario collettivo una foto del grande Robert Capa, destinata al rotocalco americano Life, che ritrae un gruppo di ’scugnizzi’ in armi, come i protagonisti e solitari eroi dell’impresa. Solo che, contraffazione su contraffazione, la foto non è di Capa, ma gli è stata venduta da un comunista militante, presente agli eventi. Ovviamente, non sarebbe bastata una foto, per quanto celebre, a segnare la sorte delle Quattro giornate nella memoria nazionale.
È ovvio che le ragioni vanno ricercate in più cause, dipendenti dalla speciale attitudine della cultura italiana a creare stereotipi rassicuranti sulla realtà del nostro Sud. Ma c’è dell’altro. Come Aragno documenta con scrupolo, lo schema delle Quattro giornate evento isolato, senza una organizzazione precedente e senza un seguito, pura parentesi ribellistica, è anche accreditato dai più autorevoli storici della Resistenza. Non solo Roberto Battaglia (1953), ma perfino Claudio Pavone, che ha scritto pagine di grande suggestione, ancorché controverse, su questa fase drammatica della nostra vicenda nazionale, non è andato oltre la vulgata dominante. Anche Pavone si è ispirato, come egli stesso ha scritto in Una guerra civile, al «Cippo posto nel parco di Capodimonte» dove «si legge: ’Caduti in armi per la difesa del focolare. Addì 29 settembre 1943». Era la prima volta che i ’lazzari’ si trovarono nella storia dalla parte giusta».
I lazzari? La plebe napoletana che d’improvviso fa esplodere la propria viscerale rabbia e che casualmente si trova dalla «parte giusta della storia»? Proprio su questo giornale (28/2/2017) abbiamo ricordato, recensendo il bel Calendario Civile a cura di Alessandro Portelli, il saggio di Gabriella Gribaudi che mostrava il ruolo di primissimo piano avuto nella rivolta dalla classe operaia napoletana, insieme a ufficiali dell’esercito che si esposero in prima persona.
Aragno ha il merito di ricostruire il vasto e composito reticolo dei dirigenti politici, soprattutto comunisti, che ebbero un ruolo rilevante, prima, durante e dopo le Quattro giornate. Si è posta la domanda se «esiste un volto politico» di quell’evento. E ha dato una risposta fruttuosa, non solo utilizzando ricerche precedenti di altri storici – che per fortuna non sono mancate in questi anni – ma anche indagini sui fascicoli personali dei combattenti presso l’Archivio di Stato di Napoli e il Centrale di Roma e soprattutto sui verbali e materiali offerti dalla Commissione Regionale Campana per il Riconoscimento Qualifiche e Ricompense ai Partigiani.
Una fonte preziosa ancorché non ordinata. L’insieme di questi documenti ha permesso all’autore di ricostruire innumerevoli profili di attivisti e dirigenti politici «che non rimandano solo a storie di militanza, ma rivelano la presenza sul campo di due generazioni di antifascisti, figli di culture politiche spesso in contrasto tra loro e tuttavia temporaneamente uniti nella lotta al fascismo».
Il volume – che tra l’altro offre in appendice 50 pagine di brevi profili biografici dei protagonisti – ricostruisce da vicino e sin dall’avvento del fascismo molte di queste figure, destinate a lavorare nella clandestinità, a Napoli e fuori, nel corso del ventennio e ad avere spesso un ruolo di rilievo nel dopoguerra. Sicché di notevole rilievo risulta la ricostruzione dei conflitti all’interno del fronte comunista napoletano, dove la linea di Togliatti, ebbe ad affermarsi tra non pochi conflitti e spesso brutalità. Storia tuttavia non di soli comunisti, ricorda Aragno. A riprova del carattere non plebeo delle Quattro Giornate l’autore non dimentica il ruolo che vi ebbero ufficiali dell’esercito, dirigenti liberali e perfino monarchici «antibolscevichi».
Il Manifesto – 21 ottobre 2017
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Il governo dei poveri all’inizio dell’età moderna
Nel 1500 l'avvento della modernità fu nel segno della disgregazione inarrestabile del vecchio mondo contadino medievale. Masse di disperati si riversarono nelle città e nelle aree più sviluppate, trasformando la miseria in un fenomeno di ordine pubblico. Oggi l'integrazione del sud del mondo nel circuito mondiale delle merci e dei capitali (l'accumulazione e non il sottosviluppo, dunque) genera fenomeni e paure sociali non molto diverse.
Vincenzo Lavenia
Sulla pelle degli ultimi, la costruzione di un disciplinamento
Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del secolo scorso, grazie alle indagini di storici come il futuro eurodeputato polacco Bronisław Geremek, riemerse un dibattito poco noto che aveva diviso i fronti nel lontano secolo della Riforma. Protagonisti della disputa alcuni teologi, umanisti e giuristi celebri e meno celebri (un nome per tutti: quello di Thomas More). Il tema discusso era la gestione della povertà e della carità in anni di crescita urbana e di incipiente inflazione, quando cioè la miseria aveva cominciato ad apparire sempre più come una minaccia all’ordine, e la mobilità come il veicolo di infezioni al tempo stesso medicali e sociali.
A Lione, ne 1539, si era parlato per esempio di «navi lasciate andare senza pilota lungo il Rodano e la Soana», con un orribile carico di «gente affamata, e più smagrita e secca dei cadaveri preparati per la lezione di Anatomia»: un’autentica minaccia per la città e i traffici. Erano navi dei folli, come quelle raffigurate nei testi di Sebastian Brant; imbarcazioni che oggi ci evocano quelle di un Mediterraneo ridotto a lago di cadaveri e a scia della disperazione.
Non ci sono dubbi, pertanto, sull’urgenza di un libro come quello che Lorenzo Coccoli ha dedicato a una questione in apparenza remota ne Il governo dei poveri all’inizio dell’età moderna. Riforma delle istituzioni assistenziali e dibattiti sulla povertà nell’Europa del Cinquecento (Jouvence, pp. 248, euro 22). Perché nel XVI secolo, come ai nostri giorni, la pietà stava cedendo il passo alla forca, la libertà di muoversi alla reclusione, la marginalità all’obbligo di lavorare: ovvero alla messa a frutto della miseria.
Sapevamo che un passo di Erasmo aveva suonato l’allarme: il mendicante – aveva scritto l’umanista all’inizio del Cinquecento – non poteva più sperare nella tolleranza delle autorità cittadine. Sapevamo che Lutero aveva introdotto un testo che denunciava i presunti inganni dei vagabondi per gabbare i fedeli e per ottenere l’elemosina vivendo pigramente; sapevamo, grazie a Piero Camporesi, che la letteratura proto-moderna sulla pitoccheria fu carica di risvolti picareschi e di significati disciplinari. Coccoli tuttavia ci riporta in quel contesto e riparte da un’opera del coltissimo Juan Luis Vives (scappato egli stesso da Valencia per sfuggire alle persecuzioni inquisitoriali) che nel 1526, quando ancora i cadaveri dei contadini e degli anabattisti concimavano le campagne tedesche, propose alle municipalità delle prosperose Fiandre di introdurre una polizia della povertà.
All’elemosina individuale, come precetto di carità e mezzo di salvezza, si doveva sostituire una cassa pubblica e centralizzata delle offerte; all’aiuto sporadico l’assistenza regolare; alla sovvenzione indiscriminata quella oculata e capace di distinguere veri e falsi poveri (i borghesi in difficoltà che impoveriti perdevano l’onore contro le furbe maschere della marginalità da sorvegliare e da castigare).
Le istituzioni pie della Chiesa avrebbero perso funzione in favore di reclusori governati da magistrati secolari; il povero l’aura di alter Christus a vantaggio della criminalizzazione e della coazione al lavoro e alla disciplina religiosa e sociale. Prima delle famigerate Poor Laws inglesi e delle istituzioni totali del XVII secolo, mentre infuriava lo scontro fra protestanti e cattolici, alcune città governate da Carlo V o poste sotto la Corona francese introdussero regolamenti e ordinanze per stabilire un nuovo governo della carità, nuovi ospizi per i poveri e una distribuzione controllata e punitiva delle sovvenzioni per i più bisognosi.
Non si trattò di un passaggio riuscito: tali disposizioni rimasero lettera morta in molte città europee; né le soluzioni proposte da Vives e da alcuni religiosi furono accettate unanimemente. Autorevoli membri degli Ordini mendicanti (come il frate domenicano Domingo de Soto, teologo di Salamanca) censurarono quelle idee e quelle norme facendo apologia di un’immagine più tradizionale e più paternalistica della carità e della povertà; le bollarono alla stregua di eresie che colpivano il precetto cristiano dell’elemosina, criminalizzavano i poveri e sottraevano alla Chiesa un campo che le era proprio.
Tuttavia i novatori seppero difendersi dando vita a una controversia che Coccoli ricostruisce minutamente ed elegantemente (il libro si segnala anche per la sua scrittura limpida) non per amore dell’erudizione, ma per parlarci dei dispositivi disciplinari di ieri e di oggi; per ricordarci che l’obbligo di lavorare già alcuni secoli fa venne proposto come una soluzione contro i presunti fannulloni; che quelle discussioni prefiguravano un governo pastorale moderno e al tempo stesso coercitivo; che progettavano nuovi poveri in un momento in cui, nelle Indie di là, nasceva l’encomienda e nell’Europa cristiana tramontava una teologia della ricchezza e della povertà che studi come quelli di Peter Brown e di Giacomo Todeschini ci hanno aiutato a comprendere. E infatti il libro – che non inquadra più quella discussione in modo ottimistico come nucleo originario delle idee sul welfare – si chiude nel nome di quel Michel Foucault che, a molti anni di distanza dalla sua morte, continua a interrogarci tutte le volte che parliamo di polizia, di marginalità e di disciplina.
Il Manifesto – 7 novembre 2017
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Nicola Chiaromonte, intellettuale straniero in patria
Esce la biografia del filosofo antifascista fondatore di riviste liberal negli Stati Uniti, negli anni della guerra fredda direttore (con i soldi della CIA) della rivista “Tempo presente”.
Francesco Erbani
C’era una volta Chiaromonte intellettuale straniero in patria
In apertura della biografia che gli dedica, Cesare Panizza accosta Nicola Chiaromonte ad Antigone. E gli interrogativi sono conseguenti all’assimilazione dell’eroina di Sofocle al direttore di Tempo presente, intellettuale cosmopolita e senza parrocchia, straniero in patria, ma al centro di una rete cui partecipano Albert Camus e Hannah Arendt, artefice di riviste liberal negli Stati Uniti, fautore di una sinistra fuori dalle gabbie dello stalinismo. E dunque: può la politica prescindere dalla morale? Ci sono principi osservando i quali ci si sottrae alle leggi della politica? Questo filo percorre l’attraente volume di Panizza ( Nicola Chiaromonte, Donzelli).
Chiaromonte, che nasce a Rapolla, in Basilicata, nel 1905, è ritratto come un “maestro segreto”, che dunque ambisce «a vivere nascosto». Eppure spicca il suo nome negli anni Cinquanta e Sessanta nel fronte dell’anticomunismo democratico (celebre il suo Il tempo della malafede).
Su Tempo presente Chiaromonte denuncia il totalitarismo sovietico, ne racconta l’irriformabilità e ne anticipa il collasso. Al suo fianco è Gustaw Herling, lo scrittore polacco di Un mondo a parte. Contemporaneamente Chiaromonte tiene la rubrica di critica teatrale prima sul
Mondo, poi su Sipario e sull’Espresso.
Nella biografia definiscono il profilo di Chiaromonte sia i materiali della riflessione culturale, sia gli elementi caratteriali. Il suo, si legge, è un temperamento «facilmente portato alla malinconia e soggetto a cicliche crisi depressive». Di grande importanza è il carteggio che intrattiene dal 1957 fino alla morte con la poetessa Melanie von Nagel, che poi diventa “sister Jerome” in un convento benedettino del Connecticut.
L’antifascismo di Chiaromonte matura negli anni universitari e trova riscontro nell’amicizia di Paolo Milano, di Alberto Moravia, e poi, fra gli altri, di Carlo Levi, Corrado Alvaro, Alberto Carocci. Collabora al Mondo di Alberto Cianca. Scrive su Solaria e su Oggi. Ma presto l’antifascismo si precisa e dall’iniziale adesione a Giustizia e Libertà prende una strada a tratti isolata, ma ricca di spunti.
La sua attenzione è sul rapporto fra la moderna società di massa e il regime. Lo impressiona la passività di fronte al fascismo di quella «poltiglia indefinibile, fatale prodotto della decomposizione della vecchia società sottoposta al lavorio dello Stato moderno e dell’industrialismo». Per Chiaromonte il fascismo è stato capace, scrive Panizza, di sublimare «in un’ideologia nazionalista e statolatrica quella “tragica assenza di libertà”, tipica della società di massa».
Dalla metà degli anni Trenta Chiaromonte è in Francia, bollato come cospiratore dal Tribunale speciale. I suoi orizzonti culturali si dilatano e allo scoppio della Seconda guerra mondiale vola negli Stati Uniti. Oltreoceano si sente spaesato. Entra però in contatto con Gaetano Salvemini, ma soprattutto con la Partisan Review, organo liberal. Insieme a due esponenti del mondo radicale, la scrittrice Mary McCarthy e Dwight Macdonald, dà vita nel 1943 alla rivista politics e conosce Hannah Arendt.
L’irrequietezza culturale è la cifra del gruppo, che si propone una riforma del pensiero socialista, sganciato dal marxismo che nell’Urss ha soggiogato l’essere umano. Nel frattempo assume un peso decisivo Camus, che agli occhi di Chiaromonte (rientrato a Parigi nel 1947) appare alternativo al modello di engagement proposto dagli intellettuali comunisti. La guerra fredda cinge d’assedio la riflessione etica e culturale. Il filo di un socialismo libertario si riannoda in Tempo presente, che nasce nel 1956. Firmano per la rivista, di cui è direttore anche Ignazio Silone, Leonardo Sciascia e Alberto Arbasino, Furio Colombo, Vittorio Gorresio ed Enzo Bettiza.
Enzo Forcella pubblica Millecinquecento lettori, la spietata analisi di un giornalismo che si svolge a circuito chiuso. La rivista si schiera contro l’arresto di Danilo Dolci e, anni dopo, a fianco del foglio studentesco La zanzara.
Inoltre sulle proteste giovanili Chiaromonte manifesta quell’interesse, condito da critiche, di cui non c’è tanto riscontro altrove.
Ma su Tempo presente si abbattono nel 1966 le rivelazioni sui finanziamenti della Cia al Congresso per la libertà della cultura, che a sua volta finanzia la rivista. La genuinità di una sinistra antitotalitaria viene macchiata. Panizza propende per la buona fede di Chiaromonte, che nulla avrebbe saputo sulla provenienza di quei soldi e i cui riferimenti politici e culturali hanno antiche origini. Inoltre Chiaromonte non tace il dissenso nei confronti dell’intervento americano in Vietnam. In ogni caso per Tempo presente la vita si fa precaria. L’ultimo numero esce nel dicembre del 1968. Poco dopo, nel 1972, Chiaromonte si spegne.
La Repubblica – 16 novembre 2017
Cesare Panizza
Nicola Chiaromonte
Donzelli
euro 29
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Heidegger filosofo del Reich fino al 1942
Uno dopo l'altro i tasselli vanno a posto ricostruendo l'immagine di un nazista, convinto antisemita, impegnato a sostenere il regime anche con incarichi delicati. Si scopre ora che per otto anni, fino al 1942, il filosofo partecipò a una commissione ufficiale presieduta dal criminale di guerra Hans Frank destinata a ridefinire in senso nazista il diritto tedesco. E questo mentre già a milioni gli ebrei venivano eliminati nelle camere a gas.
Antonio Carioti
Heidegger filosofo del Reich fino al 1942
Durante il Terzo Reich, anche dopo le sue dimissioni da rettore dell’Università di Friburgo il 27 aprile 1934, Martin Heidegger non rimase affatto estraneo al regime. Anzi partecipò per almeno otto anni, fino al luglio 1942, a una commissione per la filosofia del diritto che ebbe un ruolo di rilievo nella nazificazione del sistema giuridico. Un organismo presieduto dal famigerato Hans Frank, futuro governatore della Polonia occupata durante la guerra, di cui facevano parte figure come Alfred Rosenberg, ideologo antisemita, e il famoso giurista Carl Schmitt.
La circostanza non era ignota, ma ora un lavoro della studiosa tedesca Miriam Wildenauer sul nazismo degli accademici, in uscita il prossimo anno, approfondisce la questione. In particolare emerge che Heidegger era ancora membro della commissione (i cui verbali non sono stati reperiti) nell’estate del 1942, quando era già stata avviata la Soluzione finale del problema ebraico attraverso lo sterminio.
«Non si tratta di un dettaglio biografico, ma di una notizia molto rilevante», osserva Donatella Di Cesare, autrice del libro Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri), in cui denuncia l’orientamento antisemita del pensatore analizzando i suoi Quaderni neri , taccuini filosofici rimasti a lungo inediti. La coincidenza tra la stesura di quegli appunti e la partecipazione alla commissione, a suo parere, è assai significativa: «Non si può più descrivere Heidegger come un apolitico, perché emerge chiaramente che era coinvolto appieno nell’ambiente intellettuale da cui vennero elaborate le leggi razziali di Norimberga del 1935, premessa necessaria della Shoah. Le sue responsabilità non sono quindi minori rispetto a quelle di Schmitt, che a differenza di lui venne messo sotto accusa dopo la guerra».
Il problema, secondo Donatella Di Cesare, riguarda anche la storiografia: «Colpisce che un fatto così grave venga alla luce soltanto adesso: mi domando come mai in Germania per tanti anni nessuno abbia svolto ricerche sull’argomento».
Il Corriere della sera – 17 novembre 2017
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Frankenstein o il segno mostruoso della modernità
Duecento anni fa veniva pubblicato «Frankenstein, o il moderno Prometeo» scritto a soli diciannove anni da Mary Shelley e rimasto il suo capolavoro. La forza del romanzo sta nella sua ambiguità, nel suo prestarsi a più interpretazioni. Dotato di atmosfere gotiche, ed effetti visionari, il testo si presta a una lettura psicoanalitica, ma anche politica. Insomma, una modernità (siamo agli inizi della società teconologica oggi pienamente dispiegata) che inizia a guardare a sé stessa con orrore.
Andrea Colombo
Frutto della scienza non della magia
Quando Lord Byron, assediato con quattro amici dal maltempo e dalla noia in una villa sul lago di Ginevra, sfidò tutti a inventare una storia gotica non immaginava probabilmente che quel gioco letterario avrebbe aperto la strada a un filone del tutto inedito nella letteratura fantastica. Un fiume destinato a gonfiarsi nei decenni fino a sfociare con Blade Runner nella battuta forse più citata del cinema moderno, «Ho visto cose che voi umani…», passando per i robot di Asimov e gli androidi di Dick. Ancora meno avrebbe supposto che ad aprire quella nuova strada sarebbe stata la giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin, amante e futura sposa di Percy Shelley.
Sebbene appena diciannovenne Mary non era del tutto alle prime armi con la penna. Figlia di una pioniera del femminismo morta poco dopo il parto e del filosofo William Godwin, era cresciuta in una casa dove capitava che Samuel Coleridge leggesse agli ospiti, prima di darlo alle stampe, il manoscritto della Ballata del vecchio marinaio. Mary scriveva compulsivamente novelle e racconti sin da bambina, anche se quasi tutti i manoscritti precedenti Frankenstein sono andati perduti. Nei circoli letterari che frequentavano casa Godwin aveva conosciuto a diciassette anni il poeta Percy Shelley e i due erano fuggiti insieme, girando senza un soldo in tasca mezza Europa e portandosi dietro la sorellastra di Mary, Claire, destinata a impigliarsi di lì a poco in una tempestosa relazione con lord Byron.
Mary Shelley
Nel 1816 i tre si ritrovarono sul lago di Ginevra con lo stesso Byron e il suo medico personale, lo scrittore John Polidori. Costretti in casa dalla pioggia, ammazzavano il tempo discutendo di filosofia e leggendo storie gotiche. L’idea della tenebrosa sfida letteraria venne in mente a Byron proprio in seguito a quelle letture, ma nel suo capolavoro Mary fece scivolare anche i discorsi di quei giorni, che vertevano essenzialmente sulle potenzialità della scienza e in particolare sulla possibilità di scoprire, come ricorda l’autrice nella prefazione del 1831 al libro sino a quel momento attribuito ingiustamente al celebre marito, «la natura del principio della vita e la possibilità di scoprirlo e divulgarlo».
Ii gotico andava forte forte all’epoca, le storie spettrali di Ann Radcliffe e William Beckford incatenavano migliaia di lettori. La giovane Mary adoperò le stesse atmosfere cupe e ombrose, superando i maestri nell’effetto orripilante. Però, per mettere a punto il suo mostro non setacciò il sovrannaturale. Inventò, per la prima volta nella storia dell’immaginario gotico, un essere creato dall’uomo, in particolare dal giovane e geniale dottor Victor Frankenstein. Il mostro era un prodotto della scienza, non della magia. Per questo Frankenstein ossia il moderno Prometeo, è considerato non a torto il primo romanzo di fantascienza. Gotiche e spettrali sono però le atmosfere e gli effetti visionari, in un intreccio di generi che a prima vista apparenta il Mostro più alle tribù degli spettri e dei vampiri che non a quella dei cyborg e dei robot, della quale è invece il capostipite.
La Creatura aveva poco a che vedere con l’automa lento e inarticolato che oggi viene richiamato alla mente dal solo nome «Frankenstein». Era brutto, anzi ripugnante oltre misura, come la scrittrice si perita di far ripetere innumerevoli volte dal creatore stesso dell’essere senza nome. Ma era anche velocissimo, straordinariamente forte, capace di adattarsi a ogni clima come di arrampicarsi a mani nude sulle Alpi. Era anche dotato di eccezionale intelligenza e sensibilità delicata. La mostruosità della Creatura del dottor Frankenstein è in prima battuta solo fisica. È la sua bruttezza a respingere sin dal primo sguardo lo scienziato che gli ha dato la vita e a rendere poi ostile chiunque posi gli occhi sulle sue scostanti fattezze, persino quando il Mostro salva una bambina in procinto di annegare.
La creatura cede all’odio e al desiderio di vendetta solo dopo essere stata violentemente rifiutato dal mondo e in particolare da quello che è a tutti gli effetti «suo padre». Se di Mostro bisogna parlare, quello è proprio lo scienziato. Abbandona la sua creatura un attimo dopo averle dato la vita e poi, senza nemmeno preoccuparsi di verificare quale sia la natura dell’essere che ha messo al mondo, si dimentica della sua esistenza per mesi. Tradisce la solenne promessa di alleviare il peso della sua estrema solitudine dotandolo di una compagna, pur sapendo che così esporrà a rischi mortali tutti quelli a cui vuole bene.
Quando il Mostro tradito promette di punirlo «nella prima notte di nozze», il dotto immagina che sia lui in pericolo e non anche la sposa, nonostante il vendicativo essere abbia già dimostrato di volerlo colpire negli affetti strangolando suo fratello e il suo miglior amico come farà poi con la moglie appena impalmata. Difficile immaginare un creatore più sordo e impermeabile alla sofferenza dell’essere che ha portato al mondo ma anche al pericolo che fa correre a chiunque ami. Il dolore e la furia della Creatura di Frankenstein sono certamente il riflesso della rivolta contro una divinità indifferente alla sorte delle sue creazioni, o peggio ostile, tanto più che questo tema era centrale nella riflessione filosofica di Percy Shelley.
Ma l’enigma non riguarda la reazione sanguinaria del Mostro. Misterioso e inspiegato è invece il rifiuto immediato e insanabile dello scienziato nei confronti del frutto del suo lavoro. La corazza di Victor Frankenstein viene incrinata da una ventata di empatia e compassione solo per un fugace attimo, subito rinnegato. Sembra evidente che la repulsione del Creatore nei confronti del proprio stesso parto sia il rifiuto inorridito di fronte a una parte di se stesso: dunque non è forse dovuto solo a distrazione l’equivoco abituale per cui siamo tutti abituati a chiamare «Frankenstein» la Creatura senza nome invece che lo scienziato.
L’assonanza tra il rapporto vizioso che vincola Victor Frankenstein al suo Mostro e lo «strano caso» che Robert Louis Stevenson avrebbe illustrato esattamente settant’anni più tardi, quello del dottor Jekyll e mr. Hyde, è stata più volte segnalata. La sensibilità della Creatura è affine a quella dello scienziato, la straordinaria intelligenza li accomuna, persino la passione per la montagna è la stessa. Il Mostro è una parte di Frankenstein, priva però della voluttuosa e feroce amoralità di Hyde. Al contrario è tormentato dai sensi di colpa proprio come l’inventore: i due sono avvinghiati in un rapporto funesto e fatale di reciproca dipendenza.
Forse ciò che Frankenstein vede riflesso nella Creatura e che lo inorridisce è semplicemente un se stesso depurato non dalle pastoie della morale, come nel caso di Jekyll e Hyde, ma dai legacci imposti dai rapporti sociali e affettivi, delle buone maniere, dai buoni sentimenti: un essere che vanta le sue stesse doti e i suoi stessi difetti ma amplificati in forma estrema e molto più violenta, un Frankenstein tanto drastico quanto lui è irresoluto e titubante. Il replicante desta nel modello originale paura e repellenza ma forse anche inconfessata invidia, se è vero che il dottore giustifica la decisione di non rispettare la promessa di costruire una compagna per il Mostro con il terrore di una super-razza destinata a rimpiazzare quella umana.
La forza del capolavoro di Mary Shelley è proprio nella sua ambiguità: in una capacità di prestarsi a interpretazioni diverse e opposte modificando il punto di vista dovuta probabilmente alla padronanza non ancora piena, per fortuna, dell’autrice sul testo. Negli anni successivi Mary Shelley avrebbe pubblicato altri libri, con padronanza e consapevolezza molto maggiori e tuttavia senza mai sfiorare il risultato raggiunto con quel libro buttato giù in pochi giorni e poi revisionato solo marginalmente.
il manifesto – 16 novembre 2017
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Riunire ciò che è sparso. Alias-Aleph di Raffaele K. Salinari
E' in libreria l'ultimo lavoro di Raffaele K. Salinari, che raccoglie una serie di articoli apparsi sul Manifesto, rilettura alla luce di Jorge Luis Borges di temi classici della tradizione esoterica occidentale. Gli articoli, in larga parte ripresi sul nostro blog, rappresentano una splendida sintesi, utilizzando gli apporti di Borges e di Walter Benjamin, di una visione cosmica , fatta di armonia e corrispondenze, che la modernità ha reso quasi invisibile, ma non cancellato. Quella che segue è un'intervista “immaginaria” all'autore in cui riprendiamo un suo testo dandogli però la forma di risposte a nostre domande. Un'intervista immaginaria e autentica al tempo stesso, proprio come i temi trattati nel volume. Speriamo che l'autore, in nome della nostra amicizia, non ce ne voglia.
Raffaele K. Salinari
Alias: Aleph
VITRIOL (Visita interiora terrae rectificandoque invenies occultum lapidem) era il motto degli alchimisti alla ricerca perenne della pietra filosofale. Un motto che bene sintetizza il senso degli scritti raccolti nel tuo libro: un viaggio affascinante nell'immaginario profondo dell'Occidente alla riscoperta di ciò che l'uomo moderno porta celato dentro di sé. Un viaggio iniziatico, con Borges e Benjamin come guida. E' una lettura corretta?
Ho riunito ciò che è sparso – secondo la formula consacrata dal mito di Iside e Osiride – organizzando e rivedendo per questo volume gli articoli ispiratimi dall’Aleph di Jorge Luis Borges comparsi su Alias del sabato, supplemento culturale del quotidiano il manifesto.
Si dispongono così le luci di una costellazione immaginale, inscritta nelle traiettorie di astri a volte impercettibili, eclissati dall’ombra feroce della modernità ma che, come certe stelle spente da eoni, continuano a irradiare il loro fulgore su di noi.
Raffaele K. Salinari alla presentazione di un suo libro a Savona
Puoi spiegare meglio il senso del titolo?
Sono i «mondi alefici» che si specchiano nel titolo: Alias: Aleph; in altre parole tutto ciò che ovvero può considerarsi un Aleph, la Porta Regale dove finalmente s’incontrano visibile e invisibile.
Così si sono filati ed intrecciati la trama e l’ordito di un arazzo che disegna una fantasmagorica iconostasi incastonata di alias Aleph. In una epitome: immagini per la mente, voluttà per il corpo, estasi per l’anima, luce per lo spirito.
Qual'è lo scopo di questa operazione culturale così raffinata, ma allo stesso tempo di godibilissima lettura?
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Raffaele K. Salinari è nato a Zurigo nel 1954. Medico-chirurgo, ha lavorato per oltre venticinque anni per le Nazioni Unite ed in diverse Organizzazioni umanitarie in Africa, Asia ed America latina. Presidente della Federazione Internazionale Terre des Hommes. E' autore di molte pubblicazioni.
Raffaele K. Salinari
Alias-Aleph
Mundus Imaginalis Borgesianus
Punto Rosso, 2017
18 euro
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Gli anarchici e la rivoluzione russa
La critica anarchica al bolscevismo in un importante seminario che si terrà l' 1 e il 2 dicembre all'Università di Modena e Reggio.
Con una prestigiosa line-up di relatori.
La Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e l’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa organizzano un convegno di studi sul problematico rapporto tra la Rivoluzione russa e l’anarchismo, nel centenario del 1917.
Dopo la rivoluzione di febbraio, quella bolscevica dell’ottobre segna il trionfo della politica quale atto di volontà di una minoranza che intende mutare il corso della storia. Se effettivamente la storia muterà dentro e fuori i confini russi, quel che non cambierà sarà invece il ruolo dello Stato quale fattore di dominio, come capiscono gli anarchici fin dal maggio 1918, quando cominciano a subire gli effetti della repressione di Lenin e compagni.
Questo appuntamento intende offrire una riflessione storiografica su uno snodo centrale per la storia del Novecento e per quella del movimento operaio, mettendo in evidenza natura e caratteristiche della critica anarchica al bolscevismo.
piazza della vittoria, 14, 42121 Reggio nell'Emilia
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"Sulla cresta dell'onda”. Utagawa Kuniyoshi, il visionario del mondo fluttuante
Mirabile esponente dell'ukiyo-e d'inizio Ottocento, nonché padre spirituale dei moderni manga, Utagawa Kuniyoshi (1797−1861) è protagonista − per la prima volta in Italia − di una grande mostra incentrata sulle sue più delicate silografie policrome.
"Sulla cresta dell'onda”. Il visionario del mondo fluttuante
Mondi bizzarri, paesaggi visionari, donne bellissime, ma anche attori kabuki, gatti, carpe e animali mitici e fantastici, oltre a leggendari eroi, samurai e briganti. Sono i protagonisti delle opere di Utagawa Kuniyoshi (1797-1861)
E ora anche l’Italia, per la prima volta, rende omaggio a Kuniyoshi, maestro indiscusso di inizio Ottocento dell'ukiyoe - genere di stampa artistica giapponese su carta, impressa con matrici di legno - e che così tanta influenza ha avuto sulla cultura dei manga, degli anime (film di animazione giapponesi e non), dei tatuaggi e della cultura pop in generale contemporanea.
La mostra Kuniyoshi. Il visionario del mondo fluttuante, prodotta da MondoMostre Skira e curata da Rossella Menegazzo, dal 4 ottobre al 28 gennaio 2018 al Museo della Permanente di Milano, presenta la produzione di Kuniyoshi nella sua interezza, evidenziando la strabiliante capacità tecnica e inventiva di questo maestro visionario attraverso una selezione di 165 silografie policrome, tutte provenienti dal Giappone.
Dopo l'esposizione dello scorso anno che ha reso omaggio a Hokusai, Hiroshige e Utamaro, e che ha riscontrato un notevole successo di pubblico e critica, era doveroso dedicare a Kuniyoshi una mostra tutta sua, per il suo carattere estremamente particolare e personalissimo e per l’originalità delle opere e dei temi rispetto agli altri tre Maestri del mondo fluttuante giapponese.
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Dall'impero romano al medioevo: storia di un lento passaggio
Pannello del IV sec. d.C.
Esce in traduzione italiana «Il mondo tardo antico» dello studioso britannico Peter Brown (Einaudi), Nel 1971 svegliò l’interesse verso un’epoca, tra 200 e 700 d.C., quella della transizione dal mondo romano al mondo medievale, fino a quel momento considerata solo un lungo declino.
Maria Jennifer Falcone
Icone e segnali del tardo antico
Mettere a fuoco i contorni sfumati di un’epoca di trasformazione. Visualizzare e isolare piccoli e grandi segnali di cambiamento. Interpretarli con sensibilità e senza tralasciare alcun dettaglio. E così facendo dare un’identità e una coerenza a quel lungo periodo di mutamenti che va dal 200 d.C. fino a circa il 700 e che ha traghettato l’Europa e il Medio-Oriente verso il Medioevo: il Tardo Antico.
Una sfida difficile, intrapresa con successo da Peter Brown in Il mondo tardo antico Da Marco Aurelio a Maometto, ora ripubblicato da Einaudi («PBE Ns», traduzione di Maria Vittoria Malvano, pp. XVI-240, € 26,00), a cui già si doveva, nel 1974, la prima edizione italiana di questo classico, uscito a Londra per Thames and Hudson nel 1971 e poi nel 1989.
Lo storico, professore emerito della Princeton University e autore di fondamentali contributi sulla religiosità e la società tardoantiche (sempre per Einaudi, da ricordare Agostino d’Ippona, 1971 e 2005; Religione e società nell’età di sant’Agostino, ’75; La società e il sacro nella tarda antichità, ’88; Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, ’92 e 2010; Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., 2014; Il riscatto dell’anima. Aldilà e ricchezza nel primo cristianesimo occidentale, 2016), ha avuto il merito di svegliare l’interesse critico verso la tarda antichità, considerata un tempo solo un periodo di declino e ora, invece, fertile campo di ricerca per studiosi di storia, in particolare economica e sociale, ma anche di letterature antiche, di diritto romano, di storia delle religioni.
Brown accompagna il lettore in un viaggio appassionato attraverso i secoli durante i quali l’impero romano divenne cristiano e il Medio-Oriente musulmano; attento osservatore, egli mostra con chiarezza (fase dopo fase, secolo dopo secolo, e – soprattutto – simbolo dopo simbolo) quali elementi avrebbero separato mondi un tempo uniti da scambi intensi, spalancando un abisso attraverso il Mediterraneo.
Prima tappa è il II secolo d.C., il momento di massima espansione dell’impero romano, a cui segue non tanto (questa era l’interpretazione tradizionale) una lunga storia di decadenza e caduta, quanto piuttosto un periodo fervido (seppure non indolore) di cambiamenti e di spostamenti di confini ed equilibri. A tali mutamenti, comuni all’intero territorio occupato un tempo dall’impero, è dedicata la più ampia prima parte del volume («La rivoluzione tardo romana»).
Nella seconda («Eredità divergenti») Brown si concentra su quegli elementi storico-culturali dai quali appare più chiaro il percorso di separazione tra l’Occidente di una nuova Roma aeterna, la Bisanzio (e poi, in parte, la Russia) delle liturgie e delle icone e il Medio-Oriente islamico.
Il mondo tardoantico è, anzitutto, un viaggio attraverso i luoghi. Le prime pagine sono dedicate al Mediterraneo, cuore dell’impero romano, e alla sua centralità prima reale (come arteria per il trasporto del cibo) e poi ideale: anche nel momento della sua massima espansione, l’impero aveva l’illusione di essere un mondo piccolo, da cui proveniva l’aristocrazia cosmopolita, ma uniforme, che ne dominò per lungo tempo ogni parte. C’è poi Roma, città che proprio durante la tarda antichità perse importanza; la storia, con la destituzione degli imperatori d’Occidente (476) sembrava condannarla all’oblio, ma proprio allora il mito della sua eternità acquistò nuova linfa: sulle monete comparvero i gemelli allattati dalla lupa con il motto Roma invicta e ancora alle soglie del Medioevo l’oligarchia clericale mostrava di aver ereditato rituali e simboli senatòri e pregava per la romana libertas: «l’amore del senatore tardo romano per la Roma aeterna era venuto a posarsi sulla facciata solenne della Roma papale».
A est il viaggio prosegue verso Costantinopoli, che, nata come la nuova Roma, passò a essere la «città santa» di una chiesa pacificata, in cui le cerimonie tradizionali del passato romano vennero abbandonate e Giustiniano fece riedificare una sontuosa Hagia Sofia. Infine, si giunge presso i luoghi degli Arabi: prima la Mecca e Medina, città in via di sviluppo caratterizzate da forti tensioni tra chi seguiva ancora uno stile di vita tribale e la nuova oligarchia mercantile (la litigiosità, risolta da Maometto grazie alla comune appartenenza alla nuova religione, fu portata verso l’esterno e furono presto conquistate città importanti come Damasco e Alessandria); poi, soprattutto, Baghdad, la ricca e bellissima città dalle mura circolari, dopo la cui fondazione si affermò l’amministrazione organizzata e costosa dell’impero islamico, e così si arrestò «la macchina da guerra araba».
Dopo i luoghi, i personaggi, a cui sovente la citazione diretta di testi offre una straordinaria vitalità. Per citarne alcuni: Costantino, definito come un «apologeta cristiano incoronato» e un prestigiatore, la cui conversione (comunque la si intenda) fu resa possibile dalla precedente conversione del Cristianesimo alla cultura e agli ideali di Roma; Simmaco, «un aristocratico che si studia di prolungare in ogni modo il lauto meriggio estivo della vita romana» e l’«involontario costruttore del papato medievale»; Giustiniano l’autocrate e sua moglie Teodora; ma ancora Plotino, Ambrogio, Agostino, e più a Oriente Cosroe I e II, Maometto, Harun ar-Rashid.
Giustiniano
Brown interpreta luoghi e persone utilizzando alcune chiavi di lettura che si intersecano e si chiariscono vicendevolmente. La prima è quella storico-economica: illuminanti, per esempio, le sue considerazioni sui sistemi di tassazione, sugli scambi commerciali, sull’economia alimentare. La seconda è quella sociologica, alla luce della quale legge anche le questioni religiose: sono stimolanti, in questo senso, le pagine relative al legame tra l’individualismo, sviluppatosi in un mondo in rapida trasformazione, e l’affermazione di un rapporto col divino inteso in termini di ‘rivelazione’.
Elemento sostanziale di questo volume è il suo carattere visivo. Le illustrazioni, accompagnate da ricche didascalie, sono parte integrante dell’argomentazione. Le opere d’arte costituiscono una chiave privilegiata per la lettura immediata dello Zeitgeist; basti un solo esempio, l’icona, simbolo potente di fronte al quale «rimaniamo a faccia a faccia con una figura isolata sul luccicante mosaico d’oro».
La visualità, inoltre, caratterizza fortemente il linguaggio stesso del libro, ricco di metafore concrete e immagini efficaci, come quella con cui Brown rappresenta la visione del mondo dei pensatori elleni tardoantichi, che conciliarono l’eredità filosofica classica e il pensiero cristiano rimettendo al centro il rapporto tra le cose visibili e invisibili: «essi consideravano il mondo, e il rapporto di questo con dio, come uno yo-yo che rotola rapidamente su e giù lungo un filo».
Leggendo Il mondo tardoantico, non si può non apprezzare la modernità di questo periodo storico, presentato come un momento durante il quale ci si trovò ad affrontare in maniera assillante questioni comuni a ogni società civile: «Come basarsi su un passato imponente senza reprimere i mutamenti. Come trasformarsi senza perdere le proprie radici. E soprattutto, come trattare quello che vi è di estraneo in noi: uomini esclusi da una società tradizionalmente aristocratica, concetti che non trovano espressione in una cultura tradizionale, bisogni non formulati nella religione convenzionale, lo straniero che viene da oltre confine».
Il Manifesto/Alias – 22 ottobre 2017
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Storie di fantasmi fra i vigneti delle langhe
Castello della Volta
Nella sua personalissima e affascinante rivisitazione del mondo langarolo Guido Araldo non trascura il mondo dell'occulto e del mistero. Dal suo libro Mesi Miti Mysteria prendiamo oggi queste storie di fantasmi a passeggio tra vigneti e antichi castelli.
Guido Araldo
Storie di fantasmi fra i vigneti delle langhe
Forse il fantasma più famoso delle Langhe è la marchesa del castello della Volta, dominante le colline del Barolo. A metà del XIV secolo in quel castello vi si teneva ancora il "bel di patane": il ballo dei nudi, retaggio di antichissime tradizioni pagane, se non dionisiache. Il pavimento del salone crollò improvvisamente per il peso eccessivo degli ospiti peccaminosi, indecorosamente nudi, che amoreggiavano ballando. Fu una carneficina, ma il cadavere della marchesa non fu ritrovato. La notte del disastro una processione di ombre sale verso il castello e allora il lamento della marchesa si spande nella brezza, fino alla collina dei Cannubi, dove matura il miglior cru al mondo.
Anche la vicina Morra ha il suo fantasma: un discendente della famiglia dei Falletti, banchieri in Alba, che già nel lontano 1192 vantavano il rango di “credendari”, ovvero priori della repubblica; poi, con il denaro, comprarono castelli e titoli nobiliari in tutto il contado albese.
La Morra
Bartolomeo dei Falletti si era insediato a Maregliano, come anticamente era chiamata la Morra, poiché affacciata sul “mare di Giano” corrispondente alle vigne del Barolo. Dal suo castello si sentiva padrone di quel pezzo di mondo, galletto nel pollaio. Fu forse l’ultimo feudatario sulle Langhe a rivendicare sporcaccione lo "ius primae noctis". Ma mal gliene colse! Durante un'affollata partita di pallone elastico, tra le prime storicamente documentate, incappò in un coltello nell’affollato sferisterio. Sotto il caldo sole di quel pomeriggio estivo restò in ginocchio tra la folla, con un sottile solco rosso in gola, prima di crollare nella polvere imbrattandola col suo sangue. I villici finsero inestinguibile cordoglio, ma in cuor loro gioirono. Non si appurò mai chi fu l’assassino: troppi mariti nutrivano inestinguibile rancore verso quel toro dalle sembianze umane. Ancora oggi nelle notti di luna piena di mezza estate Bartolomeo Falletti s’aggira piangente nella vigna che fu antichissimo sferisterio.
Castello di Novello
Atri fantasmi vagano inquieti nelle vicinanze. Un'antica maledizione perseguitò a lungo i marchesi di Novello, della nobile casata dei Del Carretto: diciotto di loro patirono morte violenta nell'arco di un paio di secoli. Truculente le faide tra castellani e più truculente ancora le ambizioni dei duchi sabaudi, ansiosi di estendere i loro domini varcando il confine naturale del Tanaro, che divideva le Langhe dal Piemonte. Era nota come la politica del carciofo: foglia dopo foglia si sarebbero pappati tutti gli antichi feudi imperiali. Tristissima la sorte di Paola Del Carretto che, a venticinque anni, annegò nelle acque del Tanaro tra le braccia dell’amante Giovanni Ugonisio, che aveva il doppio dei suoi anni. Non si scoprì chi li spinse in quelle torbide acque e tenne le loro teste sottacqua. Le ombre di Paola e Ugonisio si aggirano ancora tra gli ultimi canneti lungo il fiume, nottetempo, nel tratto in cui patirono morte violenta, in prossimità di Monchiero.
Al di là delle Langhe, altri luoghi sono degni di menzione. Ben tre fantasmi si annidano nel magnifico castello della Manta, dagli impareggiabili affreschi cortesi d’inizio ‘400: un saraceno, una dama bianca e una contadinella.
Castello della Manta
Un saraceno, esperto in antichi medicamenti, curò la bellissima figlia del castellano della Manta guarendola da brutta malattia e se ne invaghì perdutamente. Un amore ricambiato. Ma un corteggiatore respinto informò il marchese di Saluzzo, che inviò armigeri per arrestare l’incauto amante. Il saraceno fuggì in cima alla torre del castello e poi, sentendosi perduto, si abbandonò nel vuoto. Nelle notti di luna piena d’agosto il saraceno ricompare sulla sommità della torre e scende nella sala baronale avvolto in un mantello nero come la sua pelle. Poi, in quella sala, danza leggiadro con le bellissime dame affrescate sui muri: Delfide, Sinope, Ippolita, Semiramide, Etiope, Lampeto, Tamiri, Teuca e Pentesile; spingendosi addirittura ad amoreggiare con loro.
La Dama Bianca s’aggira invece nelle “sale rosse” del terzo piano: era una marchesa tanto bella quanto fedifraga. Il marito, il castellano, amava la caccia col falcone, sua massima passione, trascurando l’incantevole moglie che si consolava con i giovani più gagliardi del sottostante borgo, non disdegnando uomini sposati che attirava nel castello con scuse e stratagemmi. Se ricattata, con la minaccia di svelare le sue molte trame peccaminose, non esitava a farli sparire in un trabocchetto, che precipitava in un pozzo dalle lame affilate.
Delitti mai scoperti, nonostante dal sottostante borgo si levassero i lamenti di madri e mogli misteriosamente private di figli e mariti. Ma un giorno la giustizia divina la fece inciampare nel suo lungo abito bianco, mentre scendeva le erte scale che portavano alla sala baronale, per incontrare l’ultimo suo amante, e il gran ruzzolone le fu fatale. La sua anima lussuriosa e crudele venne intrappolata per l’eternità tra le mura del castello. Soltanto durante i più cupi temprali estivi, saturi di grandine, le è consentito d’apparire sugli spalti più alti del castello: indossa ancora il candido vestito svolazzante, nel quale inciampò.
Il terzo fantasma, quello della contadinella, si aggirerebbe nelle cantine del castello, più precisamente nella “gròta d’l vin blanc”, il cui silenzio è rotto nel primo giorno di primavera da flebili lamenti e singhiozzi. Una ragazza bellissima, dal bel portamento e di molta grazia, aveva colpito il cuore del marchese che l’aveva esonerata dai lavori pesanti, nei campi, affidandole l’incarico di controllare le botti di vino bianco. Soltanto le sue mani aggraziate potevano spillarlo. Ma un giorno il marchese e il suo scudiero, di cui la contadinella era promessa sposa, partirono per la guerra contro i crudeli duchi di Savoia, vicini ingombranti. Non tornarono più. La contadinella stravolta e disperata cercò la morte e si lasciò annegare in una grande botte colma di vino bianco, di cui era la guardiana. Il marchese e il suo scudiero erano partiti per la guerra il primo giorno di primavera.
(Dal volume: Mesi Miti Mysteria)
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D'autunno Francesco. Biamonti e Boine
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La linea di polvere
Venerdì 24 novembre
alle ore 16.30
Ex Palazzo del Comune, Imperia (Piazza Dante)
TERZO INCONTRO DELLA RASSEGNA "STARE AL MONDO. FILOSOFIA E SCIENZE UMANE NEL TEMPO PRESENTE".
Venerdì 24 novembre: “La linea di polvere”: l’antropologia visuale tra villaggio e metropoli nel contesto della rivoluzione digitale
Relatore Massimo Canevacci, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Instituto de Estudos Avançados di São Paulo, Brasile, con la collaborazione dei Dipartimenti di Filosofia e Storia e di Scienze Umane dell’I.I.S. Amoretti e Artistico
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Piero Camporesi, voce dei dimenticati dalla storia
Ricordo di Piero Camporesi,storico eretico. Attraverso lo studio della vita materiale e del cibo ridiede voce a coloro di cui i libri non parlano, ai dimenticati dalla storia.
Marino Niola
Quando Camporesi vendicò i pitocchi
Un signore entra in una stanza dove c’è un tappeto, dai disegni e dai colori bellissimi, che tutti hanno sempre considerato come un’opera d‘arte; lui lo prende per un lembo, lo rivolta e ci mostra che sotto quel tappeto brulicavano vermi, scarafaggi, larve, tutta una vita ignota e sotterranea». Lo ha scritto Umberto Eco. Il signore è Piero Camporesi. E il tappeto è la letteratura italiana, che il grande studioso, di cui ricorre il ventennale della scomparsa, sottopose a un amoroso trattamento d’urto. Nel tentativo di ravvivarne trame sbiadite dalla polvere accademica. Di evidenziarne nodi e snodi dimenticati.
In realtà, anche se vissuto nell’università, questo straordinario intellettuale si definiva «academico di nulla academia», prendendo in prestito l’espressione da Giordano Bruno. E in questa scelta c’è l’indicazione di un percorso eretico. Che oggi, grazie anche alla provvidenziale riproposta delle sue opere da parte del Saggiatore, appare in tutta la sua carica eversiva e anticipatrice, soprattutto alla luce delle trasformazioni dell’ultimo ventennio. E che lui metteva a fuoco con lo sguardo sghembo, capace di tenere insieme materiali disparati.
Petrarca e Bertoldo, lo strutturalismo di Lévi-Strauss e l’anatomia seicentesca, la trattatistica religiosa e i ricettari, la scienza sperimentale e gli almanacchi. Ma anche le voci stridenti e le maschere irridenti delle culture popolari, il lazzo dei buffoni, il lezzo dei villani, le allucinazioni degli straccioni, il raggiro dei ciarlatani. Insieme al brontolio dei ventri contadini gonfiati dalla fame. E deformati dalle malattie, dal cibo impuro e guasto. Un pane selvaggio per un’umanità minore.
In questa immensa corte dei miracoli, che ha abitato la nostra prima modernità, Camporesi ha compiuto la sua nekya, una discesa negli inferi di un mondo dominato da umori, odori e miasmi di cui ricostruisce la grammatica e la poetica. Fornicando, come amava dire, con la storia alimentare, l’antropologia, la teologia, l’anatomia, senza trascurare classici e autori del canone.
Camporesi ha di inimitabile il modo di comparare l’incomparabile, di compaginare registri culturali dissonanti e di farli risuonare all’unisono in maniera inedita, indisciplinata, visionaria. Capace di scorgere nuove configurazioni laddove altri avrebbero visto confusione. La sua abilità nel giustapporre fino al cortocircuito alto e basso, escatologia e scatologia, nasce da quella che il suo maestro, il grande italianista Carlo Calcaterra, definiva «perplessità interrogativa».L’opposto dell’idealismo di Croce, il recupero della grande tradizione positivista. «Non l’Italia delle parole, ma quella dei fatti e dei documenti».
In opere come La carne impassibile e I balsami di Venere è la vita che irrompe dalle pagine, prima delle classificazioni e delle distinzioni tra generi e categorie, che la ingessano e la ingabbiano.
Uno dei grandi meriti di Camporesi è quello di aver ricostruito l’antropologia dell’Italia moderna. Ponendosi il problema, conoscitivo prima che etico, di come far parlare gli ultimi. Ma come fare se «i pitocchi, i subalterni, gli illetterati» non hanno lasciato documenti?
Semplice, per Camporesi. Che, forte di un’erudizione sterminata, gioca di sponda tra i documenti e li seziona. Il risultato è una funambolica logopedia delle voci plebee. E qui viene fuori il Camporesi più poietico, sperimentatore, che scava nelle parole sotto le parole. Per cavarne i succhi vitali, la forza evocativa, mitologica, simbolica. Il lucore archetipico e la potenza metaforica che rendono ogni termine capace di andare oltre se stesso.
In certe pagine de Il sugo della vita la prosa mette in moto una catena di visioni, che la fa decollare dal supporto verbale per proiettarla verso un senso ulteriore. La lingua camporesiana va al di là della sua funzione ordinaria, apre la strada a nuovi piani di evocazione e percezione. Allitterazioni, compitazioni, metafore, iperboli, sinestesie. Un teatro verbale che assegna a ogni parola un surplus metaforico. Una macchina del senso che getta un ponte vertiginoso tra surrealismo e barocco. Sembra impossibile eppure la costruzione tiene. Ed è grazie a questa straordinaria impalcatura linguistica che Camporesi riesce a fare del cibo il fuso intorno al quale scorre la storia italiana.
Al centro di tutto il pane, che diventa “soggetto culturale”, materia reale e simbolica dell’esistenza. E nelle trasformazioni degli usi alimentari il maestro vede riflessa l’intera vicenda del nostro paese. Passato dai digiuni forzati dei poveri d’antan, all’anoressia dei ricchi di oggi. Quelli che hanno messo la dietetica al posto dell’etica. Facendo della corretta alimentazione un governo della vita, buono «sia all’allevamento dei polli, sia alla crescita dei bambini». Perché, la società di allora, dove i cuochi già diventano star – Camporesi l’aveva previsto – è la stessa in cui si muore di carote.
Come nel caso della signora che non mangiava altro che questo ortaggio, eletto a simbolo di redenzione della carne. La conclusione della parabola è un autentico cupio dissolvi. «Spappolato il fegato, gonfio il ventre idropico, caduti i capelli, sfogliati i peli, adusti i tessuti. Le carni della bella signora erano ormai pronte per il grande volo, per il transito celeste». Ancora una volta Camporesi ci lascia senza parole.
La repubblica – 20 ottobre 2017
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E' morto Massimo Quaini, tra i più noti geografi italiani e ambientalista controcorrente
Lo abbiamo conosciuto quasi cinquant'anni fa, giovane professore all'Università di Genova, uno dei pochi capace di dialogare davvero con noi studenti pieni di rabbia (giusta) per un'Università ancora per pochi e di speranze. Non lo abbiamo più incontrato, ma abbiamo continuato a seguirlo attraverso i suoi studi (fondamentali quelli sulla storia del paesaggio ligure) e il suo costante impegno civile. E' stato un grande intellettuale e un uomo onesto in un mondo accademico che non lo amava e forse neppure lo meritava.
Marco Preve
E' morto Massimo Quaini, tra i più noti geografi italiani e ambientalista controcorrente
Si è spento questa notte Massimo Quaini, 76 anni, uno dei più noti geografi italiani, docente in pensione all’università di Genova, interprete in maniera autonoma e spesso controcorrente dell’ambientalismo. Un suo libro degli anni ’70 “Marxismo e geografia” venne tradotto in diverse lingue.
Appassionato difensore del territorio senza mai però deviare nell’integralismo, Quaini aveva trasferito le sue conoscenze e i suoi studi anche nell’impegno sociale dando vita nel 2003 all’associazione ambientalista "Memorie&Progetti" di Pieve Ligure che aveva poi originato l'Osservatorio dei due Golfi Paradiso e del Tigullio.
Con alcuni amici come Carla Scarsi e Pietro Tarallo aveva dato vita ad un periodico, Creuze, luogo di analisi, dibattito e anche di denuncia di speculazioni edilizie e politiche. Senza mai perdere lo sguardo critico e l’indipendenza aveva sempre accettato il confronto e le collaborazioni con la politica partecipando a convegni, studi, pubblicazioni.
Ma la politica non lo aveva mai amato, e anche quando il suo nome avrebbe dato lustro a livello internazionale alla Liguria come presidente del Parco di Portofino, il suo spirito libero si tramutò in insormontabile ostacolo.
D’altra parte le sue idee in tema di paesaggio e mutazioni sociologiche erano troppo critiche rispetto al pensiero dominante, ad esempio in tema di sfruttamento intensivo turistico. In un suo libro di oltre dieci anni fa, “L’ombra del paesaggio”, disegnava perfettamente il paesaggio morale dei liguri e dei loro esponenti politici, denunciando con largo anticipo il “rischio di trasformare le Cinque Terre in un Parco tematico stile Disneyland dove è possibile avere un surrogato di esperienza della geografia mondiale attraverso un simulacro. La differenza è che qui, accanto al simulacro abbiamo anche la realtà ma, potenza dei simulacri, nessuno la vive nella sua concreta dimensione storico sociale, al massimo la guarda…”.
Oggi che alle Cinque Terre si parla di numero chiuso il libro di Quaini andrebbe studiato nelle scuole e nei consigli comunali.
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Salvare i libri è mantenere viva la speranza
Un monaco domenicano, padre Michaeel Najeeb, ha digitalizzato ottomila manoscritti cristiani e islamici del suo convento di Mosul prima dell'arrivo dei miliziani dell'ISIS. Molti sono ora al sicuro nel Kurdistan iracheno.
Daniela Fuganti
“Così ho salvato dal Califfo i tesori delle fedi monoteiste”
Quando nel 2014 Mosul cade nelle mani dell’Isis, migliaia di cristiani fuggono dalla pianura di Ninive, nel Nord dell’Iraq. Nel corso di una straordinaria epopea, padre Michaeel Najeeb - di cui in Francia è appena uscito il libro Sauver les livres et les hommes (ed. Grasset) - salva migliaia di antichi manoscritti destinati alle fiamme dai jihadisti. In questi giorni a Parigi una mostra all’Istituto del Mondo Arabo evoca la storia millenaria dei «Cristiani d’Oriente».
Padre Najeeb, la mostra all’Ima percorre la storia dei cristiani del mondo arabo. Nel suo libro, lei racconta invece l’attualità, ciò che ha vissuto in prima persona durante la tragica scalata dell’Isis.
«Sono nato e cresciuto a Mosul. Insieme con i nostri cugini di Palestina, più che “cristiani d’Oriente” noi siamo innanzitutto i “primi cristiani”. Molti di noi discendono in linea diretta da quegli ebrei che vivevano in cattività in Mesopotamia parecchi secoli prima della nascita di Gesù. La culla del cristianesimo è in Oriente: il primo Papa, San Pietro, era palestinese; Gesù era ebreo e parlava l’aramaico, la stessa lingua che noi usiamo oggi. Tuttavia in Oriente i cristiani hanno sempre vissuto in stato di inferiorità, fra persecuzioni, esodi e umiliazioni, anche prima dell’islam».
Dal suo convento, a Mosul, lei ha potuto osservare gli eventi e percepire in questi ultimi anni i segnali di ciò che sarebbe accaduto.
«Il convento di Mosul, dove sono rimasto fino al 2007, quando i miei superiori mi ordinarono di lasciarlo per le rappresaglie di salafiti e islamisti - rapimenti e omicidi di preti, vescovi e civili - è sempre stato per me un punto di riferimento. Bambino, passavo il tempo nella sala di lettura. La biblioteca, oggi distrutta, era il polmone culturale della regione, un luogo magico: a metà del XIX secolo, i domenicani avevano fatto venire dall’Europa la prima tipografia della regione, funzionante fino all’arrivo degli Ottomani che buttarono i macchinari nel Tigri. Il mio timore era che questo tesoro andasse un giorno perduto, così negli Anni 90 mi sono improvvisato bibliotecario, ho fatto un inventario e ho cominciato a digitalizzare più di ottomila manoscritti».
Aveva un brutto presentimento?
«All’inizio l’ho fatto per salvaguardare documenti di valore inestimabile. Testi di storia, filosofia, spiritualità cristiana e musulmana, letteratura e musica, scritti in aramaico, siriaco, arabo, armeno, redatti fra il XIII e il XIX secolo; ma anche testi islamici, e i due libri sacri degli Yazidi, la più antica e straordinaria religione monoteista, insediata in Mesopotamia fin dal III millennio, che ha influenzato il giudaismo, il cristianesimo e l’islam. Nel 1990 ho fondato il Cnmo (Centro digitale di manoscritti orientali). Da 25 anni percorro il Paese in lungo e in largo per scovare capolavori nascosti».
Di questi ottomila manoscritti digitalizzati, la metà non esiste più, distrutta dall’Isis. Quelli che rimangono sono oggi al sicuro a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Come è riuscito a salvarli?
«Nel 2007 Mosul era diventata troppo pericolosa, allora trasferimmo la nostra preziosa biblioteca nel convento domenicano della vicina città di Qaraqosh, ritenuta più sicura».
Non per molto, visto che nel 2014 l’Isis ha occupato Mosul, e subito dopo Qaraqosh.
«In effetti, a fine luglio 2014, una decina di giorni prima che le due città capitolassero, ci rendemmo conto che la situazione stava precipitando, e improvvisammo il gigantesco trasloco dei nostri tesori: quadri, manoscritti e incunaboli, da Qaraqosh a Erbil, distante 70 chilometri, ripromettendoci di fare un secondo trasferimento la settimana seguente. Il viaggio è avvenuto nella notte tra il 6 e il 7 agosto, ma non nel modo previsto».
Che cosa accadde?
«Ero rimasto a Qaraqosh con altri due fratelli. Alle 6 del mattino, un’esplosione svegliò la città. La sera, assordati dagli spari dei kalashnikov ormai vicini, stipammo nella confusione più totale il maggior numero di manoscritti possibile nelle mie due macchine. Per ritrovarci, stracarichi, sulla sola strada che porta in Kurdistan, annegati nell’immenso esodo delle popolazioni cristiane e yazide in fuga verso Erbil, in mezzo ai soldati curdi e agli ufficiali peshmerga che si ritiravano clacsonando all’impazzata. All’ultimo si aprì la frontiera, che riuscimmo a varcare solo a piedi, con il nostro carico di incunaboli sulle braccia, fra le pallottole che ci fischiavano intorno e la bandiera nera dell’Isis in lontananza. Penso all’esodo di Mosè e del popolo ebraico. Il nuovo faraone si chiama Abu Bakr al-Baghdadi, questa notte atroce segna il suo trionfo e mostra volto nero dell’islam. Nel Corano (sura 9, versetto 28), Maometto ordina di combattere tutti quelli che non credono in Dio e nel suo Profeta. Esattamente ciò che fecero i musulmani nel VII secolo, le guerre sante in nome di Dio, uccidendo e rubando le terre delle popolazioni conquistate».
Come ha trovato Mosul dopo la liberazione dall’Isis?
«L’Isis ha distrutto la storia di Mosul, l’antica Ninive, facendo saltare in aria la tomba del profeta Giona, venerata da cristiani, ebrei e musulmani. Era il simbolo della città: sotto le vestigia del XII secolo c’era una chiesa, posata su una sinagoga, posata a sua volta su vestigia assire, il palazzo di Assurbanipal. Camminando ai piedi delle mura, ho inciampato su una lastra mezza sepolta, coperta di caratteri cuneiformi. Mentre la spolveravo con devozione, un vecchio con la kefiah in testa mi guardava sfiorando il masso con il suo bastone: “Non preoccuparti, c’è un sacco di pietre come queste nella città. Sono lì da sempre, e saranno ancora lì quando tu non sarai più di questa terra”».
La Stampa – 21 novembre 2017
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