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Diventa storia l'avventura eretica dei GAAP di Masini e Cervetto

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Giorgio Amico

Diventa storia l'avventura eretica dei GAAP di Masini e Cervetto

E' finalmente disponibile il primo volume di un'opera importante che ricostruisce dettagliamente la storia dei Gruppi Anarchici d'Azione Proletaria, audace tentativo fra il 1949 e il 1957 di costruire un nuovo tipo di organizzazione politica capace di fondere al meglio anarchismo e marxismo. Rifiutata da gran parte degli anarchici come “partitista”, l'esperienza dei GAAP proseguì fino al 1957 quando il gruppo confluì nel nascente Movimento della Sinistra Comunista (Azione Comunista). Un'esperienza importante per molti motivi, non ultimo l'evoluzione teorico politica di Arrigo Cervetto, il fondatore di Lotta Comunista. Un momento poco conosciuto della storia recente del movimento operaio italiano che questa meritoria operazione editoriale di una piccola casa editrice  d'ambito libertario fa ora diventare patrimonio comune di militanti e studiosi. Ne riportiamo la presentazione editoriale.


Tra il 1949 e il 1957 si consuma all’interno dell’anarchismo italiano una profonda frattura, figlia della sua crisi politica e ideologica maturata dalla sconfitta degli anni Venti e Trenta. Una delle esperienze forse meno conosciute di quel periodo storico sono stati i Gruppi anarchici d’azione proletaria.

La scelta del gruppo di militanti che si aggregarono intorno a Pier Carlo Masini, il principale ispiratore e responsabile della nascita dei gaap, è stata quella di voler costruire un’organizzazione politica di «quadri», un «partito» libertario con una prospettiva internazionalista/libertaria, classista e consiliarista.

La loro parabola si chiuderà dopo il fatidico 1956 (Rivolta d’Ungheria) quando questa esperienza si fonderà con quella dei Gruppi d’azione comunista – movimento dissidente comunista ispirato da Giulio Seniga – formando il Movimento della Sinistra comunista. 

L’opera, di cui è per ora disponibile il primo volume, si compone di tre tomi, i primi due contengono gli atti e i documenti dell’organizzazione selezionati attraverso il riordinamento dell’archivio dell’organizzazione – conservato oggi dalla Biblioteca F. Serantini –, il terzo le biografie dei militanti e simpatizzanti che formarono il nucleo di questo “ardito” esperimento politico.

Si vuole offrire con questo lavoro per la prima volta in forma integrale agli studiosi e ai lettori il principale corpus documenta dell’organizzazione, uno strumento per colmare un vuoto di documentazione su questa pagina di storia dell’anarchismo del ’900 non sempre adeguatamente indagata e conosciuta.


Franco Bertolucci (a cura di)
Gruppi Anatchici d'Azione Proletaria. Le idee, i militanti, l'organizzazione
1. Dal fronte popolare alla "legge truffa": la crisi politica e organizzativa dell'anarchismo
Biblioteca Franco Serantini
Euro 40

Halloween. Ora si chiama così, ma una volta era la "notte dei santi"

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Halloween è appena passata con la sua scia di polemiche: festa cristiana o pagana? Celtica o mediterranea? Nostrana o importata? Ma basta andare appena al di là delle apparenze consumistiche made in USA,  per ritrovarne le radici nei nostri antichissimi riti della "notte dei santi".

Guido Araldo

Halloween

Halloween è ormai una festa planetaria, nel villaggio globale dell’impero americano: evento commerciale snaturato dell’antico culto “dell’accettazione della morte”, più che dei morti, nel grande ciclo della natura, con l’eterno rincorrersi delle stagioni. Resta il nome, sassone, che ne attesta la collocazione nel calendario: all hallow’ eve”, “la vigilia del giorno di tutti i Santi”.

Contrariamente a quanto si suppone, non era soltanto una festa nordica, ma anche mediterranea, con le dovute differenze culturali. Una festa profondamente rielaborata, ridottasi a carnevalata “macabra e gioiosa” riservata ai bambini, al motto sorridente di “dolcetto o scherzetto?”. Nulla da spartire con la festa originaria, quando si supponeva che i morti tornassero per una notte alle loro case accompagnati da un “piccolo popolo di ombre” (nelle brume nordiche identificato in gnomi birichini). Folletti o gnomi ora corrispondenti a bambini festosi, con innocui abiti macabri e maschere scheletriche, cappelli stregoneschi e quant’altro.

Halloween era la festa di passaggio dalla stagione dei frutti alla stagione del gelo: una sospensione spazio-temporale lunga quanto una notte, quando si apriva una porta tra due mondi, quello dei vivi e quello dei morti. Nell’alto medioevo Halloween corrispondeva a una talamasca: un evento magico connesso all’aldilà, con processioni macabre che si tenevano nell’ultimo giorno del mese di ottobre, come attestato da Incmaro da Reims (882). Questa collocazione nel ciclo della ritualità annuale non era casuale: la notte tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre è situata a metà strada tra l’equinozio di autunno e il solstizio d’inverno.


Le processioni si concludevano con lunghe veglie notturne, impregnate dalla collettiva consapevolezza della fine di un ciclo stagionale. A queste veglie si contrapponeva, tre mesi dopo, a metà tra solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera, la festa della “candelora”, il 2 febbraio: la luce che ritorna, soprattutto in cielo, con le giornate che progressivamente si allungano. I tre mesi, tra Halloween e la Candelora (novembre, dicembre e gennaio) nella civiltà classica costituivano un tempo sospeso, corrispondente al periodo in cui Proserpina scendeva nell’Ade, il regno dei morti; quando sua madre Cerere s’intristiva per la sua scomparsa, i campi e i boschi andavano in sonno e il soffio di Borea avvolgeva il mondo… Non a caso ancora oggi nel computo antico dell’epatta, che stabilisce i giorni della luna, gennaio e febbraio non sono conteggiati e non viene loro attribuito un numero.

Con l’avvento del Protestantesimo, dopo il concilio di Trento, la Controriforma osteggiò con maggiore determinazione manifestazioni popolari trasudanti reminiscenze pagane. All’inizio del 1600 il vescovo d’Alba vietava a Saliceto le “veglie dei Santi”, risalenti a epoche immemorabili, organizzate dai “battuti bianchi” con grandi abbuffate di “cisrà”: minestrone di ceci. Tradizione che persiste tuttora a Dogliani, seppure posticipata di un paio di giorni. Quel sant’uomo di un vescovo ingiunse anche di vendere le grandi pignatte e devolvere il ricavato in opere di carità.

La veglia di fine ottobre corrispondeva alla “quarta festa del fuoco”, dopo i falò di metà gennaio pertinenti a sant’Antonio abate, quando gli animali nella stalla parlavano tra loro; la veglia del Calendimaggio e i grandi falò nella sera antecedente la festa di San Giovanni, al solstizio d’estate, dalla magica rugiada.

I falò della vigilia dei Santi erano “fuochi tellurici”: di protezione. Come già accennato, la tradizione antica vuole che in quella notte, semel in anno, il mondo dei vivi entri in contatto con quello dei morti e, pertanto, notte magica per eccellenza. Fuochi che servivano ad allontanare dai luoghi abitati misteriose ombre notturne vaganti in nebbie incipienti. Allo stesso modo i fuochi di san Giovanni, la sera del 23 giugno, non soltanto salutavano il sole al tramonto, che comincia il cammino del gambero, con le giornate che progressivamente si accorciano (ecco il vero significato del segno zodiacale del cancro, anticamente il gambero); ma quei fuochi tenevano lontano le streghe in volo, dirette al loro raduno mondiale attorno al grande noce di Benevento.


Forse non fu un caso se la festa “di Tutti i Santi” fu inserita nel calendario da papa Gregorio III dopo la forzata cristianizzazione dei Sassoni da parte di Carlo Magno, per fagocitare nell’anno ecclesiastico una festa importantissima per quei popoli, quando finiva l’anno vecchio e cominciava quello nuovo. Nella notte tra ottobre e novembre sulle Langhe e in tutta l’Europa “carolingia” era diffusa la tradizione di lasciare il fuoco acceso nel camino e un lume sulla mensola di una finestra, al pianterreno, con un bicchiere di vino e un po’ di pane e salame, fors'anche una fetta di torta. Si sperava che le anime dei “parenti trapassati” si accontentassero di quell’offerta e non entrassero in casa.

Il 31 ottobre nel nostro calendario si festeggia santa Lucilla: una santa antica, che risale agli albori del cristianesimo, inventata. In realtà, la luce tremula del sole che progressivamente sembra spegnersi…

Dalle nostre parti, al posto del nordico Halloween, alla vigilia dei “Santi” si tenevano processioni serali, con solenni benedizioni da parte del parroco. In varie parti d’Europa, inclusi Veneto e Friuli, si sprangavano porte e finestre: non era lecito veder sfilare i defunti nelle brume notturne annuncianti l'inverno. All’alba era tradizione distribuire il pane ai poveri, in segno di ringraziamento.

(Dal volume: Mesi Miti Mysteria)



Mauro Malmignati. I colori dell'anima...

Guy Debord a Savona

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Giovedì 9 novembre ore 18:
Libreria Ubik
Corso Italia Savona

incontro con lo scrittore
GIORGIO AMICO
e presentazione del libro
“Debord e la società spettacolare di massa”
(Massari Editore)

Introduce il Prof FELICE ROSSELLO


Guy Debord con “La società dello spettacolo” (scritto nel 1967 agli albori dell'era televisiva) ha intuito che il mondo reale si sarebbe trasformato in immagini, che lo spettacolo sarebbe diventato "la principale produzione della società attuale". Non si può comprendere la logica e la strategia dei mass media senza fare riferimento alle tesi rivoluzionarie di Debord.

L'interesse per tale libro (nel 50º anniversario dalla prima pubblicazione) tende a crescere col passare degli anni. Ci è sembrato giusto, quindi, far conoscere meglio la figura di questa sfuggente personalità destinata ormai a una fama crescente. Giorgio Amico offre una ricostruzione «classica» della vita di Debord, parlando anche delle sue storie personali e delle sue esperienze politiche.




Musica Irish ad Albissola

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Grande serata di musica,
speriamo che il vino sia altrettanto buono.

Quel viaggio nell'Aldilà che sempre ci interroga

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Un bel libro racconta come gli antichi, da Omero agli scrittori di Roma imperiale, immaginassero l'Aldilà attraverso il racconto di chi ci era andato (Ulisse, Enea, Scipione, Pausania) ed era tornato. Il tema classico della nekuia, la discesa agli inferi,narrato attraverso una ricca antologia di testi.

Quel viaggio nell'Aldilà che sempre ci interroga

È da sempre uno dei sogni ricorrenti dell'essere umano: fare un viaggio nel regno dei morti. Per vedere cosa accade nell'Oltretomba. Per sapere che fine hanno fatto i grandi eroi del passato o più semplicemente i nostri cari. Sono scomparsi nel nulla? Si sono dissolti come " creature di fumo"? Conoscono finalmente il gaudio dell'isola dei Beati? Oppure vagano senza pace nella notte cosmica della pena eterna?

La tradizione cristiana ci ha lasciato in eredità la tripartizione di Inferno, Purgatorio e Paradiso, ma l'odierno sistema di credenze si fa ogni giorno più spurio, magmatico. E ciascuno pesca in direzioni diverse. Perciò hanno ragione Tommaso Braccini e Silvia Romani nel presentare il loro libro Una passeggiata nell'Aldilà. In compagnia degli antichi ( Einaudi) come qualcosa che esorbita dalla " rievocazione antiquaria". Perché i miti di quel mondo, come un ribollente fiume carsico, continuano a interrogarci. E lo fanno con un vigore via via rinnovato. Grazie anche a uno spettro interpretativo degli Inferi, sia letterario che filosofico, quanto mai ampio e variegato.

Nel canto XI dell'Odissea, l'aldilà si riduce a un nulla plumbeo, indistinto, che azzera le differenze tra gli uomini e l'azione più o meno gloriosa dei trapassati: una sorta di " democratico annientamento", ben lontano dalla visione di Esiodo. Così come diversa è l'idea di Platone, che presuppone la morte quale " scomposizione" di due entità distanti: anima e corpo. Mentre " un sistema complesso che combina il meccanismo del sorteggio alla scelta individuale" consentirà poi alle anime di rinascere sotto altre vesti. Con Orfeo che si fa cigno e Tersite scimmia.

Infine c'è Lucrezio, per il quale tutto si decide nel volatile passaggio mondano, essendo l'Inferno nient'altro che una mera proiezione delle nostre angosce, superstizioni, paure: "E in realtà tutte quelle cose che si dicono essere nel profondo dell'Acheronte, sono tutte tra noi, nella vita". Vero. Ma il desiderio di quel viaggio fantasmatico rimane. Magari per scoprire, come nel film mai girato da Fellini, il geniale Viaggio di G. Mastorna

La repubblica – 24 dicembre 2017

Tommaso Braccini-Silvia Romani
Una passeggiata nell'Aldilà
Einaudi, 2017
21 euro

La camera segreta della piramide di Cheope

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Scoperta di un team internazionale con uno “scanner” che individua le interazioni dei raggi cosmici con il granito.


Vittorio Sabadin

Nella piramide di Cheope c’è una stanza dei misteri. Forse è quella del tesoro


A 4500 anni dalla sua costruzione, la piramide di Cheope continua a sorprenderci. Un team internazionale di scienziati ha individuato al suo interno una grande e misteriosa camera segreta, lunga 30 metri e alta 15, che si trova poco sopra la Grande Galleria che conduce alla Camera del Re. Da ieri, quando Nature ha dato l’annuncio della scoperta, nella comunità degli egittologi non si parla d’altro e già si fanno mille congetture: conterrà il tesoro che da millenni si cerca nella piramide? Sarà la vera tomba di Cheope, la cui mummia non è stata mai trovata? Rivelerà finalmente i misteri della costruzione del più imponente edificio dell’antichità?

Mehdi Tayoubi, presidente dell’Heritage Innovation Preservation del Cairo che ha avviato la ricerca invita alla prudenza: «Ci sono molte teorie, alcune pazze e altre ragionevoli, ma è troppo presto per qualunque conclusione». Il professor Tayoubi ha fondato anni fa lo Scan Pyramids Project, un’iniziativa il sui scopo è compiere ricerche sulle tre piramidi della piana di Giza senza ricorrere a pratiche invasive. Scienziati giapponesi e francesi hanno unito le loro conoscenze per effettuare uno scanner della Grande Piramide intercettando i muoni, particelle subatomiche generate dal contatto dei raggi cosmici con gli atomi dell’alta atmosfera. Come i raggi X di una radiografia, i muoni sono disturbati dai solidi come i blocchi di granito, e si muovono in maggiore quantità negli spazi liberi.

Nel dicembre del 2015 il fisico Kunihiro Morishi ha piazzato un primo rilevatore di muoni nella Camera della Regina e scienziati giapponesi e francesi ne hanno collocati altri due, uno dei quali all’esterno della piramide. Dopo mesi di osservazioni, tutti e tre i rilevatori hanno indicato la presenza di una grande e sconosciuta cavità al di sopra della Grande Galleria, che è stato possibile per ora tracciare solo a grandi linee: per un disegno più accurato occorrerà altro tempo. Tayoubi pensa che «possa trattarsi di una seconda Grande Galleria» della quale però non si comprende lo scopo, a meno che non porti a una nuova camera sepolcrale. Ma questa ipotesi è scartata dall’egittologo britannico Aidan Doson: «Le probabilità di trovare una tomba sono pari a zero», ha subito commentato.


La scoperta, che era stata anticipata da La Stampa il 5 agosto scorso con i pochi dettagli allora disponibili, aiuterà sicuramente a comprendere meglio la storia della piramide. Cheope ha regnato dal 2509 al 2483 aC e il suo immenso monumento funebre ha affascinato per millenni chiunque lo abbia visto. Per i Romani era già antico come oggi lo sono i Romani per noi, ed è stato necessario attendere fino al 820 dC, quando l’arabo Al Mamoun vi aprì una galleria alla ricerca di tesori, per conoscerne la complessa struttura interna.

Nell’800 e nel ‘900, archeologi come Flinders Petrie, Giovanni Battista Caviglia e Richard Vyse ne hanno studiato a lungo i corridoi e le stanze, senza arrivare a dare una spiegazione ai molti misteri nei quali si imbattevano: la mancanza di qualunque geroglifico, il sarcofago privo di un cadavere e di un nome, la Camera della Regina completamente vuota, i canali che comunicano con l’esterno, il pozzo scavato in modo irregolare che conduce a una grotta sotterranea. E poi la Grande Galleria, un capolavoro di architettura del quale ancora oggi non si conosce lo scopo e di cui è stata ora forse trovata una copia segreta.

Richard Vyse, ai suoi tempi, se avesse individuato una camera nascosta si sarebbe fatto portare subito un po’ di dinamite per aprirsi un varco e raggiungerla, ma oggi per fortuna non si può più fare. «Per il momento non scaveremo – ha detto Hany Helal, vice presidente dell’Heritage Innovation – e continueremo la nostra ricerca con tecnologie non invasive per avere un quadro completo. Con l’edificio più famoso del mondo non si può andare avanti per tentativi ed errori». Presto, ha annunciato Mehdi Tayoubi, lo scanner dei muoni sarà replicato nella piramide di Chefren, grande e misteriosa quasi come quella di Cheope. Ci aveva già provato negli Anni 60 il Nobel della fisica Luis Alvarez senza trovare nulla. Ma la tecnologia è molto migliorata, e le sorprese di Chefren potrebbero essere persino superiori a quelle di Cheope.


La Stampa – 3 ottobre 2017

Il ritorno del sacro

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Silvia Ronchey va alla scoperta della civiltà bizantina. Quello che trova è un affascinante intreccio di popoli, culture e religioni che passo dopo passo giunge fino all'estremo Oriente. Un libro in cui la civiltà greca si intreccia a quella islamica e in cui troneggiano fra storia e mito le grandi figure di Buddha, Cristo, Mithra e Dioniso.


Corrado Augias

Il ritorno del sacro



Titolo impegnativo: “La cattedrale sommersa”; richiama i sordi accordi dissonanti con i quali Claude Debussy apre il suo preludio evocando profondità sottomarine. Qui invece la metafora rimanda all’immensa civiltà bizantina che l’Occidente, Italia in prima fila, ha inabissato racchiudendo l’aggettivo “bizantino” nel connotato quasi caricaturale di una burocrazia puntigliosa e inefficiente. Con questa raccolta di saggi Silvia Ronchey vuole porre riparo all’ingiustizia, e alla lacuna, recuperando, come scrive con garbata modestia, «qualche frammento di fregio di archivolto, di colonna».

In realtà va molto più lontano come del resto rivendica il sottotitolo del volume “Alla ricerca del sacro Perduto”. Come mai la civiltà bizantina è in pratica scomparsa dall’orizzonte delle nostre abituali conoscenze? Vi ha contribuito una sorta di censura collettiva della chiesa cattolica e della storiografia confessionale ma anche, dopo l’Unità italiana, la storiografia ufficiale poiché l’influenza di Bisanzio rendeva evidenti le differenze di tradizione politico-amministrativa in un’Italia che ambiva invece a mostrare un’identità unitaria.

Ciò che si trova, dissotterrando quelle radici, sono in primo luogo i continui scambi, le reciproche ibridazioni che hanno caratterizzato la vita delle religioni, non solo dei tre monoteismi, tutte sgorgate dal grembo fecondo dell’Oriente, vicino o estremo che sia. Come afferma Denis de Rougemont (qui citato) proprio questo continuo intreccio e scambio di mitologie conferma; «una confusione insensata di religioni mai del tutto morte e raramente del tutto comprese e praticate». Impressiona per esempio sapere dell’iniziale confusione, in alcune regioni dell’oriente, tra le due figure del Buddha e del Cristo. Nel Kashmir si trova anche la tomba del Gesù indiano e islamico.


Oppure la diffusione di un simbolo quale l’esile falce di luna crescente che si ripete sulla bandiera turca e sulla cima dei minareti ma anche come emblema di Diana Artemide e, nel cristianesimo bizantino, tra gli attributi della Madonna dalla veste azzurra e dalla corona di stelle d’argento, raffigurata con una falce di luna sotto i calzari. Si tramanda, scrive Ronchey, che sia stato l’imperatore Costantino dedicando la nuova città da lui fondata sulle rive del Bosforo alla Vergine Madre di Dio ad aggiungere alla mezzaluna di Diana la stella, così fondendo paganesimo e cristianesimo.

Esempio ancora più impressionante è lo straordinario percorso della croce uncinata, o svastica, ideogramma dell’Eterno Ritorno, collegata al moto perpetuo nella Grecia pre-ellenica, simbolo sciamanico dei nativi americani, in altre parole un segno veramente universale fino a quando nel 1895 un monaco cistercense austriaco, Adolf Lanz, appassionato di occultismo non lo trasforma nell’emblema della sua setta dove si praticava l’esaltazione della razza ariana iperborea e del suo ruolo di purificatrice dell’umanità contro la degenerazione ebraica. Da quel bric-à-brac esoterico la trae Hitler, che dall’occultismo era affascinato, inserendo nel 1920 la svastica nella bandiera del partito nazista.

Un caso forse esemplare, affascinante ed enigmatico, è la misteriosa composizione inserita nella Bibbia che si chiama Cantico dei Cantici. Come leggere versi di un’audacia erotica che sfiora la pornografia? «Dilectus meus misit manum suam per foramen/ et venter meus intremuit ad tactum eius» è la traduzione latina di Girolamo che così possiamo riportare in italiano: «Il mio amato infila la mano nel mio grembo, le mie viscere fremono alle sue carezze». Spasimi della passione carnale?

Nell’interpretazione analogica midrashica quei versi diventano la celebrazione delle nozze tra Jahvè e Israele, sulla medesima falsariga il cristianesimo li trasforma nell’amore del Cristo per la Chiesa. Il Talmud però ammonisce che non si deve mai sottovalutare la lettera di un testo biblico. Dunque quei versi continuano a galleggiare irrisolti nel vuoto di numerose interpretazioni possibili.


Il fascino, e la successiva scomparsa, del dio Mithra è un altro caso di commistione; la divinità ha origine dell’India vedica, passa alla profonda Persia mazdea, arriva a Roma importata dai legionari che rientravano dalle campagne militari. Innumerevoli le coincidenze con Gesù. Il dies natalis di Mithra si celebrava il 25 dicembre (solstizio d’inverno); lo si diceva nato in una grotta adorato dai pastori, ai suoi fedeli promette la sopravvivenza dell’anima e la finale resurrezione della carne. Come ha scritto Ernest Renan (qui citato): «Se il cristianesimo fosse stato fermato nel suo sviluppo da una qualche malattia mortale, il mondo sarebbe diventato mitraico».

Inquietante la cronaca delle controversie con le quali è stata progressivamente fissata la figura di Gesù qual è oggi, vale a dire “vero Dio e vero uomo”. Nestorio, patriarca di Costantinopoli, morto in esilio nel 451, vedeva due nature, divina e umana, e due persone in Cristo, non era poi così lontano da quella che diventerà la posizione ufficiale della Chiesa. Alcuni però gli attribuirono la negazione della natura divina e la sua posizione venne condannata come eretica dal concilio di Efeso (431). Ugualmente condannata la posizione opposta, detta dei monofisiti, secondo i quali la natura umana di Gesù era assorbita dalla sua divinità, dunque in lui rimaneva solo la natura divina.

Tra i più diffusi e potenti elementi comuni ai tre monoteismi e ad altre religioni della Terra, c’è poi il culto delle reliquie. Il Maqam Ibrahim ovvero la pietra con l’orma di Abramo chiusa in un tabernacolo alla Mecca, la colonna della flagellazione di Gesù che si trova invece a Roma. Ma anche, elenca Ronchey: «Il sangue e il latte di San Panteleimone, la testa di Gregorio di Nazianzo, il piatto dell’ultima cena, il baule dei vestiti della Vergine, i vasi d’oro con i doni dei Magi, la griglia su cui fu arrostito san Lorenzo » e via di questo passo fino alle schegge di ossa, fiale con il sudore, resti di capelli o di unghie, il prepuzio di Gesù, ovvero l’infinitesimo lembo di pelle che il rabbino ha escisso dal pene di un bambino di otto giorni, per passare, estremo opposto, ai corpi imbalsamati e plastificati di uomini e donne considerati santi.



Le reliquie soddisfano il bisogno di avvicinarsi, toccare con mano la materia sacrale con riti che accomunano, come ha sostenuto l’antropologo Ugo Fabietti (qui citato): «I feticci africani, i misteri greco-romani, i culti precolombiani andini, il vodu». D’altronde anche le religiosità laiche conoscono questo tipo di venerazione, dai residui corporei di Garibaldi alla salma imbalsamata di Lenin. Annota Ronchey: «Anche nell’Islam come nel paganesimo greco-romano o nel buddismo, le reliquie si usavano nella fondazione di edifici sacri e pubblici, si trasmettevano, si diffondevano con l’avanzata storica e geografica di quella civiltà».

Ho riportato solo qualche esempio nella ricchissima casistica contenuta nel saggio che illustra con quali diversi strumenti le varie fedi, cristianesimo compreso, siano state lentamente costruite. Quali reazioni potrà suscitare la constatazione di quanto le religioni debbano l’una all’altra, quanto numerosi siano stati i prestiti, le ibridazioni, le imitazioni, quanto affanno e ingegno, quali contrasti, le dottrine, le liturgie, i miti di fondazione hanno richiesto per essere organizzati, resi più o meno coerenti.

In alcuni forse delusione e disincanto, la dimostrazione che non dal cielo sono discese quelle formule di salvazione perché vi si sono applicati uomini mescolando alla loro immensa fede errori, lacune, contraddizioni. Per altri invece sarà la conferma che la secolare dedizione posta nel costruire intorno alla nostra effimera vita una sacralità risponde all’ancestrale bisogno di attenuare il terrore della morte dando una qualche consolazione alla nostra fragile umanità.

La Repubblica – 1 novembre 2017


Silvia Ronchey
La cattedrale sommersa
Rizzoli
euro 19

"Seminatore di scandali e di scismi". Franco Fortini, intellettuale critico

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Ristampato Verifica dei poteri di Franco Fortini, libro seminale per la generazione del '68 (almeno per quella parte che non si accontentava di slogan e cercava nei libri i fondamenti del pensiero critico). Intellettuale incapace di mediazioni, «seminatore di scandali e di scismi», simile ma al contempo lontanissimo da Pasolini: la sua lezione di coerenza è ancora attuale.


Paolo Di Stefano

Fortini, in nome del futuro



«Che sant’uomo, ma che tormento!». Fu la sua amica Grazia Cherchi a trasferire su Franco Fortini la frase che don Abbondio rivolse al Cardinale. Un sant’uomo fin troppo inquieto. Fortini diede ragione all’amica, al punto che ricordando la sua presenza nel comitato della rivista «Officina», formato da Pasolini, Roversi, Leonetti, Scalia, Romanò e altri, ammise con (insolita) autoironia: «Quanto a me, ero un seminatore di scandali e di scismi, su questo non c’è dubbio; e credo veramente che la pazienza di quegli amici io la portassi al limite».

È così, naturalmente, Fortini ha portato al limite la pazienza della cultura italiana, perché non era mai contento di nulla, tantomeno del presente che viveva. Come ha scritto Giovanni Raboni, fino all’ultimo giorno della sua vita Fortini si è rifiutato di smettere di sognare, ovvero di seguire il consiglio pressante che ci viene dal nostro tempo: finirla, una buona volta, di sognare. Consiglio, peraltro, su cui gran parte della cultura (non solo politica e non solo italiana) si è ampiamente allineata molto più di quanto lo stesso Fortini potesse temere o immaginare.

Per questo il poeta (grandissimo), critico, saggista è oggi più che mai fortemente «inattuale», parlava del presente «in nome del futuro» (sempre Raboni): con l’atteggiamento mentale dell’educatore che ha e vuole trasmettere l’ossessione di distinguere (il bene dal male). Comunque sempre scomodo, eretico, non ortodosso come marxista, non istituzionale come letterato, anticonfessionale come intellettuale sensibile al pensiero religioso.

Già in vita Fortini è stato descritto non solo dai suoi numerosi avversari come una specie di Savonarola, un predicatore perennemente con il dito puntato. Pasolini lo accusò di essere «malfidato» nell’accezione romanesca, non nel senso di malfido ma di malfidente. «È piuttosto vero», disse Fortini, che era orgoglioso della «fredda ira» (Berardinelli dixit) che traspariva persino dalla sua poesia: fermo restando che tra poesia e ideologia o critica della società e del mondo per lui non c’era alcuna soluzione di continuità. «La mia grinta mortuaria, di ghiaccio-represso», per usare parole sue, si indirizzava ovunque sentisse profumo di conformismo, di opportunismo da chierici, di specialismo asettico da «logotecnocrati» (per usare il sarcasmo del suo amico Cesare Cases).

Polemizzò con tutti, Fortini, anche e soprattutto con gli amici. E anche questo massimalismo infaticabilmente dialettico lo rende prezioso in un tempo in cui la polemica non c’è o si riduce a insulto sterile: basta leggere la sua Verifica dei poteri , un libro del 1965 riproposto adesso dal Saggiatore con prefazione di Alberto Rollo. Dove si parla di padri e di figli (tensione tra passato e futuro, appunto): anche di padri ingombranti, come osserva Rollo, a cominciare da Lukács, per continuare con Auerbach, Spitzer, Goldmann…

Leggendo Pasternak, Proust, Kafka, Mann, Brecht, Fortini «verifica» la distanza dalla grandezza e cioè dalla verità, che è il (sottinteso) obiettivo utopico verso cui non si stanca di tendere chi vorrebbe, come lui, trasformare radicalmente il mondo. In definitiva verificare è il suo atteggiamento costante, qualcosa che somiglia a un «mandato» sociale sia quando è poeta sia quando è filologo sia quando è moralista, ed è per questo che non c’è separazione neppure tra il critico letterario e il saggista etico-politico che comunque instaurano un rapporto necessariamente conflittuale con la propria materia e con la propria contemporaneità.



Come fa presente Pier Vincenzo Mengaldo (il massimo lettore di Fortini), «certamente sua non è quell’arte della mediazione che era somma in Lukács», essendo, al pari di Pasolini, «uomo dell’impazienza e non della tessitura, del fulmine e non del fuoco lento». Amici e nemici, Fortini e Pasolini, simili e opposti. Romano Luperini definisce benissimo i due caratteri: «L’uno è poeta di un’inibizione, l’altro di un’esibizione. Fortini tende al distanziamento razionale e quasi classico (…); Pasolini alla visceralità. Il primo ha in orrore ogni eccesso vitalistico, odia l’intemperanza e la mancanza d’equilibrio sia nel comportamento sia nelle scelte linguistiche, e ha sempre rifiutato lo sperimentalismo; il secondo trovò in una disperata vitalità l’unica ragione della sua esistenza…».

Da queste prospettive divergenti nascerà nel novembre 1956 il celebre (e rude) confronto in versi, ospitato da «Officina», sul rapporto intellettuale-realtà tra il militante socialista ma intimamente comunista (Fortini) e il «compagno di strada in crisi e scomodo» (Pasolini), lontano da ogni schieramento diretto. L’incontro tra Fortini e la «nuova sinistra» dei «Quaderni piacentini» allargherà la distanza, tant’è vero che in Verifica dei poteri , la «disarmata sincerità» di Pasolini, definita «inutile coazione a ripetere», viene collocata tra i tanti bei gridi «così sterili, rauchi — e confusi» contro la meschina infamia dell’Italia.

La rottura diventa quasi insanabile con le barricate del Sessantotto, quando i due ex sodali si ritroveranno su sponde avverse. Ma quella lunga burrasca intellettuale verrà poi rivissuta, a bocce ferme, nel 1993 in un libro, Attraverso Pasolini , in cui Fortini fa i conti con se stesso: «Aveva torto e io non avevo ragione». L’assassinio di Pasolini, secondo l’amico, conferì valore profetico agli stessi scritti corsari la cui visceralità ingenua (o finto ingenua) non gli era mai piaciuta.

Avrebbe potuto avvicinare Fortini a Pasolini la nuova temperie del Gruppo 63, che li vedeva ugualmente ostili, ma non avvenne, benché Pier Paolo, proprio in quella fase, provò a coinvolgere Franco nella rivista che dirigeva con Moravia e con la Morante, «Nuovi Argomenti». Le ragioni del rifiuto erano inequivocabilmente politiche: Pasolini a Roma, con i suoi film, da Accattone al Vangelo secondo Matteo , appariva come il protagonista di un centro di potere, una figura precipitata nel discredito dei giovani intellettuali che circondavano Fortini (Panzieri, Solmi, Bellocchio, Cherchi, Fofi…).



Il quale nel frattempo aveva aperto un conto con la neoavanguardia di Sanguineti che, sempre in Verifica dei poteri , viene individuato come il fautore dell’avanguardia come «arte da museo e da atelier di moda», il teorico dell’«altra faccia della chiacchiera di massa», ovvero della neoavanguardia come saldatura tra letteratura e ordine borghese-capitalistico.

Né in questo caso, diversamente dal rapporto con Pasolini, Fortini ha avuto ripensamenti, se è vero che in un ritratto degli anni Novanta appare ancora più duro, parlando di «fastidioso culturalismo poliglotta» e, peggio ancora, della «posizione politica di parlamentare, per così dire, “normalizzato”», in cui Sanguineti «sembra trovare un contenitore per i frantumi psichici del suo passato»: «Una ironia depressiva fra crepuscolarismo, comunismo e liberty».

Per la verità, non è che dal suo nemico gli siano mai mancate durissime repliche pan per focaccia. Analogo trattamento fortiniano nei confronti delle sperimentazioni di Giorgio Manganelli, colpevole, con il suo «spreco e fasto lessicale», di immergere il lettore nei «piaceri della pubblicità televisiva». E così non meravigliano le riserve, contraddittorie, nei confronti del padre ideale della neoavanguardia, Gadda, verso il quale Fortini dichiara senza mezze misure: «Mi è sempre stato antipatico», «certe laceranti delusioni non mi commuovono affatto». Ma su un altro versante, si ricorderanno la netta repulsione per La storia di Elsa Morante o le ironie acide a proposito del successo ottenuto dalle Lezioni americane dell’amico Calvino: «Un decennio di “pensiero debole” e di relativismo da morale laica hanno disposto moltissimi ad accogliere queste pagine».

Sono discussioni e prese di posizione lontanissime, ben più remote di quanto la cronologia esterna farebbe credere. Talmente anacronistiche da risultare sempre indispensabili. In fondo oggi verificare sarebbe più urgente che mai.

Il Corriere della sera – 8 settembre 2017

“I dì-‘d-märca” (i giorni di marca). Una storia di langa

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Un ritratto vivissimo dell'antico mondo di langa, scandito dal passaggio delle stagioni e dalle feste cristiane, spesso solo forma nuova di antichissimi culti pagani.* 

Guido Araldo

I dì-‘d-märca” (i giorni di marca)

Un tempo, tra il XIX secolo e l’inizio di quello successivo, nella borgata dei Cataragni (i Catari) viveva mio nonno “Serafen” (Serafino) e nei lavori dei campi lo aiutava “Keep”, che era stato nel Nord e Sud Dakota ai tempi del colonnello Custer e del capo indiano Toro Seduto. Lo chiamavano “keep” (tieni) poiché, quando giocava a tressette, usava verbi inglesi. Quel simpatico avventuriero nostrano aveva scavato buche un po’ dappertutto sulla collina della Rosa, alla ricerca di una mitica capra d’oro. Chissà cosa si sarebbe inventato, se fosse venuto a conoscenza di un altro tesoro nello stesso luogo, ben più consistente: una nave tutta d’oro, sarcofago del principe saraceno Abdul Amin, del tutto simile al guscio che lo aveva portato sulla spiaggia che ancora oggi è nota con il nome di “Baia dei Saraceni”, a Varigotti. Il più grande tesoro del Piemonte e della Liguria.

Di domenica, con la “vesctimenta baela” (camicia bianca, corpetto e completo scuro) mio nonno scendeva “au burg” (al borgo di Saliceto) per la santa messa. Nel taschino del gilè teneva la “tziula” (la cipolla: l’orologio da tasca), che ticchettava come una pendola, assicurata a un’asola con la catenella d’argento. L’ultima asola del corpetto era sbottonata, quale segno di eleganza, poiché correva voce che in Inghilterra, un giorno, il re si fosse dimenticato di abbottonare quell’ultima asola e allora tutti i gentiluomini di corte se l’erano sbottonata... Quella “tziula”: un Roskopf svizzero ticchettante di 1° Classe, perfettamente funzionante, è tuttora in mio possesso, e anch’io sono solito portarlo nel taschino del corpetto con l’ultima asola sbottonata...

Al ritorno Serafen sostava alla “censa”, che fungeva non soltanto da spaccio del sale e del tabacco, ma era anche dimessa trattoria di borgata gestita da un personaggio eccentrico, noto con il soprannome bizzarro di “trenta gambe”, per una gamba di legno che aveva sostituito quella perduta sulla montagna dell’Amba Alagi. Di quella gamba disponeva almeno di un paio di ricambi, e proprio per questi ricambi era noto come Pinotu “d’är tranta gambe”. Sempre gli venivano le lacrime agli occhi, quando ricordava il capitano Toselli di Peveragno, che si era sacrificato con i suoi Bersaglieri per coprire la ritirata all’esercito “piemontese”.

Alla “censa” venivano servite splendide “ravìore är plen, cur ven” (piccoli ravioli pizzicati, conditi con il vino) preparati dalla “Särinéra” (la venditrice di sale), moglie del reduce dell’Amba Alagi.


All’epoca sulla tavola era ignota la caraffa dell’acqua e vi troneggiava ‘a bùta ‘d düzet (la bottiglia di vino Dolcetto): vino che “maturava” sulle fasce assolate (i terrazzamenti) sotto gli Alberghi. Un dolcetto leggero e un po’ frizzante, apprezzato dal barone Giuseppe Vernazza d’Alba, con il quale faceva una grande bella figura alla mensa di Vittorio Amedeo III di Savoia. Il mitico Barolo era ancora in là da venire.

Quante storie lassù, agli Alberghi! Nel Medioevo vi sostavano prelati, mercanti, crociati, predicatori che lasciavano la Via Francigena ad Asti, per percorrere la Magistra Langarum e andarsi a imbarcare nei porti di Albenga, Varigotti, Noli e Savona.

Lassù alla “censa” Serafen trascorreva le serate giocando a tressette nella versione dell’escarté (scartare una carta). Era un ottimo affabulatore e narrava storie di masche (streghe), di sfrosadori (contrabbandieri) e dell’America lontana, poiché anche lui era stato al di là del “grande lago” Oceano, a New York e nel Canada. Allora le donne smettevano di “fare l’uncinetto”, i bambini si tappavano le orecchie o sgranavano gli occhi, secondo l’argomento trattato, e le carte restavano sospese nelle mani dei giocatori. La televisione di quei tempi!

Sempre lassù, alla “censa”, era appeso l’unico almanacco della borgata, dov’erano segnati, in bella evidenza, i dì ‘d märca: i giorni che “segnano l’anno”, importanti nel ciclo eterno delle stagioni. Per le fasi lunari, indispensabili alla semina, ai raccolti, alla vendemmia, all’imbottigliamento dei vini, al taglio del fieno e delle piante … bastava l’épata (l’epatta) a tutti nota.


A gennaio, oltre il Capodanno e l’Epifania, erano evidenziati i giorni di sant’Antonio Abate, quando non si doveva entrare nelle stalle poiché gli animali parlavano tra loro, e di san Sebastiano protettore dalle peste, allorché l’inverno volta pagina. Infine i giorni della merla (i dì d’ra merla): gli ultimi tre giorni del mese, famosi per essere i più freddi dell’anno.

A febbraio la Candelora, “a metà strada” tra un solstizio e un equinozio; poi san Biagio, quando all’alba si andava in chiesa per farsi benedire la gola con le candele incrociate sotto il mento, consacrate la sera prima. Infine, secondo le fasi lunari (novilunio di febbraio), due giorni consecutivi: il martedì grasso del Carnevale, per la crapula, e il mercoledì magro delle Ceneri, quando inizia la lunga Quaresima.

Ad aprile o a marzo, sempre secondo le fasi lunari (plenilunio di marzo), erano evidenziata la domenica delle palme (anticamente “l’osanna”), quando veniva benedetto l’ulivo, e la Pasqua sette giorni dopo, con la settimana santa in mezzo: il periodo festivo più importante dell’anno.

A maggio il Calendimaggio (1° maggio), “a metà strada” tra un equinozio e un solstizio, quando veniva alzato “l’albero di maggio” al centro della borgata, sul quale i giovani più gagliardi si cimentavano nel salire, lesti come scoiattoli, per far bella figura davanti alle ragazze in età da marito. E poi il Corpus Domini, che era variabile come la Pentecoste, essendo entrambi collegati alla luna di Pasqua.

A giugno san Giovanni Battista: il solstizio d’estate, con i falò da accendere alla vigilia, all’imbrunire, e poi la magia della rugiada, all’alba, che “purifica” le noci e le erbe aromatiche. San Giovanni Battista era il patrono della borgata del Mù, con tanto di chiesa bella agreste dove il 24 giugno era esposta un’importante reliquia: un'ampollina di vetro con il sangue del santo in polvere, custodita nella parrocchiale, giù al borgo. C’erano anni in cui mio nonno era il massaro di San Zuàn (San Giovanni).

A luglio, mese del grano e della mietitura, non c’erano dì-‘d-märca. Ad agosto la festa della Madonna della Neve, la prima domenica del mese; quindi san Lorenzo, oggi noto per le stelle cadenti (un tempo, a Saliceto, occasione di una grande fiera dei buoi e del grano). Infine la festa dell’Assunta a metà mese, oggi più nota come Ferragosto: le feriae dell’imperatore Augusto che all’epoca corrispondevano al riposo dopo la trebbiatura; oggi momento privilegiato per le vacanze estive.

A settembre san Michele: la festa successiva alla vendemmia, quasi a siglare l’inizio dell’autunno. A ottobre, mese della raccolta dei frutti e della prima aratura, non c’erano di-‘d-märca, similmente a luglio.


A novembre i Santi, festività antichissima a metà strada tra l’equinozio d’autunno e il solstizio d’estate, quando sono addobbati i cimiteri e vengono commemorati i morti. Poi San Martino, giorno della grande fiera in tutti i paesi, in cui si stipulavano i contratti agrari, inclusi quelli dei mezzadri soggetti a continui traslochi (in piemontese ancora oggi “fè san Marten” significa traslocare). Infine sant’Andrea, ultimo giorno del mese: altra occasione di fiere, quando si mangiavano le trippe in umido, durante cene collettive.

A dicembre santa Lucia, allorché la luce solare sembra spegnersi, dando origine ai dodici giorni più corti dell’anno. Poi, finalmente, il santo Natale, con la magica notte della vigilia da tutti apprezzata, soprattutto dai bambini. Infine, sull’almanacco, che includeva anche il primo mese dell’anno successivo, erano evidenziati i dodici giorni del “dodekaemeron”: la dodecade di Giano; i giorni “che vanno” da Santo Stefano (26 dicembre) all’Epifania (6 gennaio).

Secondo la tradizione, le condizioni meteorologiche del 26 dicembre paleserebbero il clima del successivo mese di gennaio; quelle del 27 dicembre il clima del mese di febbraio, e così via... Un tempo magico, sospeso, che racchiude la morte dell’anno vecchio e la nascita dell’anno nuovo, secondo una visione ciclica, a spirale, del divenire dell’universo dal microcosmo al macrocosmo. Un periodo collegato anche all’epatta.

Quando le prime ombre cominciavano ad avvolgere il mare dagli alti marosi immobili nel tempo che sono le Langhe, gli avventori s’attardavano in amena conversazione sotto il pergolato, nella calura dell’estate, o attorno al camino, se il soffio di Borea correva sulle colline. Disquisivano di raccolti, manze, santi, cascine, giornate di terra da lavorare e anche di madamine, meglio se birichine. Pagavano un soldo alla “Särinéra” per l’olio della lampada e tornavano a casa sotto le stelle, ciascuno con il proprio lumino. In mezzo al fieno dei prati ondeggiante nella brezza dello Zefiro, in compagnia della sinfonia di grilli chiacchieroni.

Tra campi ammantati dall’oro del grano, punteggiati da rossi papaveri con lucciole discrete indicanti gentili la strada. Tra zolle grigie rivoltate dal vomere di aratri trainati da solenni buoi. Nel manto candido della neve, in compagnia della calaverna che rendeva incantati alberi e boschi. Andavano silenziosi sotto la Via Lattea splendente immensa, piena di miti antichi. Tanta magnificenza sulle loro teste li commuoveva facendoli sentire piccini, partecipi a tanta armonia. E molti, in cuor loro, ringraziavano sommessamente l’artefice di tanto splendore, recitando un’“Ave Maria”.


(Dal volume: Mesi Miti Mysteria)

Le foto rappresentano Saliceto, la parrocchiale di San Lorenzo, la cappella di San Martino e i suoi affreschi.

Primo Levi, A occhi chiusi nella tragedia

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Il disastro imminente?. Vivevamo come se non fosse”. In un’intervista inedita del 1982 la figura del padre, le letture giovanili e la memoria del Lager.


Primo Levi

A occhi chiusi nella tragedia

Intervista di Pier Mario Fasanotti e Massimo Dini



Primo Levi ragazzo com’era?

« Un ragazzo molto timido, molto afflitto da un complesso di inferiorità poiché ero il più magro e più minuto della mia classe; avevo amici robusti e non ebrei, per cui ritenevano ovvio che un ragazzo ebreo non potesse fare il salto in lungo, per esempio, e io mi sforzavo invece di farlo, cercavo di guadagnare terreno su questo terreno, quello dell’attività fisica, anche se con risultati nulli (...). A scuola tutto si capovolgeva, ero il primo della classe; scadente come attività fisica, come aspetto, mi sentivo brutto, ma a scuola ero bravo pressoché in tutto, avevo la vita facile ancora. Ho avuto dei professori brava gente; il D’Azeglio era stata una cittadella antifascista, al mio tempo c’era già stato il colpo di falce, avevano mandato in prigione o al confino o comunque espulso molti… Monti, Zini; insomma era stato messo sotto silenzio, sia come allievi che come professori, non era più un liceo di contestatori».



Rimpianti della Torino di allora?

«Il fatto di conoscersi tutti, che non fosse una grande città, ma una città piccola, un grande villaggio, era tranquillizzante. Io sono uno strano piemontese, rimpiango di non saper parlare il dialetto, che non ho mai imparato e mi piacerebbe poterlo parlare; io allora trovavo divertente che mia madre andando a fare la spesa parlasse piemontese, mio padre anche, anzi, mio padre parlava prevalentemente piemontese, la sua madrelingua non era l’italiano, era il piemontese, benché parlasse anche il tedesco, il francese e l’ungherese; era poliglotta, però la sua lingua era il piemontese».

Cosa voleva dire essere ebrei a Torino?

«C’era qualche voce sionista, che io ascoltavo distrattamente; c’era stato un tentativo qui a Torino, poco prima delle leggi razziali, un segmento della comunità ebraica torinese aveva fondato un giornale, La nostra bandiera, che era un giornale collaborazionista, cioè parafascista, che tendeva a dimostrare che gli ebrei erano ed erano sempre stati cittadini italiani, dei fascisti a pieno titolo e questo giornale era malvisto qui; mio padre, che era agnostico politicamente, lo vedeva molto male, intuiva che non era cosa pulita insomma. A Torino c’era un filone ebraico antifascista importante, che faceva capo a Vittorio Foa, a Mario Levi e così via; prevaleva la corrente antifascista, per molti motivi, per motivi intellettuali soprattutto, gli ebrei torinesi erano in massima parte antifascisti, non militanti, ma serissimi; così anche mio padre, che aveva la camicia nera, ma che però se la sentiva prudere addosso, aveva dovuto iscriversi al partito come tanti, come tutti, per non aver intralci nel suo lavoro, però ricordo le sofferenze, irritato quando se la doveva mettere la domenica, per andare a votare; non era un leone neppure lui, non se la sentiva di fare attività antifascista aperta o di spingere me a farlo».

Suo padre com’era?

«Parlava il tedesco correntemente, il francese correntemente e abbastanza bene l’ungherese, perché aveva lavorato a lungo a Budapest — lui sì che girava — anche se era abbastanza sedentario, ma il destino lo aveva scaraventato a Budapest, non so bene per quale motivo; lui s’era laureato qui a Torino come ingegnere, aveva lavorato a prosciugare il bacino del Fucino in Abruzzo e raccontava di questo lavoro, di questa sua avventura abruzzese, con molto calore; dopodiché gli avevano offerto, non so in che modo, un posto in una grossa industria ungherese — a quel tempo era ancora austro-ungarica — prima della Prima guerra mondiale, gli avevano offerto un posto a Budapest, proprio in quella grande industria meccanica dove è nata la rivolta del ’56; era un’industria, a quei tempi, tedesca, dove si parlava ungherese ma prevalentemente tedesco. Aveva lavorato come ingegnere progettista a Budapest per parecchi anni e poi era stato costretto a tornarsene in Italia quando è scoppiata la Prima guerra mondiale».



La letteratura che ruolo ha avuto per lei in quegli anni?

«(...) Ero un lettore instancabile allora; mio padre pure era un grande lettore, si faceva fare delle giacche apposta dal sarto che avessero due tasche laterali capaci ciascuna di un libro, e aveva sempre il suo libro in tasca, lo leggeva camminando addirittura (...). Comprava moltissimi libri e li portava a casa e li lasciava a disposizione mia e di mia sorella senza limite, salvo per Salgari. Salgari non poteva vederlo, diceva che non era serio, che era un pasticcione, uno scrittore impreciso, volgare. Io leggevo tutto, leggevo gli scrittori ungheresi, che allora erano di gran moda, Molnár, Dos Passos, Céline, quelli che mio padre comprava li leggevo».

Come si è rapportato con l’ambiente letterario?

«Gli ambienti letterari li frequento poco e per obbligo; naturalmente nutro una certa gratitudine sia per il circolo Bellonci, sia per il circolo La Primavera, per il Viareggio, etc. ci vado, ho una amicizia abbastanza profonda con alcuni, come Rigoni Stern, con Tomizza, ho stima per altri, per Sciascia, per esempio, che però non ho mai incontrato; non mi sento in competizione con nessuno; con Calvino ci siamo visti tante volte presso Einaudi, quando lui era qui a Torino o altrimenti nell’orbita Einaudi; ho una simpatia profonda per Sgorlon, che pure conosco poco, ci siamo visti soltanto in occasione di uno Strega e di un Campiello (...). Amicizia la sento per Rigoni Stern e Nuto Revelli, perché siamo colleghi in senso profondo, siamo persone quasi coetanee e tutti e tre siamo stati spinti a scrivere…».

E la percezione della tragedia immensa in arrivo…?

« Non è facile dire quando sia stato il momento preciso di questa percezione, non soltanto per quanto riguarda me, ma per l’intera generazione; che dovesse coinvolgerci è una percezione che io, come molti altri, abbiamo rimosso, l’abbiamo subita solo a colpi e poi l’abbiamo rimossa più volte, per parecchi episodi. L’entrata in guerra dell’Italia per noi è stato uno choc, le notizie che ci pervenivano così, a intervalli, di quello che capitava agli ebrei nell’Europa occupata ci arrivavano a onde e dopo ogni onda c’era un lavorio interiore in ciascuno di noi (anche in mio padre, che era ancora vivo) di palese rimozione, cercavamo di chiudere gli occhi, cercavamo di vivere “ come se non fosse”, finché era possibile — dopo l’8 settembre non era più possibile in nessun modo, la scelta diventava obbligatoria, non c’era più modo di fare come se nulla fosse».



La sua esperienza del Lager: la memoria ha modificato qualche cosa, è un’esperienza che per lei è ancora di drammaticità viva, intensa oppure è qualcosa di lontano?

«È qualcosa di lontano nel tempo e non mi ferisce più. La sognavo sovente e ora non la sogno più da molti anni. Però la percepisco ancora come l’avvenimento fondamentale della mia esistenza, dalla quale non si può prescindere, senza la quale sarei diverso; per un altro verso, l’averne scritto è stato per me un’altra avventura, altrettanto grossa, altrettanto ingombrante e stranamente le due esperienze si compensano e si mescolano: il fatto negativo del Lager e il fatto positivo di averne scritto e di essermi arricchito scrivendone, di aver fornito una documentazione, aver fatto una testimonianza. Questa esperienza è positiva e va a compensare l’altra e si è anche, in un certo modo, sostituita all’altra come una specie di memoria artificiale. Mi funge da memoria. Proprio adesso sto cercando di rielaborare queste esperienze in senso generale, scrivere una serie di saggi su alcuni aspetti del fenomeno deportazione, che mi sembrano un po’ trascurati dalla letteratura, non solo dalla mia, da quella che ho scritto io, ma anche dagli altri (...). Un tema è quello del fatale costituirsi; quando vado in giro per le scuole in generale i ragazzi — me ne accorgo — hanno percepito quell’esperienza in termini manichei, cioè di bianco e di nero: quello che loro chiamano gli aguzzini da una parte e i prigionieri dall’altra. E questo modo di vedere non è corretto, non è storico; tra i due, tra gli aguzzini e i prigionieri c’era un gruppo di persone che erano a un tempo sofferenti e provocatori di sofferenza, e che erano collaboratori in parte, anche costretti a collaborare, su cui il giudizio rimane sospeso».

C’è qualcosa del passato che ancora le fa paura?

«E come no, fa paura a tutti; non è che abbia paure differenti dagli altri, la paura della bomba atomica ce l’ho anche io come tutti (forse un po’ meno degli altri però), non so perché, ma finisce che non ci credo tanto; mi trovo per lo più tranquillo e più ottimista dei miei interlocutori giovani (...); è molto difficile prendere una posizione razionale davanti a queste cose; può darsi benissimo che la mia posizione di uomo tranquillo e tranquillizzante sia la stessa rimozione che avevo allora, come dicevo prima; a quel tempo la trappola stava chiudendosi…; questo processo di rimozione era un fatto tipico degli ebrei italiani; comunque era una rimozione e può darsi che sia in atto un’altra rimozione, speriamo di no; non si può avere paura per tutta la vita, la paura sparisce con gli affetti, con il lavoro, con la vita quotidiana».

Come concilia questo dichiararsi non religioso e nello stesso tempo geloso della propria identità ebraica?

« È una cultura importante, antica, degna, stramba, anomala, ma come possedere una riserva di caccia, almeno a me dà questa impressione. Capisco Mario Rigoni Stern che scrive solo di Asiago, perché lui è uno scrittore di Asiago; scrittori ebrei siamo parecchi, ma non tutti sono interessati a… per esempio, Natalia Ginzburg è ebrea come me ma sensibile, non le interessa… In fondo la solidarietà che c’è fra Rigoni Stern e me consiste in questo: lui ha l’altopiano, io ho il piano ideale, che mi interessa, come ripeto, come riserva di caccia, un mondo che interessa a me e so che interessa anche ai lettori, mi sembrerebbe una sciocchezza e un peccato buttarla via, coltivare un altro filone dal momento che posseggo questo, che mi è famigliare». 


La Repubblica – 5 novembre 2017

Anni di piombo. La lotta armata è iniziata in Val Bisagno

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Un film racconta la storia della XXII Ottobre, primo gruppo armato di estrema sinistra all'inizio degli anni '70. Donatella Alfonso gli ha dedicato un bel libro, Animali di Periferia, presentando senza moralismi o giudizi i protagonisti di quella vicenda tragica. Un libro che ci ha aiutato a capire meglio quegli anni che furono anche quelli della nostra militanza giovanile. 


Donatella Alfonso

I tupamaros della Valbisagno e le interferenze di radio Gap

La scena è quella della Valbisagno vista dal Righi, due uomini dai visi segnati dal tempo che la guardano. “Ci chiamavano i tupamaros della Valbisagno” dice l’uomo con il berretto: è Mario Rossi, il capo della XXII Ottobre, la banda genovese che è considerata la prima organizzazione armata in Italia negli anni settanta. Accanto a lui, Gino Piccardo; man mano che si va avanti nelle sceme, entra in scena anche Beppe Battaglia, altri due membri della banda. Ricordi degli addestramenti sui monti, dell’alluvione che fu protagonista nel corso del clamoroso rapimento di Sergio Gadolla. Ma il film punta soprattutto su una vicenda, quella che aprì le attività del gruppo: le interferenze, le emissioni di Radio Gap che disturbavano le trasmissioni televisive in tutta la Valbisagno, oscurando lo schermo del Tg1. E che annunciavano una realtà mai vista fino ad allora: era l’aprile del 1970.

Spiegano e raccontano, Rossi, Battaglia e Piccardo. Lo fanno davanti alla telecamera della regista e performer tedesca Cora Piantoni, nata a Monaco nel 1975 ma attiva tra la città bavarese e Zurigo. (...)


“Ho realizzato altri film su storie di persone legate a momenti della nostra storia recente, uno su una cooperativa di arrampicatori che ha partecipato al movimento Solidarnosc a Danzica negli anni 1980, un altro sul personale del cinema nella Repubblica Democratica Tedesca e le sue  esperienze prima della caduta della mura di Berlino – racconta Cora Piantoni -  M'interesso ai gruppi alla periferia della storia officiale, le sue versione della storia di una società, la solidarietà, i movimenti di resistenza. Faccio ricerche e interviste e re-enactment, cioè ricostruisco scenari e fatti delle situazioni che racconto”.

Nel caso di “Un’altra informazione” Piantoni è venuta a Genova per girare,  ma ha anche incontrato preventivamente Mario Rossi, che adesso vive a Novara e si occupa di una cooperativa di servizi curando allo stesso tempo il Museo di Storia Naturale Faraggiana-Ferrandi, per il quale è tornato all’antico mestiere di tassidermista, mentre Beppe Battaglia è da anni a Firenze dove ha collaborato a lungo con la Caritas e le iniziative di sostegno ad ex carcerati e persone deboli.


Entrambi, così come Gino Piccardo – che vive ancora a Genova - hanno da molti anni concluso la loro vicende giudiziarie. Rossi e Battaglia parteciperanno all’anteprima genovese del video. Per raccontare come, in quegli anni complicati ed eccessivi, il timore di un golpe abbia dato vita all’idea di una “chiamata alle armi” clandestina da parte di un gruppo di giovani della Valbisagno, conclusa con una tragica vicenda, la rapina allo Iacp in cui morì il fattorino Alessandro Floris.

Una morte non rivendicata come sarebbe accaduto più avanti per le troppe vittime del  terrorismo, ma ammessa da Rossi, che sparò il colpo mortale (“io volevo solo spaventarlo o ferirlo per fermarlo”, ha raccontato anni fa) e che ha sempre voluto ricordare Floris come un vero eroe civile. “Sapevamo che se avessimo sparato e ucciso, noi saremmo finiti” ha ammesso Rossi. Ma resta, oggi, la necessità di ascoltare quali ragioni ci furono per un’attività clandestina che portò a quella tragica conclusione.



http://genova.repubblica.it/

Ombre rosse. Che fare del corpo di Lenin?

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Lenin morì il 21 gennaio 1924. Il patologo Alexei Ivanovich Abrikosov fu incaricato subito dopo di imbalsamarlo. Il corpo è conservato nel mausoleo sulla Piazza Rossa. Ora si parla di rimuoverlo e crescono le polemiche. In realtà, sarebbe ora. La mummia di Lenin (che sarebbe inorridito all'idea dell'uso che si è fatto del suo corpo) simboleggia bene il declino fin dai primi anni Venti della speranza libertaria dell'Ottobre e la sua trasformazione  in un culto religioso a sostegno di un potere dispotico.

Paolo Valentino

Il corpo di Lenin, che fare?




Alla vigilia del centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, il destino della mummia di Lenin torna a tormentare i russi. E tutto avrebbe immaginato il padre dell’Unione Sovietica, tranne che il quesito di una delle sue opere più celebri avrebbe finito per riguardare se stesso: che fare?
Reso eterno dall’imbalsamazione, disteso dentro una teca di cristallo, traslucente a due metri di profondità nella cavità fredda del Mausoleo sulla Piazza Rossa, il corpo di Vladimir Ilich incarna tutte le contraddizioni, i nodi irrisolti e le fragilità della Russia post-sovietica. Fondatore dello Stato moderno e padre del totalitarismo, reliquia della Superpotenza socialista cara all’auto-percezione russa e simbolo di un passato che non passa, Lenin è nuovamente al centro di un dibattito emotivo e lacerante.

A riaccendere la miccia di una polemica mai veramente sopita, è stata Ksenia Sobchak, già it-girl , stella dei reality show, blogger e ora candidata alle elezioni presidenziali del marzo prossimo. «Se fossi eletta — ha detto in un’intervista televisiva — ordinerei di rimuovere la mummia di Lenin dal Mausoleo e di seppellirla». Di passata, nella presa di posizione è interessante notare una coerenza familiare, per così dire: nel 1990, in piena perestrojka, fu infatti il padre di Xenia, Anatoly Alexandrovich Sobchak, allora sindaco dell’appena ribattezzata San Pietroburgo, a proporre la rimozione e l’inumazione del leader bolscevico, nel rispetto, spiegò al tempo Sobchak padre, delle sue ultime volontà.

Tant’è. L’uscita della signora ha avuto l’effetto di una deflagrazione. Giovedì scorso, perfino il leader ceceno, Ramzan Kadyrov, non esattamente un cultore della storia o una tempra di democratico voglioso di chiudere col passato comunista, ha detto che «è giunto il tempo» di seppellire il corpo di Lenin, invitando il presidente Putin a chiudere l’annosa questione. «E’ sbagliato che nel cuore della Russia, sulla Piazza Rossa, ci sia un sarcofago con un cadavere».



E in verità, Kadyrov in genere i morti, di preferenza gli oppositori, tende a farli sparire. Mikhail Fyodotov, capo del Consiglio per i Diritti Umani, ha addirittura proposto di trasformare il Mausoleo in un museo dove si racconta la tecnica dell’imbalsamazione, nella quale i russi sono all’avanguardia nel mondo. Una specie di Museo egizio del Cairo in versione moscovita: lì Tutankhamon, qui Lenin.

Per Valentina Matvijenko, presidente del Consiglio della Federazione, dovrebbe essere un referendum popolare a decidere se rimuovere o meno la mummia. Ma non subito, poiché c’è ancora «un’intera generazione di russi per i quali Lenin ha un grandissimo significato».

«Blasfemia», tuona il leader del Partito comunista, Gennady Zyuganov, il quale definisce «inaccettabile» che il tema venga riproposto alla vigilia dei cento anni dell’Ottobre Rosso.

Zyuganov aggiunge anche di aver avuto assicurazione da Vladimir Putin in persona che fin quando lui sarà presidente anche Lenin rimarrà nel Mausoleo: «Con me in questo ufficio — sarebbero state le parole di Putin, secondo la versione di Zyuganov — non ci sarà barbarie sulla Piazza Rossa».

Sul piano ufficiale, tuttavia, il leader russo non si esprime: «Il tema non è all’agenda dell’Amministrazione presidenziale», si limita dire il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peshkov.

Coerente con il profilo basso assunto nei confronti del centenario, che evoca una palingenesi rivoluzionaria non gradita a un potere che punta su ordine e obbedienza, Putin si guarda bene dal prendere pubblicamente posizione sulla mummia di Lenin. Sa che il tema rimane controverso. Sa che con la salma di Vladimir Ilich, egli rimuoverebbe dalla Piazza Rossa anche il fondatore della Russia moderna. Non ultimo, in cuor suo forse gli sta bene così. Non è stato lui a dire, non senza ragioni, che «la scomparsa dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del Ventesimo Secolo»?


Il Corriere della sera – 5 novembre 2017

Russia 1917-2017. L'URSS era un Paradiso operaio?

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Difficile staccarsi dalle proprie origini, Rita Di Leo, già giovanissima componente del gruppo dei Quaderni Rossi, resta un'operaista. Sappiamo bene che ogni forma di potere, anche il più dispotico si regge sul consenso oltre che sulla repressione. Nell'URSS staliniana, dopo la liquidazione (anche fisica) della piccola borghesia contadina (kulak) e urbana, il consenso di certo poggiava su una serie di concessioni in fabbrica che però gli operai pagavano con la perdita del diritto di auto-organizzazione, il dispotismo politico, il livello bassissimo di vita e consumo. In sintesi, un operaio poteva (forse) “fermare la catena di montaggio per fumare una sigaretta”, come scrive la Di Leo, ma nel “Paese dei Soviet” non poteva costituire un sindacato, né un comitato di lotta, né un gruppo politico o pubblicare un giornale o un volantino che andasse contro la linea del partito o del regime. Viene poi da chiedersi se la Di Leo considera operai (o comunque lavoratori) anche i milioni di schiavi della Kolima e dell'arcipelago Gulag, elemento importante dei piani quinquennali sovietici. Un articolo comunque interessante, per quello che ci rivela più su di una certa sinistra radicale italiana incapace di staccarsi dai miti dello stalinismo che sulla realtà di quella che fu l'URSS.

Rita Di Leo

Ottobre, l’anniversario senza operai



Si stanno svolgendo molti eventi sulla rivoluzione bolscevica. Pochissimi quelli nostalgici, molti invece quelli che usano l’anniversario per rispolverare antichi odi. Descritti sono i capi, da un lato il prediletto Kerenski che avrebbe evitato l’estremismo bolscevico e dall’altro Lenin e Trotsky, gli autori del «colpo di stato» è prolungatosi fino al 1991. Intanto è riemersa la famiglia reale, giustiziata dall’ebreo Sverdlov, ed oggi santificata.

A leggere le ricostruzioni dei mass media, i programmi dei convegni ti chiedi dove sono finiti gli operai e i contadini, in nome dei quali Lenin fece la rivoluzione e cioè si impadronì del governo e dello stato. La loro assenza non riguarda solo l’anniversario dello sciopero delle officine Putilov o dell’occupazione delle terre, pur a volte sfiorati. È la presenza operaia e contadina ad essere quasi assente nella ricostruzione ufficiale.

Non è così per gli intellettuali e per i politici bolscevichi. Molti sono i libri di denuncia o esaurienti ricerche storiche sui processi cui vennero sottoposti gli avversari del successore di Lenin, e appassionate discussioni intercorrono tra gli esperti occidentali sul numero di «lavoratori della mente», sui poeti, sugli artisti, finiti nei lager insieme ai criminali comuni e agli ex contadini ricchi.
A Stalin infine si imputa lo sterminio per fame di milioni di contadini ucraini e anche questo ‘compito’ fu affidato ad un ebreo l’ucraino Kaganovic, uno tra i suoi più fedeli politici professionali.


Ma gli operai? Gli attori della rivoluzione proletaria? Tutti nei gulag anche gli operai? Se così fosse avrebbero meritato l’attenzione degli storici occidentali. I quali invece se ne sono interessati pochissimo: Sheila Fitzpatrick per spiegare l’origine operaia del ceto politico dirigente voluto da Stalin, e David Filtzner per analizzare le leggi anti operaie sul libretto di lavoro, e le misure sulle infrazioni.

Mi è capitato di chiedere al bravissimo Filtzner (scappato in Europa per non andare in Vietnam) se era mai entrato in una fabbrica sovietica. La risposta fu: purtroppo no. Se vi fosse entrato avrebbe capito che le leggi draconiane erano disattese innanzitutto dai dirigenti ex operai, dai sindacati, dalla cellula del partito.

All’epoca dell’industralizzazione la fame di lavoro era tale che gli operai delle grandi fabbriche erano circuiti con benefit (un orologio, un taglio di stoffa, un tagliando per “lotterie”) perché non lasciassero il posto per un’altra fabbrica che aveva promesso un di più. Il padre di Putin, operaio modello, fu premiato con un appartamento e gli fu perfino fatta vincere un’automobile ad una lotteria.

Quando in Urss ti capitava di essere portato a visitare una fabbrica due cose ti colpivano: la prima erano gli enormi cartelloni con le facce degli operai modello che dovevano essere di sprone, e la seconda era il clima di disinteresse per il lavoro da fare. E il «capoccia», non c’era un caposquadra? C’era e aveva il comportamento giusto per quel clima, un dare per avere.

   
Altro che minacce di licenziamenti e multe come nelle fabbriche occidentali. Se la sua squadra gli faceva il piacere di consegnare nei termini della norma il lavoro assegnatogli, allora qualcosa sottobanco sarebbe andata a tutti. Degli operai modello – udarniki, stakanovisti – si diffidava, servivano a far aumentare le norme di lavoro e spesso andavano via, scelti per far carriera nel sindacato, nel partito.

E dunque Lenin aveva fatto la rivoluzione per il socialismo e Stalin aveva messo il socialismo nelle mani degli ex operai e contadini, ma è sul risultato che a cento anni di distanza manca il semplice racconto su quello che è successo al socialismo di Lenin con gli ex operai al governo e gli operai invece al lavoro.

    Immagini del Gulag

Molte lacrime abbiamo trattenuto per il destino di Babel, un po’ meno per la moglie di Bucharin. Detto ciò rimane da chiedersi che cosa sappiamo di coloro in nome dei quali i Babel sono stati sacrificati. Veramente poco.

E dalle statistiche apprendevamo quanti chili di carne mangiavano, i metri abitativi per abitante e il confronto con i livelli europei era solitamente sfavorevole per i sovietici. Intanto però nessuno metteva in dubbio fosse stata raggiunta la parità strategico-militare dell’Urss con l’altra potenza, o la sua capacità di viaggiare nello spazio come l’America. E dunque esistevano tecnici e operai di livello pari ai loro avversari, al lavoro in località ancora più inaccessibili di quella in cui gli americani avevano costruito la prima bomba atomica.

    Lavoratori nel Gulag

Nel resto del paese operai, contadini, impiegati, insegnanti, medici sperimentavano la gestione popolare di governi affidati a ex operai come gli ucraini Kruschev e Brezhnev. Quando dalla provincia russa arrivò uno con la laurea in legge come Gorbachev, s’intestò di far funzionare l’Urss alla maniera occidentale e l’Urss sparì.

Tornò la Russia e gli operai presero a essere considerati unità di lavoro, in balia del mercato, licenziati e assunti, senza più l’ideologia della rivoluzione a legittimare il loro stare in fabbrica come nessun operaio mai prima era stato, libero di lavorare oppure di fermare la catena di montaggio per farsi una sigaretta. Ne sono stata testimone.


il manifesto – 7 novembre 2017

Langhe 1943: follia d’amore e guerra partigiana

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Ispirato al romanzo di Beppe Fenoglio, «Una questione privata», ultimo film dei fratelli Taviani.

Silvana Silvestri

Langhe 1943: follia d’amore e guerra partigiana

Immmerso in un universo di nebbia per rendere più concreta la lontanaza è l’inizio di Una questione privata dei fratelli Taviani. Si tratta, visto oggi, della lontananza degli anni, il 1943 della guerra partigiana, del ricordo dei tanti protagonisti di quell’epoca ormai scomparsi o colpiti nel pieno della gioventù, dell’occultamento sempre più evidente della Liberazione come momento fondativo del paese.

I fratelli Taviani si ispirano al romanzo di Beppe Fenoglio pubblicato postumo nel ’63 quando già l’argomento sembrava esaurito (il titolo lo mise Calvino colto da una frase) come a ribadire la loro militanza e lo fanno con uno stile che incanta, come a sfogliare quelle pagine già quasi pronte a fornire una sceneggiatura, ripescare le parole a volte un po’ attempate che diventano movimenti di macchina. E con Roberto Perpignani che inventa la strategia di un montaggio che non ti lascia abbandonare i sentieri delle valli, coautore strepitoso per affinità elettiva.



Perlustriamo cautamente insieme ai giovani partigiani, per avere il tempo di allontanarci dal presente, le Langhe e all’improvviso ecco la villa dei tempi felici, delle vacanze, del primo amore. Un tempo ancora più lontano, dove Fulvia, la bella signorina degli anni ’40 e i suoi due migliori amici si esercitano a vivere. Conteranno di più le belle parole di Milton, il bruno tenebroso, oppure l’azione spericolata di Giorgio il bello? Ora i due amici sono diventati partigiani in due compagnie diverse, nella villa è rimasta la custode che accompagna Milton per le stanze deserte e allude, riaccompagnandolo alla porta, a qualcosa di più intimo che avrebbe legato Giorgio a Fulvia. Quei due restavano insieme per ore e parlavano poco, dice la custode.

La pazzia investe Milton, nobilitata dai riferimenti letterari che si perdono nella notte dei tempi, dai classici greci e latini ad Ariosto a Shakespeare attualizzata ai tempi contemporanei, ma identica nei secoli. Il giovane studente guerriero è invaso da una furia cieca, incurante di percorsi più sicuri, di azioni da compiere e prudenza. Un pensiero fisso reso ancora più stravagante dal fatto che i problemi personali nulla contano nel corso della guerra. Una furia che trova il suo scopo da ragggiungere alla notizia che Giorgio è stato fatto prigioniero e occorre trovare un prigioniero fascista da scambiare con l’amico rivale. Deve sapere cosa è effettivamente successo tra Giorgio e Fulvia.

Le scene si susseguono come pagine sfogliate, con il tempo giusto della lettura e dei particolari che restano impressi nella memoria (…sembrava filtrare attraverso la porta la musica di Over the Raibow. Quel disco era stato il suo primo regalo a Fulvia…), con scene struggenti che portano il marchio dei registi, come quando in una cascina, oggetto di una strage fascista, la bambina fucilata sul corpo della madre improvvisamente si alza e va a bere nella cucina un bicchiere d’acqua preso dal secchio, come dopo aver giocato tutto il pomeriggio sull’aia. E poi torna a morire accanto alla madre. O il muto incontro tra Milton e i genitori sotto i portici del paese, stretti in un abbraccio silenzioso per non farsi scoprire dalla ronda. E soldati come fantasmi di Kurosawa.


Non è facile tornare ai classici di formazione di un paese, ora che si prova a occultare il 25 aprile. Chiara e netta la posizione dei registi. I Taviani danno ancora una volta un’indicazione politica. Paolo dirige, mentre Vittorio è preso come prigioniero dalla malattia. Come Milton e Giorgio, l’azione deve essere portata a termine. Paolo dirige e ogni tanto, diceva, sul set si girava a chiedere muta conferma ma Vittorio non c’era.

La storia dei due amici e del loro forte rapporto d’intesa, diventa così ancora più lampante. Uno fiammeggiante, l’altro riflessivo. Come Milton interpretato da Luca Marinelli, occhi e movenze da rapace, instancabile in azione verso una duplice meta (liberare l’amico per conoscere infine la verità) e l’elegante Giorgio (Lorenzo Richelmy) che vediamo sempre agire prima di pensare e non rinunciare alla cura di sé anche nel fango (è lui che balla con la ragazza, con lei si arrampica sugli alberi, mentre Milton sta a guardare). Fulvia è interpretata da Valenina Bellè che era già in Meraviglioso Boccaccio dei Taviani (2014) ed è stata Lucrezia nella serie I Medici.


Il Manifesto – 28 ottobre 2017

Don Giovanni non è più quello di una volta

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Da Tirso de Molina a Mozart, da Molière a Marinetti in un’antologia il mistero del Grande Seduttore. Così diverso dai molestatori seriali di questi giorni.


Elena Loewenthal

Don Giovanni non è più quello di una volta



Il momento è più delicato che mai, per sollevare l’argomento. Ma proprio per questo non si può negare che capiti a proposito. Di questi giorni fare il nome di Don Giovanni evoca all’istante orchi panciuti e potenti dello star system affetti da irrefrenabili esuberi ormonali. Ma tra l’eroe mozartiano (e non solo!), conquistatore di femmine per antonomasia, e la pletora di molestatori seriali di cui ultimamente si sono riempite le pagine dei giornali corre una enorme distanza. Se non altro perché uno è un eroe, e l’altro no.

In questo gioco di affinità (pochissime) e contrasti (molti) è decisamente puntuale la ricca antologia Sulle orme di Don Giovanni che Guido Davico Bonino ha curato per Nino Aragno Editore: quasi 500 pagine per un viaggio vario e appassionante nella figura del maschio più impenitente di tutti, da Tirso de Molina (1579-1648) a Odon von Horvath (1901-1936), attraverso libretti d’opera, commedie, elegie, racconti, ritratti, echi.

«Com’è possibile definire Don Giovanni, un personaggio di pura invenzione, che nonostante ciò ha affascinato drammaturghi, librettisti, narratori dal Seicento al Duemila, per circa quattro secoli?», si domanda la Premessa dello studioso. E davvero gli ingredienti di questo enigma tutto letterario sono tanti, almeno quante le diverse risposte che affiorano dalle pagine. Chi, cos’è Don Giovanni? Un «ribelle», «profano dell’esistenza… come non sopporta di sentirsi vincolato da un’affettività reciproca ed esclusiva, così non tollera di doversi mostrare rispettoso verso un’Entità superiore», e diventa scandaloso.


Personaggio complesso

Ma forse lo scandalo vero di Don Giovanni è la sua complessità, così come l’hanno dipinta in tantissimi - dall’indimenticabile libretto di Lorenzo Da Ponte per Mozart a Baudelaire, da Goldoni a Balzac, da Dumas a Puskin a Flaubert, da Molière a Byron, per arrivare a Rilke, Pirandello e Marinetti con il suo (attuale? Eccome!) prontuario del 1917 Come si seducono le donne: «Eccellente terreno di conversazione per un uomo ardito e intuitivo è l’elogio sfacciato, senza mezzi termini, del corpo della donna e della sua eleganza». Una complessità così diversa da quella dello sciupafemmine di oggi, che sia un calciatore o un produttore cinematografico. Una complessità che evoca simpatia e orrore, che spiazza perché non la capisci mai fino in fondo. E che in fondo, ma che la cosa resti tra noi donne, incuriosisce.

Il vasto repertorio di testi, che appartengono a mondi, lingue ed epoche diverse, tiene fede soprattutto a queste mirabile varietà, cioè alla complessità di Don Giovanni. Anche alle sue contraddizioni, di cui forse la più stridente sta proprio nel confronto fra lo spensierato «Madamina, il catalogo è questo» e lo spettro del Convitato di Pietra. Resta, su tutto, il mistero di che cosa abbia in testa e nel cuore quest’uomo, resta il dubbio che sia più quello che tace di quello che dice, più quello che vorrebbe fare di quello che fa. Ma alla fin fine dietro il dubbio se ne insinua un altro, che è quasi una certezza: forse il vero mistero non è lui, Don Giovanni, ma quello che egli ha inseguito invano per tutta la vita, di opera in sonetto, di racconto in elegia, senza mai capire. Come dice la Bibbia: «Tre cose io trovo mirabili, anzi quattro, che mai conoscerò: la via dell’aquila addentro il cielo, la via del serpente sopra la rupe, la via della nave nel cuore del mare, la via di un uomo in corpo di donna».

Perché il vero Don Giovanni, e cioè quello della letteratura e non la sua squallida riproduzione nella realtà di Hollywood, è in bilico tra la lussuria e la tragedia. Seduce le donne ma subisce la vendetta del destino - o punizione del cielo a che dir si voglia. È gaudente ma dannato. Proprio come quel Casanova che compare anch’egli in questa antologia, da sé stesso immortalato mentre si svergina sedicenne sverginando dolcemente eppure fermamente due sedicenni.


Creatura inafferrabile

Perché nella storia di Don Giovanni c’è il Grande Seduttore ma ci sono anche tanti altri protagonisti: le donne sedotte, quelle gelose, quelle (poche) che non cedono. I servitori e le spalle. Il Convitato di Pietra che sigla la condanna. C’è la fame insaziabile ma anche lo scherno, la sfida alle convenzioni ma anche ai sentimenti propri e altrui: «D’irato amante i giuramenti audaci Giove non ode, e van dispersi al vento. Nei miei vezzi confido. Armi sono queste rade volte infelici». C’è che Don Giovanni ti chiama inevitabilmente in gioco: se sei uomo perché prendi le misure della distanza che ti separa da lui. Se sei donna perché ti domandi quali armi avresti sfoderato per resistergli. Se mai…

Perché il vero Don Giovanni, quello cioè della letteratura, sa fin dall’inizio di andare incontro alla disfatta, «salendo a lenti passi lo scalone del palazzo» nel libretto mozartiano. È una creatura inafferrabile che non cogli mai del tutto, come ben evidenzia la varietà di tratti nell’antologia. Ad esempio: cosa pensa veramente delle donne? Gli piacciono davvero o sono soltanto lo strumento per dire di sì alla propria autostima, al proprio orgoglio, agli impulsi?


«Il piacere massimo che infatti provo è d’ingannare una donna e lasciarla senza onore», gli fa dire Tirso de Molina. «Signor nacqui di carne, non di ferro o di sasso. Amo donna, egli è vero; e perché cavagliero lorica al petto porta, e stocco al fianco? Ciò di fare ei sol brama, per la Fe’, per la Patria, e per la Dama», fa eco il Don Giovanni di Giovan Battista Andreini (1576-1654). E ancora: gli piacciono proprio tutte, come a Liolà di Pirandello, o soltanto quelle belle? Quando si avvicina a una donna, Don Giovanni la giudica anche? In sostanza, è un amante o soltanto un seduttore? Non lo sapremo mai, a meno che non ci capiti o ci sia capitato di trovarsi fra le sue braccia.


La Stampa – 6 novembre 2017

Incanti e ninne nanne per accompagnare i bambini verso i loro sogni

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Magazzini del Sale, via Nazario Sauro 16, Cervia (Ra)

La mostra è un viaggio durante il quale i visitatori scopriranno oggetti-ambiente magici e suggestivi.

Sabato 11 novembre, ore 21

Notte al Museo 
(per bambini dai 4 ai 10 anni accompagnati dai genitori)

Visita speciale alla mostra: giochiamo al buio?

A seguire, Anninnias, piccolo concerto notturno con Salvatore Panu, fisarmonica e voce
Da sempre e ovunque c'è una voce materna, o paterna, ad accompagnare i bambini verso i loro sogni.



Salvatore Panu, musicista e trovatore, studioso appassionato di culture popolari di tradizione orale, coinvolgerà il pubblico delle famiglie raccontando e cantando alcune fra le più belle ninne nanne italiane. Dopo il concerto si gusteranno profumate tisane e biscottini. Poi tutti a nanna! Portare torcetta, stuoia da campeggio e sacco a pelo. Anche al mattino gustose sorprese!

Prenotazione al 334.2804710


Quando Hitler esaltava Lutero

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Una mostra a Berlino si interroga in occasione del quinto centenario della Riforma sui rapporti ambigui fra chiesa luterana e nazismo.

Tonia Mastrobuoni

Quando Hitler esaltava il grande eroe protestante



Nel 1922 Adolf Hitler scrive che Gesù «è il nostro più grande Führer ariano». È forse la più gigantesca fake news della storia. Ma tradisce già un’ambizione che i nazisti trasformeranno un decennio dopo in religione di Stato. Cancellare ogni traccia di ebraismo dalla Bibbia, dichiarare “dannoso” il Vecchio Testamento, negare persino che Gesù fosse ebreo. Una mistificazione mostruosa che portò i nazisti a fondare nel 1939 ad Eisenach un istituto per de-giudeizzare la tradizione cristiana. E che motivarono anche attraverso il violento antisemitismo del tardo Martin Lutero.

Lo racconta una bella mostra su Lutero e il nazismo, allestita nel Museo della “Topographie des Terrors”, nel vecchio quartier generale della Gestapo a Berlino.


Il padre della Riforma protestante divenne sin dagli esordi una figura fondamentale della propaganda nazista. E non solo per il suo antisemitismo. Sin dall’unità tedesca e dalla fondazione del Reich nel 1871, l’uomo che si era ribellato al Papa e che, secondo Thomas Mann, aveva liberato lo spirito dei tedeschi traducendo la Bibbia nella loro lingua, era considerato un padre della patria.

Nella perenne tendenza al pervertimento di tutto, i nazisti lo trasformano in un secondo Führer. Il teologo Hans Preuss, nel suo libro Luther, Hitler, scrive che «entrambi sono chiamati a salvare il loro popolo. Da entrambi si leva il grido per l’Uomo Nuovo della salvezza». E lo storico Heinrich Bornkamm distorce il pensiero del riformatore sino a rintracciare nei suoi scritti un antisemitismo non diretto «contro l’ebreo in sé» ma motivato dal concetto di razza. Hans Delbrück muore nel 1929 e non assiste alla deriva della sua Storia universale, la cui ultima parte viene affidata a un fervente nazista come Konrad Molinski. Sulla copertina, due figure- simbolo dell’epoca moderna e di quella contemporanea, secondo la Germania di allora: Lutero e Hitler.



In quegli anni si consuma un divorzio drammatico tra i teologi e gli storici protestanti tedeschi e quelli del resto del mondo e già nel 1933, in occasione dei festeggiamenti per il quattrocentocinquantesimo anniversario della nascita del padre della Riforma, il governatore della Turingia può dire, euforico, che «Lutero è nostro». Certo, nella follia collettiva, nascono anche sacche di resistenza, come la Bekennende Kirche, quella di Karl Barth o Dietrich Bonhoeffer. Il quale commenterà amaro: «Vedo la parola di Lutero ovunque, trasformata da verità in inganno».

Nel 1939 un rapporto della Gestapo rileva una differenza sostanziale tra protestanti e cattolici. Tra i primi registra «preghiere sincere per il Fuehrer e il popolo tedesco, che scaturiscono da una profonda comprensione degli avvenimenti odierni», cioè quelli che stanno precipitando la Germania e il mondo intero nel baratro della guerra. Tra i cattolici, la Gestapo nota invece con fastidio che si parla di «tempi difficili» con i quali Dio sta mettendo alla prova i tedeschi perché ritrovino la «retta via alla vera Chiesa e al vero Dio». Che non è il Führer nazista, evidentemente.


La Repubblica – 31 ottobre 2017

San Martino

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    Maestro di Saliceto: San Martino ( metà del XV secolo)

San Martino rappresenta una delle più importanti feste autunnali. Guido Araldo ne racconta la storia con un particolare riguardo ad usanze e credenze diffuse un tempo nel mondo di Langa.

Guido Araldo

San Martino

Una delle più importanti feste autunnali, non soltanto sulle Langhe e in Piemonte, ma in tutta l’Europa, era quella di San Martino: occasione di grandi fiere che coincidevano con la fine dei raccolti. Una festa che, peraltro, coincide con l’ultimo sprazzo dell’estate, solito a manifestarsi nei giorni attorno all’11 novembre, noto come “l’estate di San Martino”.

Il nome del santo deriverebbe da Marte, il dio della guerra, attribuitogli da suo padre che era un ufficiale romano: lui stesso militò nella cavalleria imperiale durante l’adolescenza e la giovinezza. Un nome, per la verità, sicuramente non casuale: Marte apre la bella stagione, con l’equinozio di primavera, e Martino la chiude. Si può ben affermare che tra Marte e Martino Persefone tornava sulla terra.

Il gesto più famoso di san Martino, ripetuto in migliaia di affreschi che hanno accompagnato la storia della cristianità occidentale, fu il taglio del mantello da cavaliere: “la cappella”, per offrirne una parte a un povero questuante seminudo e infreddolito. Un simbolo di pietas e caritas di grande effetto e suggestione: connubio tra morale antica e morale cristiana.

La leggenda vuole che la notte successiva al taglio del mantello Martino avesse sognato Gesù che gli restituiva la parte tagliata e sussurrava: “Ecco Martino! Il soldato romano che non è battezzato e che mi ha vestito”. Subito dopo, svegliatosi di soprassalto, Martino aveva trovato il mantello integro.

Da allora, similmente al mantello del Profeta nell’Islam, quel mantello fu considerato una reliquia miracolosa, tra le principali della cristianità: affidata dapprima ai re Merovingi e poi agli imperatori Carolingi, quindi ai re di Francia. Lo stesso termine latino “cappella”: “il mantello corto militare” tipico della cavalleria imperiale, passò ai guardiani che avevano l’incarico di custodirlo e che per questo erano chiamati cappellani. Al tempo stesso la parola cappella trasmigrò all’oratorio, dove questi guardiani erano soliti pregare, per poi estendersi a tutte le piccole chiese della cristianità. Purtroppo la preziosa chiesa (la prima cappella a fregiarsi di questo nome) che conteneva il mitico mantello di san Martino, a Tours, fu distrutta durante la rivoluzione francese.

San Martino divenne così famoso che l’11 novembre, giorno a lui consacrato, era considerato una festa canonica, con la stagione dei raccolti giunta al termine, durate la quale non si doveva lavorare. Una festa che chiudeva l’annata agricola: occasione d’incontri e festeggiamenti che duravano tutta la notte, fino all’alba.

Per la verità, san Martino non fu soltanto vescovo, ma anche monaco: a lui viene fatta risalire la prima esperienza del monachesimo nelle Gallie; un monachesimo sui generis, avulso dalla liturgia (la regola benedettina doveva ancora venire), impegnato principalmente nella lotta al paganesimo che manteneva profonde radici nell’Europa Occidentale. Proprio a san Martino è attribuita l’evangelizzazione delle campagne francesi e della Val Padana. I suoi monaci, più che le preghiere, usavano nodosi bastoni per convertire i pagani. Furono molti i templi che andarono distrutti: più, forse, delle chiese che vennero edificate.

Sicuramente la fama di san Martino non sarebbe stata tale, se il santo non fosse stato considerato un grande taumaturgo: un eccellente guaritore. Non a caso il monastero dove egli visse lungamente, noto come maius monasterium (il monastero grande), ora Marmoutier, divenne ben presto meta di pellegrinaggi da tutta l’Europa Centrale.

La grande diffusione del culto di san Martino derivò dal fatto che il santo andò configurandosi come il “protettore” dei Franchi e dell’impero di Carlo Magno; come san Michele Arcangelo lo fu per Bizantini, Longobardi, Vichinghi e Normanni.

Una leggenda postuma vuole che, restio ad abbandonare il suo ruolo di monaco per diventare vescovo, Martino si sia nascosto in una stalla piena di oche e che sarebbe stato tradito dal loro starnazzare. Da allora, l’oca al forno divenne il piatto tradizionale nel giorno di San Martino.

A proposito della cappa di San Martino… Siamo sicuri che sia andata proprio così? “Per un punto Martin perse la cappa!” E se quella benedetta cappa se la fosse giocata ai dadi, perdendone la metà? Poi, tornato in caserma, per non sfigurare s’inventò l’esaltante storiella del poverello incontrato per strada… Le storie dei santi sono molto imprevedibili. Considerata l’ammirazione che ne derivò, invece del biasimo, ci provò gusto a rivestire il ruolo del caritatevole, per omnia sæcula sæculorum.


Un tempo erano famose le grandi processioni serali che si snodavano la sera dell’11 settembre: data della sepoltura di San Martino e non della sua morte. Processioni diffuse in tutta l’Europa Occidentale con lanterne, lumini e candele, per rievocare la grande fiaccolata lungo la Loira che aveva accompagnato il suo corteo funebre. Per la verità, queste grandi fiaccolate avevano un precedente: in epoca precristiana si tenevano alle idi di novembre (il 13 novembre), ed erano caratteristiche dei popoli celtici e germanici, in concomitanza con l’ultimo “colpo di coda dell’estate”.

Queste fiaccolate pagane avevano un recondito scopo: ravvivare ancora una volta la bella stagione prossima a sopirsi. Una tradizione, quella della fiaccolata, che si mantenne inalterata nei secoli: dalle Fiandre al Tirolo; così radicata che fu rispettata anche dai protestanti, notoriamente allergici ai santi. 

Un tempo, durante le fiere di San Martino era tradizione rinnovare i contratti di mezzadria e di servitù, saldare i debiti e reclutare nuovi servitori. “Fè san martin” nella tradizione popolare piemontese significa traslocare: infatti, alla festa di San Martino i mezzadri cambiavano cascinale, in base ai contratti di mezzadria. Ancora cent’anni fa nel giorno di san Martino non era raro trovare i carri di masserizie lungo le strade.

A San Martino tradizionalmente si conclude il ciclo della vendemmia e già si possono assaggiare i primi boccali di vino novello.

Motto dissacrante, ma significativo di una certa mentalità langarola: san Marten u-i’ha dä méza sò mantlena ä ‘n puj, e adess a bazurè e-son in dui = san Martino ha donato metà del suo mantello a un pidocchioso, e adesso a tremare per il freddo sono in due.

À san Marten tüt ër musct u-diventa ven = a san Martino tutto il mosto diventa vino. Soltanto dopo l’11 novembre si potrebbe bere il vino novello, che in Francia ha una grande tradizione con il Beaujolais nouveau.

E-son parti a san Marten, lasciandi pan e ven; e-son turnâ a l’Annunziâ, per truvè ra fnera ruinâ = sono partita a san Martino, lasciando pane e vino; sono tornata all’Annunziata per trovare il fienile rovinato. Lamentazione di una rondine che non trova più il proprio nido: lamentazione che ben si addice all’incuria dell’uomo verso gli animali, anche i più innocui e poetici. Una realtà estremamente drammatica nell’età contemporanea.

Come non citare infine i prüz d’ San Marten noti anche come i Martin sec? Le pere di San Martino piccole, dure come pietre, tra il rossiccio e il marrone, che sono una prelibatezza se cotte nel vino con cannella, chiodi di garofano e cosparse di zucchero dopo la cottura.


(Dal volume: Mesi Miti Mysteria)


Francesco Guccini nell'Osteria delle Dame

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Riapre dopo trent’anni di «riposo» l’Osteria delle Dame, storico locale della Bologna degli anni Settanta. E la tessera n°1 va a Francesco Guccini che proprio lì iniziò sua carriera.

Fabio Francione

Guccini riavvolge i nastri

Riapre a Bologna l’Osteria delle Dame e un velo di malinconia si stende sul racconto di Guccini. Ci sono voluti trent’anni di chiusura «per riposo», anzi «chiuso per turno da trent’anni» come ha detto qualcuno saputa la notizia, per far riannodare trame e storie sfilacciate dal tempo di uno dei locali della Bologna degli anni Sessanta e Settanta. Di quella città che non andava mai a letto e pullulava di vita a qualsiasi ora del giorno e della notte.

In quei pomeriggi, sere e notti che sembravano non finire mai, interrotte solo dagli schiarimenti mattutini e trascorse giocando e sbattendo carte sui tavoli con i vecchi e solitari e invero tristissimi habitué delle osterie, suonando e cantando, amoreggiando con bellissime ragazze («a vent’anni tutti i ragazzi e le ragazze sono bellissimi») ci si faceva servire da improbabili osti un ultimo bicchiere di vino e una stozza di pane e mortadella o se andava bene e le cucine erano in funzione un piatto di pasta. Quei locali sempre aperti – «chiudevano solo un’ora nel pomeriggio per far le pulizie» – erano alla Stazione e le Dame.

Dunque una Bologna rischiarata sempre “a giorno” che aveva tra i suoi abitanti pure un allora giovane, non giovanissimo – «avevo trent’anni o giù di lì, gli altri erano ventenni, sopratutto le ragazze» – Francesco Guccini, già autore di canzoni come Auschwitz e Dio è morto e al quale un tecnico di studio profetizzò, proprio dopo aver registrato quei brani, un futuro non proprio roseo, addirittura consigliandogli con rara sagacia e ironia di intraprendere un altro mestiere, «che di strada non ne avrebbe fatta molta».

«Era una bella Bologna quella là. Mi dicono adesso che non vi abito più da anni sia diventata a girar di notte pericolosa, soprattutto dalle parti proprio della Stazione. Uno dei posti più frequentati di tutta la città».


Ma i tempi cambiano, la gioventù pure e Guccini non è tipo da lasciarsi sfuggire il tempo tra le dita e tenendo fermi i fili della narrazione, alle Dame nel ’73 venne registrato Opera buffa e ascoltando un po’ sì un po’ no le domande, continua sviando un fastidioso fischio al microfono: «Quando sono venuto giù per le scale e guardato queste strane volte, l’enorme colonna che regge tutto, mi sono commosso. Mi sono venuti a mente molti ricordi e molti amici ed è stato bello sentire qualcuno dire che una volta tanto non ci si vede per un funerale».

No, l’apertura delle Dame è e sarà una festa, così vuole Andrea Bolognini dell’Associazione Culturale che l’ha riportata alla luce con il compito di essere la Casa della canzone storica e attuale: ritrovo per discutere su libri; ascoltare musica; incontrarsi e perché no alla memoria dei tempi che furono bersi un bicchiere di vino accompagnato a qualche fettina di salame. Tessera n. 1 del nuovo circolo inevitabilmente assegnata a Francesco Guccini.

All’osteria delle Dame s’arriva scendendo due rampe di scale, si trova nel Vicolo che le dà il nome, a poche centinaia di metri da Porta Castiglione, assomiglia ancora ad una “cava” esistenzialista: «Tutti fumavamo e immancabilmente l’impianto di areazione già poco funzionante si fermava e ci si metteva veramente poco a che non ci si vedesse più per quanto fumo c’era. Poco importava perché più il fumo aumentava più il chiacchiericcio e il divertimento aumentavano».

«C’erano i beatlesiani, non sempre cantavo le mie canzoni, gli amici di sempre, ogni tanto arrivava Bonvi. Non era un assiduo frequentatore delle Dame, ma quando veniva chiedeva sempre una canzone da un film e rompeva sempre con quella cosa lì». Personaggi e non d’arredo erano anche gli osti, poco avvezzi alla mescita del vino come a far di conto, più interessati ad essere partecipi delle canzonature o farsi distrarre dalle ragazze.

Quel clima, protrattosi fino alla metà degli anni Ottanta, dunque mentre l’Italia aveva intrapreso la strada edonista e da bere del neoliberismo agli albori e già lontano dai buoni sentimenti del fondatore dell’Osteria, Padre Michele Casati che la voleva come «un oratorio moderno», Guccini lo ripropone recuperando – oggi che ha smesso di far e ascoltare musica, ma una canzone l’ha consegnata ai Nomadi, è contenuta nel loro album uscito da pochi giorni («Mica gli piace però; l’ho titolata Nomadi, non ha un bell’arrangiamento…», chissà se a Beppe Carletti gli saranno fischiate le orecchie) – nastri di tre concerti dei mesi di gennaio del 1982, ’84 e ’85.

La sezione catalogica della Universal li confeziona in sei cd, libretto incluso. Il suggerimento iniziale non accettato dal cantante era quello di celebrare il 40ennale di Amerigo. Mentre, i concerti dell’Ostaria delle Dame (le registrazioni volgono la «e» di osteria nella dialettale «a») sembrano proseguire il lavoro intrapreso due anni fa con Se io avessi previsto tutto questo. Guccini a 77 anni pare aver abbandonato per sempre la musica, tanto meno il suo indirizzo è quello dell’autocelebrazione.


Le sue storie restano precarie, la sua politica è la vita: «Ho subito etichettature che non rispecchiavano il mio lavoro né i contenuti delle mie canzoni. Ho cercato di vedere cosa c’era dietro le parole. Le ho studiate a fondo. Ricordo la frequentazione con l’italianista Ezio Raimondi. Ma non trascurato il suonare. Mi esercitavo continuamente alla chitarra. In quei concerti c’era “Flaco” e come suona bene, molto meglio di me. Quando facevamo i tanghi era incredibile. Io per niente, non gli stavo dietro. Oggi non mi riesce di fare nemmeno un re, ho come perso la sensibilità dei polpastrelli. O forse sono altre le cose che mi interessano».

«Alle Dame ci si incrociava e si discuteva, anche scherzando. Oggi m’accorgo che tutto è cambiato. Anche nel far musica. Ascolto veramente poca musica, la mia mi dà addirittura fastidio. Forse nei rapper intravedo un racconto, ma mi sembrano somiglianti agli improvvisatori toscani, pur con tutti i distinguo di tecnica. La poesia è un’altra cosa».

A Guccini piace scrivere libri e perdersi con lo sguardo ad osservare i chiostri montuosi dell’appennino emiliano. Questa però è un’altra storia che si sta ancora scrivendo.


Il Manifesto – 29 ottobre 2017
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