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Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo

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Un sintetico, ma approfondito saggio sulla condizione femminile nel medioevo. In copertine miniatura medievale raffigurante un marito che picchia la moglie (Zurigo, Zentralbibliothek)

Benedetta Craveri

La fuga senza fine delle donne nell’eterno Medioevo


«Io t’amaçerò se tu non stai cheta e ferma, e lascimi usare techo a qualunque modo io voglio», ripeteva, tra una percossa e l’altra, un maestro muratore lombardo alla moglie Leonarda, colpevole di non lasciarsi sodomizzare. La frase figura negli atti del processo tenutosi nel 1477 a Firenze, città natale della malcapitata che, dopo tre mesi di matrimonio, aveva cercato rifugio nella casa paterna, sporgendo denunzia contro il marito. Il suo coraggio fu premiato, e i giudici le concessero lo scioglimento del matrimonio: sebbene, sul piano giuridico, l’autorità del marito fosse legge, la sodomia era condannata dalla Chiesa ed era inconciliabile con la procreazione, fine primario dei coniugi. Ma se quella di Leonarda può sembrarci una storia a lieto fine, rimane pur sempre un’eccezione, come ci ricorda Maria Serena Mazzi nelle sue Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo (Il Mulino, pagg. 180, euro 14).

Dopo avere contribuito con Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento (Il Saggiatore, 1991) allo sviluppo di quegli studi sulla condizione femminile di cui la Storia delle donne in Occidente (Laterza 1990), diretta da Georges Duby e Michel Perrot, costituisce in Europa una consacrazione, Mazzi riprende in mano una tematica che le è cara proponendocene una sintesi eloquente. Per fare uscire dal loro lungo silenzio le donne vissute, tra il XII e il XVI secolo, in una società dove i soli ad avere diritto alla parola erano gli uomini, la studiosa ha infatti raccolto un campionario di storie esemplari che non lascia dubbi sulla durezza della loro condizione subalterna.


Sono storie di ribellione, di fuga, di sconfitte, di punizioni atroci, suddivise in base all’appartenenza sociale – aristocratica, borghese, popolare – e alla diversità dei ruoli – figlie, mogli, madri, religiose. In parte la studiosa ripercorre storie già note, come quella di Cristina di Markyate, figlia di un ricco mercante inglese del XII secolo, che si sottrae a un matrimonio imposto, consacrandosi a Dio, o della sua contemporanea, la belga Juette, che vedova di un marito ripugnante, pur di non risposarsi si fa murare viva. Oppure quella della francese Dhuoda, secondo Gerda Lerner ( The Creation of Feminist Consciusness, Oxford University Press, 1993) la prima scrittrice in Europa a prendere la penna in mano per parlare di sé.

Andata sposa nell’824 a Bernardino di Settimania, un grande signore della Linguadoca, e relegata nel castello di Uzès mentre il marito era ciambellano alla corte imperiale, Dhuoda si vide portar via i due figli ancora bambini e scrisse per il primogenito, che non avrebbe mai più rivisto, un manuale di comportamento. «Quest’opera quando ti sarà giunta inviata dalla mia mano – ella gli scrive, forte della sua autorità materna – io voglio che tu la stringa con amore».

Altre, invece, sono testimonianze riemerse di recente dal fondo degli archivi e che, riportando alla luce brevi frammenti di esistenze dimenticate, vengono così ad arricchire l’appassionante casistica di Donne in fuga. Unendo all’autorità della studiosa uno stile elegante e scorrevole, Maria Serena Mazzi sa infatti evocare con efficacia un lungo passato di servaggio femminile di cui solo di recente abbiamo recuperato la consapevolezza, ma ci costringe ugualmente a ricordare che per molte donne il Medioevo non accenna a finire e la fuga continua.


la Repubblica - 9 ottobre 2017





14. Karl Kosch. Verso la guerra (1938-1945)

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XIII capitolo del nostro “Il «rinnegato» Korsch. Storia di un'eresia comunista". L'incontro con Paul Mattick e i comunisti dei consigli americani permette a Korsch di affinare la sua analisi del modo di produzione capitalistico e della condizione della classe operaia di una grande metropoli imperialista.

Giorgio Amico

Verso la guerra (1938-1945)

L’incontro con i comunisti dei consigli americani

Nel 1935 mentre è ancora in Europa Korsch prende contatto, tramite i comunisti consiliaristi olandesi del Räte-Korrespondenz, 1 con il piccolo gruppo americano dell’United Workers’ Party (UWP) e con la rivista International Council Correspondence animata da Paul Mattick, un operaio tedesco emigrato già dal 1926 negli Stati Uniti. 2 Cristiano Camporesi nel suo lavoro sul marxismo americano, pur dedicandogli uno spazio adeguato, sottolinea con eccessiva insistenza il carattere ultraminoritario di questo filone. 3 In realtà, pur trattandosi di realtà molto piccole, con un’influenza politica reale limitatissima, esse tuttavia esprimono una lucida analisi della realtà capitalistica e della situazione della classe operaia americana. Nella sua introduzione al reprint della rivista dei «gruppi di comunisti dei consigli» in America, New Essays, Paul Mattick sintetizza efficacemente l’origine e la natura di questo filone americano del comunismo di sinistra:

“Questa serie di pubblicazioni, che apparve durante gli anni 1934-1943 sotto il titolo di «International Council Correspondence», ribattezzata poi «Living Marxism» ed infine «New Essays», esprimeva le linee politiche di un gruppo di operai americani riguardo alla lotta di classe proletaria, alle condizioni della depressione economica e alla guerra mondiale. Denominandosi «Comunisti dei Consigli» il gruppo intendeva prendere le distanze dal Partito socialista tradizionale, dal nuovo Partito comunista e dai vari partiti di opposizione interna a questi movimenti. Esso rigettava le ideologie e le concezioni organizzative dei partiti della II e della III Internazionale, così come quelle della neonata «IV Internazionale». Basandosi sulla teoria marxista, il gruppo aderiva al principio dell’autodeterminazione della classe operaia mediante la costituzione dei consigli operai per la presa del potere politico e la trasformazione del sistema capitalistico di produzione e di distribuzione in senso socialista. Esso poteva però essere considerato soltanto un’organizzazione di propaganda dell’autonomia della classe operaia (…) I tedeschi del gruppo americano provenivano dal movimento consiliare tedesco. Gli operai americani con un retroterra politico provenivano o dagli Industrial Workers of the World (IWW) 4 oppure dall’ala sinistra del Proletarian Party, 5 il più «americano» dei tre gruppi socialisti che avevano rivendicato da Mosca il riconoscimento come Partito comunista «ufficiale»”. 6

Testimoni della deriva riformista del movimento operaio ufficiale e dell’impotenza dei partitini “neobolscevichi” e dei gruppi rivoluzionari, i comunisti dei consigli americani mantengono tuttavia una ferma fiducia nelle potenzialità di lotta della classe operaia.

“(…) L’impotenza dei piccoli gruppi leninisti esistenti – scrive nel 1939 Sam Moss – indica ancora una volta l’obsolescenza dei piccoli gruppi rivoluzionari riguardo ai reali bisogni proletari (…).La classe operaia soltanto può promuovere la lotta rivoluzionaria, anche se oggi si limita a promuovere la lotta di classe non rivoluzionaria, e la ragione per cui i lavoratori ribelli dotati di coscienza di classe si uniscono in gruppi al di fuori delle sfere della lotta di classe reale è soltanto che non vi è ancora alcun movimento rivoluzionario fra loro”. 7

Si tratta di un modo di vedere le cose con cui Korsch si sente in totale sintonia come si evince dall’articolo che con cui egli inizia la collaborazione con Mattick e in cui ribadisce la sua ferma opposizione ad ogni pretesa di egemonia sulle lotte operaie da parte di presunte avanguardie politiche o sindacali:

“Una autentica combinazione della lotta economica e di quella politica e di ogni altra forma di attività della classe lavoratrice in un tutto unico della lotta direttamente rivoluzionaria è l’obiettivo necessario di ogni rivoluzionario proletario, sia che concepisca questa alleanza alla maniera «comunista-leninista» - come unificazione di tutte le forme isolate di lotta nella lotta politica rivoluzionaria – o alla maniera «sindacalista» - come una estensione ed intensificazione dell’azione direttamente economica nel tutto di una lotta direttamente rivoluzionaria e sociale. Su queso punto non c’è grande differenza tra le due tendenze che oggi sono in competizione e conflitto fra loro. (…) La coincidenza delle due concezioni sul rapporto della lotta economica con quella politica emerge tuttavia in pratica solo nel momento o nel periodo in cui, nell’azione rivoluzionaria diretta dei consigli operai, politica ed economia di fatto si fondono. Fino a quel momento la pretesa all’egemonia avanzata da entrambe le tendenze, da quella «politica» dei marxisti-leninisti non meno che da quella «economica» dei sindacalisti, contiene una unilateralità che restringe ed indebolisce la lotta di classe pratica del proletariato. L’identità che è presente all’inizio della lotta di classe politica ed economica degli operai può essere completamente realizzata solo nel pieno sviluppo della lotta direttamente rivoluzionaria. Non può essere prodotta in anticipo mediante una «subordinazione» meramente formale delle «organizzazioni di massa sindacali» al punto di vista di un partito rivoluzionario come neppure mediante un rifiuto non meno formale di tutta la «politica», nell’altro campo”, 8

Sottoponendo ad una minuziosa critica le posizioni dell’American Workers Party, un’ organizzazione politica a sinistra del PCUSA che si proclama il “partito” della classe operaia, 9 Korsch esprime tutto il suo disincanto nei confronti di ogni tentativo autoproclamatorio che sotto il massimalismo delle enunciazioni teoriche non può che esprimere un orizzonte limitato e parziale:

“(…) Si rivela qui, [nel] tirarsi indietro pratico dell’AWP di fronte alle enormi difficoltà dei suoi compiti rivoluzionari proclamati teoricamente, l’inevitabile tendenza di sviluppo di un partito politico che, invece di inserirsi come parte precisa, con importanti compiti parziali, nel movimento della classe operaia esistente, si fa avanti con una pretesa «teorica» di totalità, nel nome di una teoria «rivoluzionaria» che, nei rapporti dati, inevitabilmente si trasforma in una glorificazione ideologica di una pratica molto più limitata”. 10

Partito dal riformismo fabiano, passato attraverso gli anni di piombo della militanza nel partito comunista, bruciata l’esperienza del partitino rivoluzionario, Korsch non crede più nel ruolo salvifico del partito, di qualunque partito.Il che non significa un rifiuto tout court dell’organizzazione politica: egli non diventerà mai, nonostante le forti simpatie che nutre per i libertari spagnoli, un anarchico. Piuttosto si traduce in una ferma consapevolezza che il partito politico, ogni partito politico, non può che svolgere un ruolo parziale e che solo la classe operaia nella sua concreta prassi rivoluzionaria è in grado di esaurire quel bisogno di «totalità» che i marxisti chiamano comunismo.

La collaborazione fra Korsch e il gruppo dei comunisti consiliari americani, cementata dalla profonda amicizia personale con Mattick, si traduce in una lunga serie di articoli, saggi, interventi su temi di politica internazionale (la Spagna, la guerra, la geopolitica), di politica economica (la crisi) e di teoria (la crisi del marxismo). Presente praticamente in ogni numero delle riviste che via via esprimono le posizioni del gruppo (International Council Correspondence, Living Marxism, New Essays), Korsch per numero e valore dei contributi rappresenta dopo Mattick la voce più importante di questo filone marxista che solo a partire dagli anni Settanta ha ottenuto un adeguato riconoscimento dalla critica storica. Come nelle precedenti esperienze politiche anche questa volta la sua partecipazione è totale: egli non si limita a scrivere per la rivista del gruppo o a dibattere con Mattick sui temi in discussione, ma si fa carico della diffusione militante del giornale e della ricerca di nuovi abbonati. È quanto emerge da una lettera inviata nel giugno 1938 a Mattick da Seattle, dove in quel momento risiede:

“Caro Paul,
Scusami per il mio lungo silenzio. Ho ricevuto 8 o 10 giorni fa il pacco con le copie del n.3 di L(iving) M(arxism). (…) È un peccato che abbia ricevuto il pacco solo dopo la mia conferenza nel Forum della «Peoples Church»; la sala era piena zeppa e l’impressione forte; avrei potuto facilmente vendere diversi fascicoli e acquisire nuovi abbonati. Adesso nella cerchia ristretta dei conoscenti è più difficile; alcuni (in grado di pagare) hanno paura di incontrare difficoltà per la tanto attesa naturalizzazione, altri (desiderosi di abbonarsi) hanno poco denaro. Penso, tuttavia che alcuni si abboneranno, soprattutto se avrò ancora occasione di parlare. Mandami in ogni caso qualche scheda di abbonamento; le poche che avevo con me sono già usate”. 11



Crisi, guerra, rivoluzione

Già dalla lettera sopra citata emergono le non facili condizioni in cui si colloca la vita di Korsch negli Stati Uniti. Sempre più isolato, tagliato fuori dalla grande politica, il suo unico rapporto con la realtà e le lotte degli operai americani avviene ormai solamente tramite le riviste edite da Paul Mattick. Anche nel privato le cose non vanno bene: egli non riesce ad ottenere la cittadinanza americana, né ad inserirsi pienamente nel mondo accademico. Con sempre maggiore frequenza nelle sue lettere traspare un senso di fallimento, di inutilità, di impotenza conseguenza anche delle sue precarie condizioni economiche che lo distolgono da quel lavoro sistematico di ricerca e di studio che egli ha sempre considerato l’asse portante del suo impegno politico.

“Quanto a me – scrive ad esempio in una lettera a Partos dell’estate del 1939 – purtroppo neanche in questo paese sono riuscito ad approdare a qualcosa. Questa volta ciò è da ascrivere, molto più del solito, alle mie –a te ben note- «qualità» di inerzia e di inettitudine al comportamento realistico. Certo potrei ancora trovare , nonostante l’età, un job 12 accademico; i miei libri sul marxismo, la mia fama tra gli emigrati tedeschi e last non least, la assai attiva resistenza del C.P. 13 sono handicaps molto forti per tutto, perfino per la collaborazione alle riviste, per la pubblicazione di libri e per conferenze e corsi, gratuiti o meno. (…) La mia impotenza mi fa star male, soprattutto per la perdita di ogni effettiva possibilità di aiutare gli amici che essa comporta. (…) Non ho ancora del tutto abbandonato il mio programma di lavorare su rivoluzione e controrivoluzione (…). [Unica consolazione] qui il paesaggio e il clima sono indescrivibilmente belli”. 14

Nonostante questi momenti di depressione, anche negli Stati Uniti Korsch si dedica ad un instancabile lavoro di ricerca e di studio da un lato sulla realtà politica e sociale americana e mondiale, dall’altro sui fondamenti stessi del marxismo che continua quanto già avviato negli anni precedenti. Già nel 1935, un anno prima di stabilirsi definitivamente negli USA, egli aveva inviato un lungo saggio a Mattick in cui venivano delineati gli assi portanti di una più complessiva analisi della fase economica e politica a partire dalla grande crisi del 1929. Uno studio importante perché fornisce le coordinate entro cui collocare le sue analisi successive sulla mutazione della natura dello Stato e dello stesso sistema capitalistico.

Per Korsch la crisi, scoppiata nel 1929, non solo ancora perdura, ma si è addirittura approfondita e inasprita determinando le condizioni per lo scoppio di una nuova, devastante, guerra mondiale. Va pertanto decisamente combattuta ogni ipocrita contrapposizione tra pace e guerra. Il nuovo capitalismo monopolistico si presenta oltre che sotto la forma dell’interventismo statale (fascismo, nazismo, stalinismo, new deal), anche come una produzione di guerra. La guerra dunque come tentativo di uscita dalla crisi, come stato permanente dell’economia capitalistica anche nei periodi di “pace”. Un’analisi lungimirante che precorre di molti anni le tesi dei teorici della “permanent war economy” come Tony Cliff o per altri versi del capitalismo monopolistico come Paul Sweezy. 15

Contro le tesi dei pacifisti e dei “democratici” che vedono la guerra come una alterazione del normale stato delle cose Korsch utilizza a fondo gli strumenti analitici forniti da un marxismo depurato da ogni incrostazione ideologica.:

“(…) lo specifico modo di produzione della guerra moderna – un modo di produzione che non produce prodotti e mezzi di produzione, bensì distruzione e mezzi di distruzione – non rappresenta niente altro che una normale manifestazione della produzione capitalistica. Il modo di produzione capitalistico contiene in sé, da sempre, a tutti i suoi livelli di sviluppo, entrambi i generi di produzione, quello della creazione e quello della distruzione dei prodotti. Assieme essi costituiscono, infatti, le due inseparabili componenti della produzione capitalistica nella sua specifica forma sociale di «produzione di merci», vale a dire produzione non semplicemente di prodotti, ma di prodotti come merci sulla cui intima dialettica è basato questo modo storico di produzione. La specificità della forma attuale di capitalismo è costituita dal fatto che oggi tendono sempre più a scomparire perfino certe residue distinzioni formali tra le due forme fenomeniche di produzione capitalistica (la cosiddetta produzione pacifica «normale» e l’altra – in realtà non meno normale – per la guerra e di guerra), in un processo di reciproca assimilazione che rende così manifesta l’intima identità di questi due, egualmente legittimi, settori della produzione capitalistica. In un’epoca in cui anche una parte della «normale» produzione pacifica consiste nella distruzione di massa, cosciente e programmata, di prodotti, di mezzi di produzione, di forze produttive e di produttori, in cui perfino in tempo di pace il peso relativo della cosiddetta «industria di guerra» supera di gran lunga e in misura rapidamente crescente quello di ogni altro settore produttivo, ed in cui ogni singolo settore di produzione viene considerato perfino in pace - e all’approssimarsi della guerra, quindi, anche praticamente gestito – come un mero dipartimento subalterno di un’unica industria bllica unitaria: in tali condizioni, appare perfettamente logico affermare che nemmeno nel pensiero va più distinta dagli altri settori della produzione capitalistica di merci una guerra divenuta ormai, nei fini e nel modo di esistenza, indistinguibile dall’industria di guerra e di pace”. 16

Ne consegue l’obsolescenza della vecchia distinzione tra economia e politica, tra Capitale e Stato che tendono ormai a divenire un'unica cosa. Per Korsch - ed è il senso che attribuisce al termine “totalitarismo”e al contempo il filo sottile che lega fenomeni fra loro apparentemente diversissimi come il fascismo, lo stalinismo e lo statalismo rooseveltiano - lo Stato si è ormai trasformato

“da mero capitalista ‘ideale’ nell’attuale «Capitalista Complessivo» e la fusione del cieco soggetto «Capitale» con lo «Stato» - mallevadore come organo speciale in un «soggetto-complessivo Capitale unitario». La lotta contro lo Stato capitalista è divenuta, in effetti, molto più direttamente una componente della lotta di classe proletaria contro il dominio capitalistico di quanto non lo fosse in passato, quando il movimento operaio socialista, prigioniero della falsa alternativa tra riforma sociale e rivoluzione (soltanto) politica, aveva completamente perso di vista la concreta totalità della lotta social-rivoluzionaria della classe operaia”. 17

Totalità che riappare ora in tutta la sua esaltante concretezza nella Spagna rivoluzionaria. Tra il 1938 e il 1939 fa uscire su «Living Marxism» due lunghi articoli sulla rivoluzione spagnola in cui prende le difese degli anarchici accusati di aver sottovalutato il problema cruciale della presa del potere politico. Contro i critici prevenuti che, in nome di una presunta purezza bolscevica, criticano i tentativi di collettivizzazione messi in atto dagli anarchici spagnoli e catalani, egli esalta la grandezza di questo movimento, certo non privo di contraddizioni, ma che può a pieno titolo collocarsi a fianco della Comune di Parigi, dell’occupazione delle fabbriche nell’Italia del 1920, dalle lotte degli operai tedeschi e ungheresi negli anni 1918-1923. Quanto all’esperienza russa, presentata dai “leninisti” come quanto di più avanzato prodotto dal proletariato, vero e proprio metro di paragone per le lotte rivoluzionarie future, Korsch ha buon gioco nell’esaltarne la portata grandiosa a ricordare come proprio i bolscevichi ne divenissero già dai primi anni Venti gli affossatori:

“Analogamente i risultati temporanei più vasti e certo molto più famosi ottenuti dagli operai rivoluzionari russi nella fase di una reale sperimentazione comunista nel 1918-1920 non ebbero alcuna importanza pratica per il successivo sviluppo della cosiddetta «costruzione socialista» nella Russia sovietica. Essi furono ben presto denunciati dai bolscevichi stessi come una mera «forma negativa» di comunismo, imposta ad una riluttante leadership bolscevica dalle necessità della guerra e della guerra civile. Così il grande esperimento storico del cosiddetto «comunismo di guerra», che di fatto rappresentò un passo in avanti verso una società comunista molto più positivo delle misure di qualsiasi NEP 18 o neo-NEP o altre varianti delle politiche non più socialiste o proletarie, che furono più tardi inaugurate dalle varie combinazioni della burocrazia post-leninista e stalinista, divenne un episodio negletto e dimenticato proprio in quel paese che anche oggi pretende di marciare alla testa del proletariato internazional in virtù della cosiddetta «costruzione del socialismo in un solo paese»”. 19

Per Korsch l’importanza della rivoluzione spagnola al di là delle concrete possibilità di vittoria – che al momento dell’uscita del secondo articolo sono già evidenti i primi segni dell’imminente disfatta repubblicana – consiste proprio nel carattere di lezione per il futuro. In un mondo caratterizzato dal decadimento e la corruzione delle “vecchie” organizzazioni operaie, socialiste e comuniste, politiche e sindacali, la Spagna ha offerto un esempio vivo ed esaltante di un nuovo tipo di organizzazione politico-sindacale delle lotte operaie capace di superare le fratture del passato e far rivivere dal basso quella visione della rivoluzione come totalità che sostanzia l’opera del giovane Marx. In particolare l’esperienza delle collettivizzazioni spagnole ha saputo offrire un modello di ricomposizione di quella separazione fra politica ed economia che tanto aveva pesato in negativo sulle esperienze rivoluzionarie del proletariato europeo dopo il 1848, Russia compresa:

“(…) il nostro interesse principale va al ruolo importante assunto dal tipo particolare di sindacato, rappresentato nel modo più caratteristico dai lavoratori della Catalogna e di Valencia, che fino all’epoca presente era disprezzato e criticato dai ricchi sindacati inglesi e dalle potenti organizzazioni marxiste dell’Europa centrale e meridionale come una forma utopica destinata al fallimento in qualsiasi situazione critica. Queste formazioni sindacaliste , anticentralistiche e antipartitiche erano interamente basate sulla libera azione delle masse lavoratrici. Le loro attività di routine come d’emergenza erano guidate sin dall’inizio non da una burocrazia professionale ma dall’élite dei lavoratori nelle rispettive industrie. Quella stessa élite cosciente rappresentata dai comitati d’azione rivoluzionari creati dai lavoratori in lotta all’interno e fuori dei sindacati per affrontare i vari problemi a mano a mano che sorgevano, fornì l’iniziativa , la consistenza, l’esempio e l’azione per le conquiste fondamentali del nuovo periodo rivoluzionario. Questa lezione storica della collettivizzazione è di importanza permanente per lo sviluppo organizzativo e tattico del movimento rivoluzionario”. 20

Ma quello che in fondo maggiormente colpisce Korsch è la carica rivoluzionaria immediatamente antistatale del proletariato spagnolo. Per la prima volta il proletariato non si ferma davanti al tabù rappresentato dalla proprietà “pubblica”, non scambia nazionalizzazione per socializzazione. Spontaneamente i proletari spagnoli e catalani rispondono alla domanda su cosa sia la socializzazione che Korsch si era posto venti anni prima assistendo agli incerti tentativi dei consigli operai tedeschi. Ed egli ne resta affascinato:

“Il vigore dell’atteggiamento anti-Stato del proletariato rivoluzionario spagnolo, libero da impedimenti organizzativi o ideologici autoimposti, spiega tutti i suoi sorprendenti successi di fronte a difficoltà schiaccianti. Spiega il fatto senza precedenti nell’esperienza europea che la collettivizzazione rivoluzionaria fu estesa sin da principio e come cosa naturale allo Stato e alle imprese municipali così come alle aziende capitalistiche”. 21



Guerra imperialistica e classe operaia

Lo scoppio del secondo conflitto mondiale e ancora di più l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel dicembre 1941 dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor modificano radicalmente la situazione già di per sé critica in cui Korsch vive. Gran parte dell’intellighentsia progressista appoggia lo sforzo bellico americano considerato parte integrante della lotta al fascismo e della difesa dell’Unione Sovietica. Ancora più forte è la mobilitazione fra i tedeschi rifugiatisi negli Stati Uniti dopo il 1933. Molti di essi sono di origine ebraica, per cui la guerra antinazista acquista quasi i connotati di una vera e propria guerra di liberazione. Cosi Alice Mayer, segretaria di Horkheimer a New York descrive il clima esistente all’interno dell’Istituto per le ricerche sociali:

“Eravamo tutti posseduti, per così dire, dall’idea di dover battere Hitler e il fascismo, e questo ci teneva uniti. Tutti noi, comprese le segretarie e quelli che frequentavano l’Istituto o vi lavoravano, sentivamo di avere una missione da compiere che ci dava una sensazione di reciproca fedeltà e affinità”. 22

Già dai primi giorni di guerra molti di questi intellettuali iniziano a collaborare con le autorità governative e militari. I più promettenti vengono reclutati dai servizi segreti come consulenti o analisti e in qualche caso anche come agenti. È il caso ad esempio di Franz Neumann rappresentante del Research and Analysis Branch dell’OSS, di Leo Lowenthal capo di una sezione dell’Office of War Information (OWI), di Paul Sweezy, agente dell’Office of Strategic Service in Inghilterra, Francia e Germania, e ancora di Herbert Marcuse che, vero caso limite, al termine della guerra non smobilita come gli altri, ma decide di restare a lavorare nei Servizi, prima nell’OSS e poi dal 1947 fino alla guerra di Corea nella neocostituita Central of Intelligence Agency (CIA). 23

Korsch, Mattick e gli altri componenti la piccola cerchia dei comunisti dei consigli risentono fortemente di questa situazione di progressiva chiusura di ogni spazio libero di dibattito o di dissenso. La preoccupazione di Horkheimer che prima o poi la destra più radicale si sarebbe scatenata contro «un gruppetto di intellettuali stranieri che ficcano il loro naso nei fatti privati dei lavoratori americani» 24 vale a maggior ragione per chi come loro non solo non gode di alcuna protezione, ma continua in qualche modo a collocarsi in un’ottica di classe. La guerra segna dunque la fine di questa esperienza. Living Marxism si trasforma nel più anonimo New Essays di cui usciranno appena tre numeri tra l’autunno del 1942 e l’inverno 1943. Poi, più nulla. Con gli stalinisti scatenati contro chiunque si opponga alla guerra, con l’intera dirigenza del trotskista SWP processata e condannata per sabotaggio dello sforzo bellico, l’estrema sinistra è condannata al silenzio.

Negli anni della guerra, dunque, Korsch produce pochissimo. Non più giovanissimo e con qualche problema di salute, anch’egli si deve in qualche modo piegare alla nuova situazione e rassegnarsi a tenere alcune conferenze in scuole militari sulla storia della Germania e la politica tedesca. Riesce, tuttavia, prima che ogni spazio si chiuda, a pubblicare alcuni articoli sul fascismo e la guerra di grande spessore teorico in cui sviluppa la tesi, già avanzata negli anni Trenta, del fascismo come faccia della modernità. Del totalitarismo, insomma, come espressione diretta di un nuovo tipo di società capitalistica radicalmente differente da quella studiata da Marx. Sempre più gli appare evidente che contrariamente alla visione catastrofista dei marxisti rivoluzionari di inizio secolo, Lenin compreso, il capitalismo non ha ancora sviluppato a fondo le forze produttive. Il fascismo, ma in altra forma anche lo stalinismo, si presenta allora

“come una transizione dalla forma privata ed anarchica di capitalismo ad un sistema monopolistico o capitalistico di stato basato su di un capitalismo pianificato ed organizzato”. 25

Questa considerazione lo porta ad un certo fatalismo. Ripetutamente egli ribadisce che si tratta di una tendenza inarrestabile e che sarebbe pertanto “pura follia” pensare che la tendenza mondiale al capitalismo di stato possa in qualche modo essere fermata. La corsa al fascismo, identificato con l’economia organizzata dallo Stato, gli pare inarrestabile anche negli Stati Uniti dove assume la forma di una democrazia irregimentata. Non è più possibile tornare indietro. Le vecchie forme dell’agire economico e politico in Occidente gli appaiono appartenere ormai al passato. Anche in caso di vittoria delle potenze Alleate

“né il libero scambio (che dopo tutto non era poi per gli operai così libero) né gli altri elementi della tradizionale democrazia borghese – libertà di stampa, di parola, di comunicazione – potranno essere ripristinati; né del resto, erano mai esistiti per la classe oppressa e sfruttata”. 26

Sono tesi che in qualche modo riecheggiano la teoria del «collettivismo burocratico». 27 Certamente Korsch non conosce l’opera di Bruno Rizzi, ma proprio in quegli anni è apparsa in America La rivoluzione dei tecnici, il discusso pamphlet dell’ex-trotskista James Burnham che all’italiano molto deve sul piano delle idee. 28 Se a ciò aggiungiamo il fatto che verso la fine della guerra Korsch partecipa alla nascita di «Politics», rivista che si caratterizza fin dai suoi primi numeri proprio per la difesa della tesi del collettivismo burocratico, l’ipotesi di una qualche forma di contaminazione rizziana del pensiero di Korsch non appare poi così peregrina. 29

In particolare Korsch si dedica a studiare l’influenza sull’economia e sulla società americana delle grandi Corporation, ricavandone la visione di una società “ad una dimensione” rigidamente organizzata:

“L’economia americana non trae più oggi gli impulsi decisivi dalla concorrenza delle imprese individuali in un mercato incontrollato («libero»), ma è diventata, nel suo complesso, un sistema manipolato. (…) La gran massa dei «prezzi», compresi i salari non viene più stabilita nel mercato libero, bensì manipolata mediante decisioni amministrative che sono sì influenzate in varia misura, ma non più strettamente e direttamente determinate – come in passato – dalle condizioni di mercato. (…) Questi controlli possono emanare da uno o più centri di potere; per quanto riguarda la politica del lavoro, ad esempio, le fila vengono di regola tirate dalla corporazione e da un sindacato che si dividono più o meno equamente i campi decisionali, mentre alcuni aspetti dell’intero settore rimangono di competenza del governo, come avviene nel caso dei minimi lavorativi o della regolamentazione dei servizi pubblici (…). Non si può continuare a considerare l’influenza esercitata sul mercato da alcuni potenti gruppi di pressione come un intervento transitorio (…). La costituzione della comunità corporata è diventata la vera costituzione degli Stati Uniti”. 30

Si tratta, come si può vedere, di riflessioni modernissime riprese e sviluppate a partire dagli anni Sessanta dai movimenti della nuova sinistra che riscopriranno e rivaluteranno l’opera di un Korsch, ormai quasi dimenticato.

In una società capitalistica totalitaria anche la guerra è ormai divenuta totale. Korsch si rifà a Marx per il quale il mutameno delle forme di produzione si esprime prima a livello bellico che non nella produzione pacifica di merci.

“L’attuale guerra anticipa quelle nuove forme economiche cui si giungerà poi, attraverso la transizione di tutti i paesi capitalistici ad un modo di produzione non più basato sul mercato e sulla concorrenza dei privati produttori, bensì sulla pianificazione – statale o meno – di tutte le attività economiche. Ed è principalmente per questo che la guerra attuale, lungi dall’essere una «ripetizione» del conflitto del 1914-18, se ne differenzia in maniera così profonda. (…) Questa volta i principi dell’ «economia di guerra» erano già in vigore nel tempo di pace precedente. L’intero sistema industriale di nazioni come la Germania o la Russia è stato metodicamente subordinato in anticipo alle esigenze di una guerra che doveva cominciare solo molti anni dopo. Sotto tutti questi aspetti, la «guerra totale» nazista differisce profondamente dalle forme precedenti di strategia militare che costituivano un riflesso dello spirito prevalentemente concorrenziale delle prime fasi del capitalismo. La guerra odierna appare così come una forma di guerra totale nuova: una guerra totale del capitalismo monopolistico e del capitalismo di stato”. 31

Se l’analisi della fase riprende e sviluppa in modo organico temi già toccati negli anni precedenti, la vera novità di questi scritti consiste nel profondo pessimismo che traspare da ogni riga. La passività della classe operaia americana ed europea che accetta la guerra senza gli entusiasmi patriottici del 1914, ma neppure senza la rivolta delle trincee del 1917, lo tocca in profondità. Ancora due anni prima Korsch si esaltava per il radicalismo spontaneo del proletariato spagnolo e ciò lo portava a credere che la guerra avrebbe creato di per se le condizioni di una situazione rivoluzionaria di portata mondiale. In realtà ciò non si è verificato ed egli incomincia a trarne le necessarie conclusioni:

“Il significato della guerra per il futuro movimento rivoluzionario della classe operaia è oggi estremamente oscuro ed incerto. Qualunque sia l’esito dell’attuale guerra «totale», è chiaro che per gli operai questa guerra «rivoluzionaria» non costituisce altro che un inasprimento delle loro condizioni di sfruttamento e di oppressione. (…) La guerra capitalistica ha esaurito tutte le sue potenzialità rivoluzionarie”. 32



1 “Corrispondenza dei Consigli”, organo di discussione internazionale (1934-1937) del GIC (Gruppo Comunisti Internazionali) olandese. Cfr. P. BOURRINET, Alle origini del comunismo dei consigli, Graphos, Genova 1995, p. 220 e sgg.
2 Per una conoscenza più approfondita di questo filone del marxismo americano cfr. B. BONGIOVANNI, La tradizione rivoluzionaria americana e i comunisti dei consigli europei, in Movimento Operaio e Socialista, XXIII, 4, Genova 1977; e C. CAMPORESI, Il marxismo teorico negli USA 1900-1945, Feltrinelli, Milano 1973, che ne offre però una visione riduttiva, viziata da una pregiudiziale ostilità. Di grande interesse sono le raccolte di testi MATTICK-KORSCH-LANGERHANS, Capitalismo e fascismo verso la guerra, La Nuova Italia, Firenze 1976; e (in francese) KORSCH/MATTICK/PANNEKOEK/RÜHLE/WAGNER, La contre-révolution bureaucratique, UGE, Paris 1973. Per conoscere Mattick cfr. C. POZZOLI, Paul Mattick e il comunismo dei consigli, in P. MATTICK, Ribelli e rinnegati, Musolini, Torino 1976. Un’utile Bibliografia su Paul Mattick e il comunismo dei consigli si può trovare in Marxiana 1, Bari 1976. Esiste infine una traduzione italiana di quella che si può considerare la principale opera di Mattick. Cfr. P. MATTICK, Marx e Keynes, De Donato, Bari 1972.
3 Per Camporesi la pubblicazione di questa rivista “servì tutt’al più a educare i suoi creatori e un certo numero di lettori e, nella peggiore delle ipotesi, ad aumentare l’amarezza per le occasioni perdute”. (C. CAMPORESI, cit., p. 142)
4 Sugli IWW cfr. P. RENSHAW, Il sindacalismo rivoluzionario negli Stati Uniti, Laterza, Bari 1970. Per una più approfondita conoscenza del movimento operaio americano cfr. fra gli altri: L. ADAMIC, Dynamite, Libri Rossi, Milano 1977; BOCK/CARPIGNANO/RAMIREZ, La formazione dell’operaio massa negli USA 1898/1922, Feltrinelli, Milano 1976; R.O. BOYER-H.M. MORAIS, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti 1861-1955, De Donato, Bari 1974; J. BRECHER, Sciopero!, La Salamandra, Milano 1976; F. FOX PIVEN-R.A. CLOWARD, I movimenti dei poveri, Feltrinelli, Milano 1980; M. GLABERMAN, Classe operaia imperialismo e rivoluzione negli USA, Musolini, Torino 1976; D. GUERIN, Il movimento operaio negli Stati Uniti, Editori Riuniti, Roma 1975. Per una conoscenza “strutturale” della classe operaia americana nel secondo dopoguerra resta fondamentale H. BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978.
5 Gruppo di esigue dimensioni, il Proletarian Party of America abbandona presto ogni suggestione bolscevica per un operaismo radicale fortemente segnato dalla storia particolare delle lotte di classe in America. Negli anni Trenta una parte del Partito si sposta sulle posizioni del comunismo dei consigli europeo e assieme a ex-wobblies costituisce l’effimero United Workers’ Party. Sulle origini e la storia del Partito comunista americano cfr. J.P. CANNON, I primi 10 anni del Partito comunista americano, Jaca Book, Milano 1977; A. DONNO, La «Questione comunista» negli Stati Uniti, Milella, Lecce 1983; J. WEINSTON, Storia della sinistra in America, il Mulino, Bologna 1978.
6 P. MATTICK, Introduzione a New Essays, Greenwood Reprint Corporation, Westport (Conn) 1970, p. I e VIII. Citato in G.M. BONACCHI, Teoria marxista e crisi: i «comunisti dei consigli» tra New Deal e fascismo, in MATTICK-KORSCH-LANGERHANS, cit., p. V.
7 S. MOSS, On the Impotence of Revolutionary Groups, in «Living Marxism», IV, 7, 1939, p. 218.
8 K. KORSCH, Sul nuovo programma dell’«American Workers Party», in Scritti politici, 2, cit., pp. 403-404.
9 Nato nel 1933 dalla Conference for Progressive Labor Action (CPLA), un movimento radicale interno alle organizzazioni sindacali e diretto dall’ex pastore A.J. Muste, l’American Workers Party nel dicembre 1934 si fonde con la piccola organizzazione trotskista (Communist League of America - CLA) di J.P. Cannon a formare il Workers Party of United States (WPUS). Il nuovo partito si spaccherà presto sull’ipotesi entrista, caldeggiata da Trotsky, nel Socialist Party.
10 K. KORSCH, Sul nuovo programma…, cit., p. 405.
11 K. KORSCH, Lettera a Mattick del 3.6.1938, in Marxiana 1, cit., pp. 159-160.
12 “Lavoro”, in inglese nel testo.
13 CP=Communist Party. Gli stalinisti americani si opposero in tutti i modi all’inserimento di Korsch nel mondo accademico, denunciandolo come un nemico dell’Unione Sovietica e quindi indirettamente come un fiancheggiatore del fascismo. Una interessante ricostruzione dell’ambiente intellettuale “radical” americano di quegli anni dove forte permaneva l’influenza del PC e dell’URSS staliniana è contenuta in A. DONNO, Dal New Deal alla Guerra Fredda. Aspetti del radicalismo statunitense negli anni ’40, Sansoni, Firenze 1983.
14 K. KORSCH, Lettera a Partos del 12.6.1939, in Marxiana 2, cit., p. 177-179.
15 Non esiste uno studio italiano sulla vita e l’opera di Tony Cliff, rimandiamo pertanto all’autobiografia apparsa nel 2000: T. CLIFF, A world to win, Bookmarks, London 2000. Per la teoria della “permanent war economy” cfr. T. CLIFF, Marxist Theory After Trotsky, Bookmarks, London 2003. Per un’analisi interessante del pensiero di Sweezy cfr. A.M. BERTANI, Keynes nel marxismo di P.M. Sweezy, CLUSF, Firenze 1975.
16 K. KORSCH, Osservazioni sulle Tesi concernenti la prossima crisi mondiale, la seconda guerra mondiale e la rivoluzione mondiale, in Capitalismo e fascismo verso la guerra, cit., pp. 46-47.
17 Ivi, pp. 48-49.
18 NEP=Nuova Politica Economica. Adottata da Lenin nel 1921in sostituzione della politica del comunismo di guerra e caratterizzata da una larga apertura ai contadini e al capitale straniero. Per un approfondimento cfr. E.H. CARR, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Einaudi, Torino 1964. Per una trattazione dei risvolti sociali della NEP cfr. R. LINHART, Lenin i contadini e Taylor, Coines, Roma 1977.
19 K. KORSCH, Economia e politica nella Spagna rivoluzionaria, in Scritti politici, 2, cit., p. 291.
20 K. KORSCH, Collettivizzazione in Spagna, in Scritti politici, 2, cit., pp. 299-300. Sui tentativi di collettivizzazione presenti nella rivoluzione spagnola cfr. F. GARCÍA, Collettività contadine e operaie durante la rivoluzione spagnola, Jaca Book, Milano 1980; C. MAROTTA, La breve estate dell’autogestione, in Volontà, XL, n.4, ottobre-dicembre 1986. Di particolare interesse (e impatto emotivo) è anche la bella antologia Chi c’era racconta. La Rivoluzione Libertaria nella Spagna del 1936, Editrice Zero in Condotta, Milano 1996.
21 Ivi.
22 M. JAY, cit., p.224.
23 Ivi, pp. 259 e sgg.
24 Ivi, p. 318
25 K. KORSCH, La controrivoluzione fascista, in Capitalismo e fascismo verso la guerra, cit., p. 164.
26 Ivi, p. 165.
27 Cfr. B. RIZZI, La burocratizzazione del mondo, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (MI) 2000. Per una discussione delle tesi di Rizzi cfr. R. TACCHINARDI-A. PEREGALLI, L’URSS e i teorici del capitalismo di stato, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1990.
28 Per una trattazione esaustiva della figura e dell’opera di Burnham cfr. G. BORGOGNONE, James Burnham, Stylos, Aosta 2000.
29 “Verso la fine della guerra, un gruppo composito di ex-trotzkisti americani fondò la rivista «Politics», - alla cui redazione parteciparono vecchi rivoluzionari europei come Karl Korsch e Ruth Fischer – il cui principale teorico era Dwight Macdonald, che riprese la tesi del collettivismo burocratico.” (P. SENSINI, Saggio introduttivo a RIZZI, la burocratizzazione del mondo, cit., p. LXXXII.
30 K. KORSCH, La lotta operaia contro il fascismo, in Capitalismo e fascismo verso la guerra, cit., pp. 216-219.
31 K. KORSCH, Guerra e rivoluzione, in Capitalismo e fascismo…, cit., pp. 245-247.
32 Ivi, p. 249.

I Longobardi sono ancora tra noi

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Lo sapevate che quando diciamo panca o balcone ripetiamo antiche parole longobarde? A Pavia continua la grande mostra sul popolo che ha dato la sua impronta al Medioevo italiano e ha lasciato profonde tracce sia nel linguaggio che sul territorio.

Maurizio Assalto

I Longobardi sono ancora tra noi


Anche uno dei dolci italiani più popolari, la colomba pasquale, pare sia da ricondursi all’arrivo dei Longobardi. La leggenda - tarda rielaborazione di un episodio tramandato nell’VIII secolo da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum - narra che nel 572, dopo tre anni di assedio, Alboino si accingeva a entrare in Pavia, l’antica Ticinum, fieramente intenzionato a passare a filo di spada la popolazione, quando il suo cavallo si abbatté a terra e non volle più saperne di rialzarsi. Era la vigilia di Pasqua, e un fornaio donò all’invasore il dolce ancora caldo, in cambio della promessa a desistere dall’insano proposito. Allora il destriero si rialzò e Alboino poté fare il suo ingresso trionfale nella città che sarebbe diventata la capitale del nuovo regno barbarico.

Ma non è soltanto nella fantasiosa tradizione dolciaria che queste genti germaniche, originarie del basso corso dell’Elba, hanno lasciato la loro impronta. E neppure nella realtà tuttora viva della toponomastica e di molti nomi di persona (come quelli che terminano in -berto, da pert, illustre). La loro irruzione nella Penisola segnò una discontinuità, una rottura totale dopo la quale niente sarebbe più stato come prima. E «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» è il titolo della mostra, curata da Gian Pietro Brogliolo e Federico Marazzi con catalogo Skira, aperta fino al 3 dicembre al Castello Visconteo di Pavia - dopo di che, integrata di ulteriore documentazione relativa ai ducati del Sud Italia, si trasferirà al Mann di Napoli (21 dicembre-26 marzo) e quindi da aprile a luglio all’Ermitage di San Pietroburgo.



Fine dell’unità politica

Oltre 300 i pezzi esposti, tra i quali 58 corredi funerari completi, per documentare, con l’ausilio di video e installazioni multimediali, una vicenda che ha diverse assonanze con il presente e lascia aperti gli interrogativi. I Longobardi sono i distruttori dell’unità politica dell’Italia, perduta nel 476 con il crollo dell’Impero romano d’Occidente e parzialmente recuperata sotto il re goto Teodorico, o coloro che cercarono di ricostituirla su nuove basi? Soltanto eversori del vecchio, o anche seminatori del nuovo, un nuovo che giunge fino a noi?

Gli «uomini dalla “lunga barba”» (langbart) erano penetrati in Italia nel 568, provenienti dalla Pannonia (attuale Ungheria) dove si erano stabiliti nel corso del V secolo. Già impiegati come mercenari nella lunga guerra contro i Goti - una sorta di Vietnam durato 18 anni, dal 535 al 553, in cui l’Impero d’Oriente si era impelagato nel tentativo di riprendere il controllo dell’Italia -, nel caos seguito alla fine del conflitto, con la Penisola spappolata come l’Iraq dopo le guerre del Golfo, avevano capito che la situazione era propizia.

Non è chiaro se intendessero fermarsi o semplicemente transitare per spingersi più a Ovest (tracce delle loro presenza sono affiorate a Arles, Avignone e in diverse altre località della Provenza). Di fatto - grazie al non interventismo degli imperiali, che li lasciarono fare in funzione anti-Franchi - poterono scorrazzare per una decina d’anni in tutta l’Italia settentrionale, per poi spingersi al Centro e al Sud, dando vita a quei ducati di Benevento, Salerno e Capua sopravvissuti fino a oltre l’anno Mille, dopo che Carlo Magno nel 774 aveva posto fine al loro regno.

I Longobardi cambiarono la storia perché portarono i germi di una diversa cultura che fondendosi con quella latina e poi travasandosi in quella dei Franchi avrebbe dato luogo alla «Rinascenza carolingia» e al Medioevo così come lo conosciamo. E cambiarono la storia d’Italia perché il loro avvento comportò una serie di trasformazioni irreversibili. Dalle forme insediative e produttive (con la nascita di nuovi villaggi, i latifondi suddivisi tra gli arimanni - gli uomini liberi che portavano le armi -, la fine dei grandi traffici commerciali a vantaggio delle piccole produzioni locali) agli assetti sociali (con la decapitazione integrale della classe dirigente romana che i Goti, durante il loro predominio formalmente esercitato per conto dell’Impero d’Oriente, avevano coinvolto nella gestione del potere).

Una consolidata tradizione di studi anglosassoni ha teso a sminuire la natura barbarica e la stessa identità etnica dei Longobardi, intendendoli piuttosto come migranti pacificamente integrati, e a negare la contrapposizione delle culture. I dati archeologici e paleogenetici emersi dagli scavi degli ultimi anni parlano invece di una popolazione di conquistatori dalla marcata identità collettiva, che si mantenne pressoché inalterata per un paio di secoli.



Un regime di apartheid

Sono davvero Longobardi, e non romani abbigliati da Longobardi, quei guerrieri consegnati all’aldilà con tutte le armi e sovente con i loro cavalli e i cani, come nella sepoltura presentata in mostra, da Povegliano Veronese. Così come sono longobardi i reperti lapidei della Langobardia minor (dai monasteri di Montecassino, San Vincenzo al Volturno e Santa Sofia di Benevento) che attestano l’abbandono dell’arianesimo per aderire nel VII secolo alla fede cattolica.

Anche se smisero presto di parlare la loro lingua, adottando un latino contaminato, i nuovi padroni non si confusero però con il resto della popolazione. Numericamente minoritari - si stima che non siano mai stati più di trecentomila, contro sette-otto milioni di italiani - vivevano in una sorta di apartheid, soggetti alle proprie leggi consuetudinarie (della prima e più celebre raccolta, l’Editto di Rotari, è esposto il manoscritto redatto in latino nel 643 nel monastero di Bobbio), mentre per le relazioni tra italiani veniva applicato il codice teodosiano.

Ma è nel quadro geopolitico che i Longobardi hanno lasciato il segno più duraturo. Con i loro ducati sparsi nella Penisola, formalmente soggetti all’autorità centrale ma di fatto largamente autonomi, anticiparono quelle specificità locali che hanno caratterizzato i secoli successivi. Una frammentazione politica e culturale problematicamente ricucita soltanto con il Risorgimento, ma che periodicamente riaffiora.


La Stampa - 18 ottobre 2017

Il Capodanno

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Festa per eccellenza il Capodanno segna una rottura del tempo, una fine e un inizio. Per questo è così carica di significati.

Guido Araldo

Il Capodanno

Si dice che anticamente nella notte di san Silvestro: il momento in cui la faccia destra di Giano subentra a quella sinistra, fosse usanza contare i soldi, auspicando un anno ricco e prospero. Un’altra antica tradizione vuole che a mezzanotte tra l’anno vecchio e l’anno nuovo si bruciasse il ginepro nel camino (oppure il quadrifoglio), la cui cenere andava sparsa sull’uscio di casa all’alba, come gesto benaugurale. Allo stesso modo, alla stessa ora, andava bruciato il ramoscello di vischio appeso sull’uscio di casa in occasione del Natale.

Infine, sempre all’alba dell’anno nuovo, si attribuiva un valore divinatorio alla prima persona che s’incontrava, fatta eccezione per i famigliari. Meglio incappare in una donna, che in un uomo, e se la donna era una vecchia, sarebbe stato un anno fortunato.

I Romani annoveravano il Capodanno tra i dies fasti: un giorno positivo, giorno di gioia da segnare con pietruzze bianche, in cui scambiarsi doni tra fronde di alloro e di agrifoglio; piante tradizionalmente benaugurali. Vale la pena ricordare che a Roma persistettero a lungo due calendari: uno consolare – istituzionale con l’anno che iniziava alla festa di Giano, il 1° gennaio; l’altro popolare, quotidiano, lunare ancora oggi attestato da computo dell’epatta, che iniziava il 1° marzo.

All’alba del primo giorno dell’anno, al dio Giano, signore delle calende di gennaio, veniva offerta una focaccia di miele coperta da foglie di ginepro dorate: nota con il nome di ianual. Un’offerta solitamente accompagnata da brocche colme di latte e vino. L’augurio era palese: un anno nuovo dolce come il miele, con abbondanza di prodotti rappresentata dal latte e dal vino. Quest’ultimo includeva anche l’augurio di un anno caratterizzato dal buonumore. Né mancava, nei casi migliori, il dono di monete per alludere alla speranza in un futuro imminente particolarmente ricco e prospero.



Un rito propiziatorio, rivolto a Giove, prevedeva il sacrificio di un toro bianco; poiché Giano non gradiva i sacrifici animali e il sangue che scorre copioso, privilegiando fragranti focacce e brocche di buon vino. Com’era consuetudine antichissima, durante questo rito erano proferiti i voti solenni dei consoli, cui sarebbe spettato il governo dello stato per l’anno entrante.

In seguito, in epoca imperiale, ai voti dei consoli si assommarono quelli dei senatori, che al primo gennaio rinnovavano il giuramento di lealtà e fedeltà nei confronti dell’imperatore. A sua volta, l’imperatore esprimeva solennemente i vota pulica sacrificando a Giove due grandi buoi bianchi con corna dorate; poi, al tramonto, riceveva sul Campidoglio le strenae: offerte in denaro da parte del senato e del popolo. Da queste offerte trae origine la parola strenna, regalo.

L’usanza che al tramonto del 31 dicembre o al 1° gennaio si tenessero festose veglie e banchetti benaugurali, si evince dai severi divieti emessi delle autorità ecclesiastiche cristiane, appena la nuova religione giunta dalla Palestina s’impose come culto dominante.

Le veglie all’imbrunire del 31 dicembre e i fastosi banchetti del 1° gennaio sono documentati dall’autore latino Lucio Giunio Moderato Columella: un’usanza diffusa in tutto l’impero romano. Ieri, come oggi, il cenone del 31 dicembre era un allegro convivio di buon auspicio, affinché l’anno incipiente fosse abbondante di raccolti e frutti, permettendo d’imbandire ricche tavolate; foriero di felicità e prosperità. Lo scrittore latino accenna anche ai compitalia: riti agresti itineranti con soste presso i crocicchi; autentiche feste mobili durante le quali presso i tempietti in bivi, trivi o quadrivi venivano deposti gli attrezzi agricoli rotti, affinché fossero distrutti, mentre quelli in funzione ricevevano una sorta di benedizione, in previsione del nuovo anno, con l’auspicio di buoni raccolti. Solitamente questi riti si concludevano con banchetti benaugurali davanti ai Lari, attorno al focolare sacro di un grande cascinale, di una villa, di un villaggio, di un quartiere cittadino. Più dubbia l’usanza, durante i compitalia, di bruciare un gomitolo di lana o un fantoccio di paglia, gettandoli nel fuoco presso un crocicchio.

Nell’anno 64 a.C. i festeggiamenti alle calende di gennaio furono vietati a Roma per i disordini che generarono; ma la popolarità di quelle veglie e di quei banchetti era tale che furono ben presto reintrodotti.



Nel 389 un editto dell’imperatore Teodosio ufficializzò il Capodanno come festa imperiale, nonostante la proibizione dei culti pagani. Va precisato che l’anno nuovo, all’epoca, non iniziava a mezzanotte, ma all’alba, con il levar del sole. La tradizione di far iniziare l’anno nuovo a mezzanotte è piuttosto recente.

Sempre al 1° gennaio era usanza gettare una manciata di grano e un boccale di vino nel focolare domestico o nei falò pubblici, per propiziarsi una buona annata invocando Cerere e Giano, in Grecia venivano invocati Demetra e Dioniso. La danza che si teneva attorno al fuoco, con il “rito” del salto sulle fiamme, aveva sicuramente una valenza magica. Non si deve dimenticare che Dioniso nei riti orfici era il dio della rinascita dopo la morte causata dei Titani: il dio ricomposto con le ceneri dei Titani che lo hanno divorato, e per questo atto sacrilego fulminati da Zeus, con la fiammella divina del suo cuore palpitante sopravvissuto, l’anima. Concetti che anticiparono di secoli il cristianesimo e non a caso nelle catacombe di Priscilla Gesù il buon pastore è raffigurato sia come Orfeo con la cetra in mano che come Dioniso, e nelle mani il calice colmo di vino del dio e il pane di Demetra… In seguito il calice di Dioniso si evolse in epoca medievale, in ambiente bretone, nel mito del Santo Graal.

In una data imprecisata, in tarda epoca imperiale, veglie e banchetti sembrarono non bastare e s’impose la voga di chiassose sfilate, durante le quali i più giovani bussavano alle porte delle case inneggiando a Giano e augurando una buona annata. In cambio di quell’augurio ricevevano un compenso in focacce, vino e forsanche denaro. Un’usanza che ben presto dilagò in tutto l’impero romano. Della degenerazione di questi cortei, con torme di ragazzini che correvano questuanti di casa in casa, indossando maschere di animali e cantando amene filastrocche, fornisce una preziosa testimonianza san Massimo, primo vescovo di Augusta Taurinorum (Torino). Con orrore il buon vescovo stigmatizzava la diffusa abitudine di molti uomini nel travestirsi in donna, in tutto e per tutto, con le conseguenze che ne derivavano; come pure di camuffarsi in bestie, se non addirittura in mostri, emettendo urla selvagge e impressionanti.

Lo scrittore Ginzburg rievoca un’omelia contro i festeggiamenti delle calende di gennaio nel giorno dell’Epifania dell’anno 400, tenuta dal vescovo Asterio di Amasea in Cappadocia; il quale non soltanto lamentava l’abitudine di scambiarsi doni all’inizio dell’anno, ma condannava aspramente l’usanza di dividersi in gruppi e andare di casa in casa, tra vari schiamazzi, pretendendo denaro.


All’incirca nella stessa epoca a Ravenna, che aveva sostituito Roma nel ruolo di capitale dell’Occidente Romano, sono documentati cortei in occasione del capodanno con travestimenti mitologici e animaleschi, degni del più sfrenato carnevale, nonostante si vivesse ormai in epoca cristiana.

L’usanza del travestimento animale, con corna di cervo e zanne di cinghiale, era tipico principalmente dell’Italia Settentrionale e della Provenza, esteso anche in Catalogna fino alle rive dell’Ebro. Un’usanza che lascia trasparire la persistenza di un archetipo celtico, quando in pieno inverno s’inneggiava e si sacrificava a Cernunnos, il grande cervo saturo di valenze magiche. Similmente, alle idi di gennaio, si sacrificava al dio solare Lug, raffigurato solitamente in compagnia di un cinghiale, sostituito in seguito da sant’Antonio abate con il maiale.

Si era soliti, a Capodanno, bruciare il fantoccio di una vecchia: la vetula, che probabilmente rievocava il personaggio ancestrale etrusco di Anna Perenna. Un fantoccio che subì due metamorfosi: la prima nella Befana e la seconda nella vecchia della Quaresima, che subentra con una grande scopa di saggina al fantoccio del Carnevale bruciato pubblicamente la sera del Martedì Grasso.

Fu all’inizio del V secolo che le autorità ecclesiastiche intrapresero una vera e propria lotta contro il capodanno, inteso come pericoloso residuo di paganesimo, difficile da estirpare: la Natività e l’adorazione dei Re Magi dovevano bastare. Un’autentica guerra che nell’anno Mille sembrava definitivamente vinta e che, invece, mille anni dopo era irreversibilmente persa.


(Da: G. Araldo, Mesi Miti Mysteria)

15. Karl Korsch. Gli ultimi anni (1946-1961)

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Ultimo capitolo del nostro “Il «rinnegato» Korsch. Storia di un'eresia comunista". Le dieci tesi sul marxismo oggi e il lascito teorico di Karl Korsch.

Giorgio Amico

Gli ultimi anni (1946-1961)


Fin dagli anni giovanili Korsch si era identificato nella classe operaia, ma gli ideali giovanili non passano mai indenni la verifica della realtà. In quattro occasioni la sua vita si incrocia con grandiosi movimenti di massa che paiono porre all’ordine del giorno la possibilità concreta di costruire un ordine sociale superiore: le lotte di classe in Germania negli anni compresi fra il 1918 e il 1923, la rivoluzione russa e la costruzione dello Stato sovietico, la rivoluzione spagnola, la grande stagione di lotte operaie nell’America del New Deal.

Con l’eccezione della Spagna dove comunque l’insorgenza proletaria viene sanguinosamente schiacciata dalla controrivoluzione franchista e stalinista, 1 Korsch si confronta ogni volta con una realtà che non corrisponde alla teoria. Ogni volta il solco fra prassi concreta e teoria appare profondo. La teoria stessa via via perde i suoi connotati scientifici per trasformarsi in ideologia o sfumare nel mito. L’esperienza tedesca gli aveva offerto l’immagine di un proletariato esitante, incerto, incapace di svolgere il suo ruolo storico di affossatore della borghesia. La particolare storia del movimento operaio tedesco, il peso del revisionismo bersteiniano e dell’ortodossia kautskiana sembravano fornire una valida spiegazione dell’accaduto.

A Oriente, nella Russia arretrata e dispotica un proletariato ancora bambino, non corrotto dalle lusinghe del capitale, pareva essersi alzato in piedi e assumere statura di gigante. Anche questa illusione doveva dissolversi rapidamente: la Russia bolscevica simbolo di liberazione cambiava natura, si trasformava nel regno di un nuovo dispotismo, forma asiatica di una rinnovata fase di accumulazione del capitale. Anche qui la critica dell’ortodossia leninista pareva bastare.

Nell’America del New Deal, infine, le stesse lotte operaie e la crescita impetuosa del movimento sindacale diventavano veicolo della ripresa del capitale da una crisi devastante: il riformismo operaio funzionava da strumento di sostegno della domanda in un momento di forte stagnazione degli investimenti. Restava però la speranza che la guerra avrebbe fatto pulizia e generato una “rivoluzione proletaria mondiale” come risultato dialettico dell’inasprimento della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Ma quando la guerra arriva, la situazione nei principali paesi imperialisti si caratterizza per la totale assenza di un’azione autonoma degli operai anche a livelli embrionali. Mandata al macello, la classe operaia resta passiva.

Posto di fronte a tutto questo, Korsch è portato a rimettere in discussione non più le varie interpretazioni del marxismo - il revisionismo di Bernstein, l’ortodossia di Kautsky, il bolscevismo di Lenin, la nuova ortodossia staliniana - ma lo stesso valore rivoluzionario del marxismo come scienza di classe. Altri in quegli anni si erano posti lo stesso problema. Trotsky ad esempio in un uno dei suoi ultimi scritti si interroga sulla natura del regime sovietico e ipotizza con grande lucidità e coraggio intellettuale tutte le possibili conseguenze che ne possono derivare a livello teorico:

“Portata sino in fondo, l’alternativa storica è la seguente: il regime staliniano costituisce una pausa ripugnante nel processo di trasformazione della società borghese in società socialista, oppure è la prima fase di una nuova società sfruttatrice. Se la seconda ipotesi dimostrerà di essere la più giusta, allora naturalmente la burocrazia diventerà una nuova classe sfruttatrice. Dovremo quindi riconoscere a malincuore che, se il proletariato mondiale dovesse realmente dimostrarsi incapace di compiere la missione che gli è stata affidata dal corso degli eventi, non rimarrebbe altro che riconoscere che il programma socialista basato sulle contraddizioni interne della società capitalista si sarà risolto in un’utopia. È chiaro che richiederebbe un nuovo programma minimo, per la difesa degli interessi degli schiavi della società burocratica”. 2

Per Trotsky la guerra rappresenta la cartina al tornasole della questione: egli è fermamente convinto che la guerra determinerà la rivoluzione e il crollo della corrotta ed inefficiente dittatura staliniana. Come tutti sanno, le cose presero un altro corso. Trotsky, assassinato nel 1940 da un sicario staliniano, non potè vedere come la guerra generasse un capitalismo trionfante destinato ad una trentennale espansione da un lato e rafforzasse il giogo staliniano sul proletariato dall’altro. I suoi seguaci rifiutarono di vederlo e si arrampicarono sugli specchi per far quadrare i conti, inventandosi teorie sempre più astruse su Stati operai deformati e/o degenerati da un lato e sulla crisi irreversibile del capitalismo dall’altro. 3 Cose non dissimili possono dirsi dei bordighisti. Certamente più lucidi nell’analisi del presente, ma egualmente sicuri del prossimo, inevitabile risollevarsi della rivoluzione proletaria. 4

Nel 1972 Jacques Camatte, in piena rottura con il marxismo terzinternazionalista, centra il problema, mettendo senza esitazione il dito nella piaga:

“I vari gruppuscoli che hanno fatto la loro comparsa a partire dal 1945, si sono sempre rifiutati di riconoscere la morte del vecchio movimento operaio. Avrebbero dovuto proclamare la loro stessa autonegazione. Ciò tuttavia non ha impedito loro di evocarla, interpretarla, teorizzarla nella solita rubrica: crisi del movimento operaio, concepita per lo più come una crisi di direzione rivoluzionaria. Molto raramente ciò ha comportato una ricerca delle cause di questa morte in seno alla classe stessa”. 5

Korsch, che ha ormai da anni definitivamente rotto con la logica paralizzante del “partito”, non indietreggia di fronte al compito ingrato di fare i conti con una realtà operaia che non segue i contorni del sogno rivoluzionario. Egli inizia a smontare il mito dall’interno. Dopo esserlo stato per gli stalinisti, egli torna ad essere il “rinnegato Korsch”, ma questa volta per i “marxisti rivoluzionari” che si sentono insidiati nelle loro certezze dalla sua lucida critica marxista del marxismo. Gabriella Bonnacchi nella sua corposa introduzione all’edizione italiana dei “New Essays” commenta così questo snodo cruciale della ricerca politica ed umana di un Korsch sempre più problematico:

“Il mancato ribaltamento rivoluzionario della crisi economica ( e, successivamente, della guerra) e il superamento ad opera del soggetto-stato (fascista e monopolistico) della vecchia separazione scolastico-marxista tra economia e politica gli apparve, di conseguenza, la dimostrazione della contradditorieà di una dottrina che, come quella marxista, aveva a suo soggetto proprio la classe operaia”. 6



Per un marxismo non dogmatico

Già nel 1935 in un breve articolo intitolato Perché sono marxista, Korsch aveva riformulato in quattro punti quelli che a suo parere erano le caratteristiche essenziali del marxismo:

“1. Tutte le affermazioni di principio del marxismo, anche quelle apparentement generali, sono specifiche.
2. Il marxismo non è positivo ma critico.
3. Il suo oggetto non è la società capitalistica esistente nel suo stato affermativo, ma la società capitalista in declino, come si rivela nelle tendenze al crollo e alla rovina in modo dimostrabile.
4. Il suo fine principale non è il piacere contemplativo del mondo esistente, ma la sua attiva trasformazione”. 7

Cosa fare, allora, se il capitale divenuto totale esercita un dominio così reale sulla società da riducrre il proletariato a spettatore passivo di conflitti interamente giocati all’interno del capitale stesso? In che modo pensare il superamento dell’esistente se la contraddizione capitale-lavoro diviene fittizia al punto che le lotte operaie ridanno vita al ciclo stesso dell’accumulazione? Prassi e teoria sono destinati a restare eternamente scissi o si può dialetticamente ricomporre la totalità che negli anni ’70 Jacques Camatte chiamerà, rifacendosi a un Marx in gran parte sconosciuto ai marxisti, Gemeinwesen? 8 Questi in sostanza gli interrogativi che Korsch si pone quando nella primavera del 1946 scrive un breve saggio per «Politics», intitolato significativamente Approccio non dogmatico al marxismo.

“A diverse persone – inizia Korsch – è stato chiesto tavolta perché sono o non sono marxiste, proprio come si sarebbe potuto chiedere loroperchè credono o non credono in Dio, nella scienza, nella morale, nella dottrina razzista, nella guerra, nella pace o nella minaccia di distruzione della civiltà con la bomba atomica. (…) Troppo spazio ha preso infine la questione - la più insensata di tutte – di cercare di chiarire quale particolare variante delle teorie di Marx, Engels o delle generazioni successive fino a Lenin, Stalin o Leontiev sia la versione più ortodossa della dottrina di Marx; oppure – ad un livello più alto – quale dei vari metodi applicati in tempi diversi da Hegel, Marx e dai marxisti sia veramente da considerarsi come il corretto metodo «dialettico».

Di contro a questa concezione assolutamente dogmatica, che ha reso sterile la teoria marxista rivoluzionaria in quasi tutte le fasi del suo sviluppo centenario in Europa e ha frustrato sin dall’inizio l tentativo di diffondere il marxismo negli Stati Uniti, proponiamo qui la rivalutazione dell’elemento critico, pragmatico e attivistico che nonostante tutto non è mai stato completamente assente nella teoria sociale di Marx e ha reso, nei brevi periodi del suo predominio, questa teoria l’arma più efficace nella lotta di classe proletaria”. 9

Elemento centrale di questa riproposizione di un marxismo critico, spogliato da ogni paludamento scientista, è ancora una volta la dialettica. Ma una dialettica di tipo nuovo. Non una specie di “superlogica”, per usare l’efficace espressione korschiana, bensì una pragmatica della conoscenza umana. Scrive Korsch:

“Il primo risultato non dogmatico di questo modo di considerare la dialettica è che non si diventa rivoluzionari con lo studio della dialettica, ma al contrario è la trasformazione rivoluzionaria della società ad agire tra l’altro anche sul modo in cui gli uomini di un determinato periodo tendono a produrre e a scambiarsi i loro pensieri. La dialettica materialista è quindi il modo in cui in un determinato periodo rivoluzionario e durante le varie fasi di questo periodo particolari classi sociali, gruppi, individui creano e assumono nuove parole e idee. È la ricerca delle forme, spesso inconsuete e sorprendenti, nelle quali essi collegano i propri pensieri e quelli di altri, collaborano nella dissoluzione di sistemi esistenti chiusi e li sostituiscono con altri sistemi più flessibili, anzi, nel migliore dei casi, con nessun altro sistema, ma con un nuovo movimento del libero pensiero senza impedimenti che percorre rapidamente le mutanti fasi di uno sviluppo più o meno continuo o discontinuo”. 10

Ancora una volta emerge l’anima libertaria di Korsch che non ha alcun timore a sviluppare un concetto di dialettica come libera espressione del pensiero. Korsch recupera qui e utilizza pienamente una serie di strumenti concettuali che si è andato via via costruendo nel lavoro di ricerca, iniziato già negli anni Trenta, assieme a Kurt Lewin sui costrutti matematici in psicologia e sociologia. Una ricerca che sfocia nello sviluppo da parte di Lewin della “teoria del campo”, frutto ultimo, genuinamente rivoluzionario, a livello della psicologia sociale della vecchia dialettica marxiana 11 e che condiziona fortemente l’angolazione metodologica da cui Korsch parte nella sua rivisitazione critica del marxismo.

In una relazione tenuta nel settembre del 1939 al Congresso per l’unità della scienza a Cambridge (Mass.), Korsch e Lewin avevano chiarito il legame profondo che la teoria del campo creava tra la psicologia e le scienze sociali:

“Uno dei prerequisiti più importanti di questo nuovo tipo di formalizzazione era una ricostruzione abbastanza radicale dell’idea generale di causa nei processi psicologici e sociali. Invece di riferirsi ad astratte relazioni tra classi di fenomeni, l’evento individuale fu considerato nella sua posizione particolare ad un dato momento. Ogni mutamento fu concepito come dovuto alle interrelazioni di tali fatti coesistenti. Questo approccio è generalmente chiamato «teoria del campo». (…) La sua introduzione in psicologia è all’origine di un cambiamento non poco rivoluzionario.

(…) Una rivoluzione simile, anche se sotto nome diverso, è adombrata nello sviluppo delle scienze sociali. Mentre le tesi specifiche della cosiddetta concezione materialistica della storia, che insiste sull’importanza basilare dei rapporti economici per ogni comportamento e sviluppo sociale, ha trovato solo un esiguo numero di sostenitori, non c’è praticamente opposizione al principio generale che sottosta a quel teorema specifico. Questo principio corrisponde strettamente all’approccio della teoria del campo in psicologia. Come i teorici del campo considerano ogni evento psicologico nella sua collocazione particolare ad un dato momento, la sociologia materialistica considera ogni attività sociale, istituzione, processo come un risultato del campo sociale totale esistente in una determinata epoca. Da questo punto di vista, risulta un’integrazione dinamica in un tutto interconnesso di comportamento sociale e sviluppo, di campi apparentemente così separati quali la produzione materiale o economia, da un lato, e la politica, il diritto e tutte le cosiddette branche superiori del processo mentale e vitale dell’umanità, dall’altro”. 12

Come si vede l’assonanza tra questa presentazione della teoria del campo e la nuova formulazione korskiana della dialettica materialistica appare pressochè totale. Per Korsch chi si affanna a cercare di separare con pignoleria cause ed effetti dei fenomeni sociali, è condannato a non cogliere mai la dinamica profonda dei processi in atto. La società borghese va intesa come un organismo vivente, frutto dell’integrazione dinamica e complessa di una molteplicità di fattori. Il marxismo è teoria rivoluzionaria proprio per la sua capacità radicale di rappresentare questa complessità, cogliendo i nessi fra i singoli fattori non staticamente, ma nel loro movimento.

Chi in nome di un marxismo “scienza esatta” usa la teoria per fotografare la realtà non può che banalizzarla, appiattirla in una inquadratura unidimensionale, in una parola falsarla. Ciò che conta è cogliere il ritmo dei processi sociali, il loro reciproco e sempre cangiante interconnettersi. E più importante ancora, come ciò si rappresenta nella coscienza e nell’ operare di uomini e donne colti nella loro concreta quotidianetà.. Korsch, che ha fatto l’esperienza dei grandi partiti e dei piccoli gruppi, sa bene di cosa parla. Una rappresentazione statica del mondo, frutto di una visione determinista e scientista della realtà, rimanda alla teologia, non certo alla dialettica. In questa dimensione groppuscolare le idee di Marx perdono di significato, si trasformano in formule astratte. Il marxismo si tramuta in ideologia, visione ossificata del mondo. La teoria critica diventa fabbrica di miti. La pratica politica diviene rito. L’organizzazione assume le caratteristiche della setta. Il militante si ritrova trasformato in credente. Il marxismo diventa “coscienza repressiva”.



A mò di conclusione: abbandonare il marxismo per tornare a Marx

Dopo la guerra Korsch è solo. La sua produzione si dirada sempre di più col peggiorare delle sue condizioni di salute. Nei primi anni Cinquanta riesce ancora a compiere una serie di conferenze in Europa e a stendere il progetto di un Libro delle abolizioni, tentativo di costruire una teoria marxista dello sviluppo storico come tendenza all’abolizione di ogni separatezza, ricostituzione della totalità originaria. 13 Poche decine di pagine di appunti per il lavoro futuro di sistemazione teorica di una mole immensa di materiali, frutto di una vita intera dedicata alla militanza e allo studio. Un progetto che non vedrà mai la luce. Nel 1957 Korsch si ammala gravemente, da allora fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1961, il suo sarà un lento, doloroso, progressivo spegnersi a livello fisico e intellettuale.

Considerato lo stato frammentario ed embrionale, poco più di una trentina di pagine, delle Abolizioni, la vera opera conclusiva di Korsch sono le 10 tesi sul marxismo oggi, che rappresentano un vero e proprio testamento politico. Stese nel 1950 come schema di una conferenza a Zurigo e non destinate alla pubblicazione, le tesi compendiano l’intero processo critico ed autocritico del marxismo di Korsch che è stato scritto resta, nonostante tutto e non senza contraddizioni e paradossi “fedele e fermo alle idee di Marx, se necessario contro lo stesso Marx”. 14

Per Korsch non ha più senso alcuno porsi la domanda in che misura sia ancora valida e praticamente applicabile la teoria di Marx (Tesi 1). La realtà stessa del capitalismo è profondamente cambiata. Il dominio del capitale sulla vita degli uomini è diventato totale. Ne consegue che ogni tentativo di restaurare come un tutto la dottrina marxista non rappresenta altro che una “utopia reazionaria” (Tesi 2). Un ritorno all’indietro che non può sortire effetti positivi. Ciò non toglie che importanti elementi della teoria marxista mantengano la loro validità (Tesi 3). Va chiarito dunque che

“Il primo passo per la ricostituzione di una teoria e prassi rivoluzionaria consiste nel rompere con la pretesa del marxismo di monopolizzare l’iniziativa rivoluzionaria e la sua direzione teorica e pratica” (Tesi 4) 15

In questo senso Marx è da considerarsi solo uno dei molti precursori e fondatori del movimento socialista. Altrettanto importanti sono uomini come Proudhon o Bakunin (Tesi 5). La frattura fra comunismo “scientifico” e comunismo “libertario” può essere finalmente colmata. Preliminare è, tuttavia, il riconoscimento che il marxismo presenta numerosi punti critici, quali la sopravvalutazione del ruolo dello Stato o l’identificazione dello sviluppo dell’economia capitalistica con la rivoluzione socialista (Tesi 6 e 7). Proprio su questi basi si è costruita la grande illusione per alcuni, la cinica menzogna per altri della natura socialista dell’Unione Sovietica.

Con il leninismo il marxismo si è trasformato definitivamente in ideologia, utilizzabile nei più diversi contesti e per i più vari obiettivi (Tesi 8 e 9). Il proletariato è stato così definitivamente spossessato della sua teoria. Ma la storia non finisce con il crollo delle speranze nell’URSS socialista e nel ruolo salvifico dell’Ottobre. Il socialismo resta una possibilità. Ma questa possibilità di costruire una società diversa può solo nascere dalla gestione pianificata dell’economia da parte degli esclusi di oggi (Tesi 10). In quali forme e con quali rappresentazioni teoriche sarà la storia a dirlo.

C’è chi ha visto nelle Tesi la manifestazione dell’abbandono definitivo del marxismo da parte di Korsch. In realtà, nonostante la radicalità della sua critica, egli continua a considerare Marx un punto di riferimento fondamentale. In una lettera a Partos, pur densissima di critiche a Marx e al marxismo, egli afferma che se

“l’attuale e futuro capitalismo rimane ancora, per profonde che siano le trasformazioni subite, il «capitalismo», sarà possibile anche in futuro chiamare ancora socialismo-comunismo-marxismo, la teoria e la prassi dell’unico movimento veramente anticapitalistico, per mutate che siano le forme sotto cui esso si presenterà”. 16

Molto tempo dopo, alla metà degli anni Cinquanta, in una lettera inviata a vecchi compagni degli anni dalla KPD egli chiarisce con grande chiarezza di che natura sia il suo rapporto con Marx:

“sono sempre preso dal mio sogno: restaurare teoricamente le ‘idee di Marx’ apparentemente distrutte dopo la conclusione dell’episodio Marx-Lenin-Stalin”. 17

Un’affermazione che pare in piena contraddizione con quanto sostenuto con la tesi 2, ma non è così. Si noti bene, Korsch parla di “idee di Marx” e non di marxismo. Una parola che volendo significare troppe cose, ha finito col tempo per non significare più nulla tanto da apparire oggi una specie di caos di ideologie contrapposte ciascuna delle quali pretende di essere il «vero marxismo». 18 Cosa accomuna Bernstein e Fidel Castro, Labriola e Mao tse Tung, Hilferding e Che Guevara, Rosa Luxemburg e Pol Pot ? In questo senso la storia della seconda metà del Novecento ha dato ampiamente ragione a Korsch.

Più che l’affermazione su scala planetaria delle idee di Marx, il XX secolo ha visto il trionfo del giacobinismo con la sua fede nello Stato rivoluzionario e nella dittatura del partito. Il prezzo pagato per questo trionfo è stato l’annientamento della classe operaia come autonomo soggetto sociale, protagonista della propria emancipazione. Nella sua polemica di inizio secolo con Lenin (e Plechanov) il giovane Trotsky lo aveva in qualche modo intuito.

Ancora una volta l’interpretazione autentica del reale pensiero di Korsch ci è offerta dai ricordi di Hedda, sua compagna di vita e di militanza, che riportiamo qui di seguito a conclusione di questo lavoro:

“ La sua conferenza del 1950, intitolata Dieci tesi sul marxismo, si presta facilmente a malintesi ma non costituiva un ripudio del marxismo. Quelle tesi non erano destinate alla pubblicazione, anche se in seguito io permisi che venissero date alle stampe. Fino alla fine, il perno centrale del suo interesse fu il marxismo. Ma egli cercò di adattare il marxismo, così come lo intendeva, ai nuovi sviluppi (…). L’altra sua preoccupazione principale a quell’epoca era l’ampliamento del marxismo per far fronte all’avanzare delle altre scienze. Pensava che, nella misura in cui la società capitalista si era sviluppata dai tempi di Marx, anche il marxismo dovesse essere sviluppato per capirla. Il suo testo incompiuto, il Manoscritto delle abolizioni, costituisce un tentativo di sviluppare una teoria marxista dello sviluppo storico in termini di futura abolizione delle divisioni che costituiscono la nostra società – come quelle tra le diverse classi, tra città e campagna, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale”. 19

Leggendo queste parole ci è venuto di pensare che a Korsch sarebbe piaciuto il ’68. Vi avrebbe trovato il segno di quella tendenza alla «abolizione delle divisioni» che aveva visto all’opera in Spagna e in cui non aveva mai realmente smesso di credere. Proprio per questo ai giovani del ’68 è piaciuto Korsch. Non poteva essere diversamente per una generazione di giovani rivoluzionari che coglievano la “separazione” come caratteristica fondamentale del dominio ormai totale del capitale sulla specie umana. 20

Qualcuno ha definito il maggio-giugno 1968 come il momento del «disvelamento». Un momento di rottura fondamentale: «l’emergere della rivoluzione, ma non la rivoluzione stessa». 21 Un momento di generale rimessa in discussione dell’esistente che trovava nell’estrema radicalità del pensiero korschiano, così come nelle opere di Marcuse, alimento e stimolo per andare oltre ad una semplice denuncia dell’integrazione delle organizzazioni operaie nell’ambito della società industriale avanzata che in realtà non spiega nulla.

Da qui la fortuna che gli scritti di Korsch hanno avuto in quel periodo, come testimonia anche la sua fugace riscoperta in Italia. Il recupero del “maggio” da parte del capitale mediante un’ulteriore accelerazione della spettacolarizzazione della società da un lato e la degenerazione groppuscolare del movimento con il ritorno immaginario ad un marxismo-leninismo “restaurato” dall’altro, avrebbero determinato il rapido richiudersi già dai primi anni Settanta di questi spazi di ricomposizione e con essi la pressochè totale perdita di visibilità delle idee di Korsch. Eppure in un momento di grande disincanto come l’attuale il pensiero di Korsch, così radicale nella sua critica di ogni visione consolatoria del reale, così estremo nel suo rifiuto di ogni schema preconfezionato, ma anche così carico di speranza può ancora dirci qualcosa. Il suo coraggioso abbandono del marxismo in favore di un recupero radicale delle idee di Marx può ancora una volta parlare alla mente (e al cuore) di una nuova generazione di giovani.



1 Considerato l’ambito di questo lavoro riteniamo di maggior interesse sottolineare rispetto alla reazione fascista, il ruolo controrivoluzionario giocato in Spagna dallo stalinismo. Rimandiamo pertanto il lettore curioso ai seguenti testi: P. BROUÉ-E. TÉMIME, La rivoluzione e la guerra di Spagna, Mondadori, Milano 1980; F. MORROW, L’opposizione di sinistra nella guerra civile spagnola, Samonà e Savelli, Roma 1970; G. ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano 1982; C. SEMPRUN MAURA, Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, Edizioni Antistato, Milano 1976.
2 L. TROTSKY, In difesa del marxismo, Samonà e Savelli, Roma 1969, p. 48.
3 Fedeli alla lettera dei testi di Lenin e Trotsky dei primi anni Venti, i trotskisti di tutte le tendenze per l’intera durata dello straordinario boom economico del dopoguerra hanno continuato in ogni occasione a ripetere che le forze produttive avevano ormai da decenni “cessato di crescere”.
4 Con l’eccezione di alcune parti dell’enorme lavoro teorico svolto nel dopoguerra da Amadeo Bordiga e dai contributi di bordighisti dissidenti come Jacques Camatte.
5 J. CAMATTE, Il capitale totale, Dedalo, Bari 1976, p. 429.
6 G.M. BONACCHI, Teoria marxista e crisi: i «comunisti dei consigli» tra New Deal e fascismo, in Capitalismo e fascismo, cit., p.LIV.
7 K. KORSCH, Perché sono marxista, in Dialettica e scienza nl marxismo, cit., pp. 172-173.
8 Gemainwesen=comunità materiale.
9 K. KORSCH, Approccio non dogmatico al marxismo, in Dialettica…, cit., p. 190.
10 Ivi, pp. 193-194.
11 Sulle teorie di Lewin cfr. A. PALMONARI, Teoria di campo e psicologia sociale, in K. LEWIN, Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, il Mulino, Bologna 1990.
12 K. KORSCH, Costrutti matematici in psicologia e sociologia, in Dialettica e scienza nel marxismo, cit., pp. 100-101.
13 Sul Libro delle abolizioni cfr. R. DUTSCHKE, Lenin rimesso in piedi, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 304-305.
14 G.E. RUSCONI, Autonomia operaia e controrivoluzione, cit., p. XLIV.
15 K. KORSCH, 10 tesi sul marxismo oggi, in Scritti politici, 2, cit., p. 429.
16 K. KORSCH, Lettera a Partos del 25.11.1935, in Marxiana 2, cit., pp.160-161.
17 Citato in G.E. RUSCONI, Autonomia operaia…, cit., p. XLI.
18 P. SOUYRI, Il marxismo dopo Marx, Mursia, Milano 1973, pp. 98-99.
19 H. KORSCH, cit., p. 15
20 “Con la separazione generalizzata tra il lavoratore e il suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività compiuta, ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Con il progredire dell’accumulazione dei prodotti separati, e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione diventano l’attributo esclusivo della direzione del sistema. La vittoria del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo”. G. DEBORD, La società dello spettacolo.
21 J. CAMATTE, Il disvelamento, La Pietra, Milano 1978, pp. 31 e sgg.

Roman Rosdolsky, storia di un marxista critico

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Il Manifesto ricorda Roman Rosdolsky. Ancora fondamentale resta a 50 anni dalla morte il suo «Genesi e struttura del Capitale di Marx».

Yurii Colombo

Roman Rosdolsky, amante fedele dei «Grundrisse»



Quando Roman Rosdolsky muore a Detroit il 20 ottobre 1967 aveva appena finito di correggere le bozze di Genesi e struttura del Capitale di Marx, un’opera a cui aveva lavorato per quasi vent’anni e che uscirà postuma l’anno successivo. Secondo Marcello Musto, quella di Rosdolsky «fu la prima, e anche la principale mai scritta, monografia dedicata ai Grundrisse. Tradotta in molti paesi, favorì la loro divulgazione e circolazione ed ebbe un notevole influsso su tutti i loro successivi interpreti».

Anselm Jappe ha fatto notare che il carattere non meramente filologico della Genesi è da attribuire al fatto che prima dell’esplosione del ’68 «a differenza del marxismo tradizionale, Rosdolsky non vede nelle contraddizioni apparenti della realtà capitalista delle semplici mistificazioni, ma l’espressione di contraddizioni reali. Ciò è significativo per comprendere il feticismo della merce non come fenomeno che appartiene unicamente alla sfera della coscienza, ma come un fenomeno reale».

Grazie a un erudito traduttore di Marx come Bruno Maffi la Genesi fu disponibile in italiano già nel 1970 diventando presto opera discussa sia a livello accademico sia all’interno del dibattito teorico dell’estrema sinistra (si pensi al seminale Marx oltre Marx di Toni Negri o a L’Ape e il comunista delle Brigate Rosse). Malgrado lo straordinario impatto che la Genesi avrà per la divulgazione dei Grundrisse, la biografia del marxista ucraino è rimasta poco conosciuta e solo quest’anno in Germania è stata pubblicata un’ampia biografia (Rosdolsky-Kreis, Mit permanenten Grüssen).



Rosdolsky nacque a Lviv nel 1898 nella parte occidentale dell’Ucraina sotto il dominio austroungarico. La sua famiglia faceva parte dell’intelligencija cittadina e il padre era un famoso etnografo. Roman iniziò a militare nei circoli socialisti già al liceo e poi dopo l’Ottobre, aderì al movimento comunista, di cui sarà uno dei fondatori nell’Ucraina occidentale. Tuttavia la sua adesione al marxismo restò eterodossa e fortemente segnata dal nazionalismo ucraino.

Alla metà degli anni ’20 ruppe con il movimento comunista ufficiale e aderì all’opposizione trotskista, di cui condivideva l’analisi della «rivoluzione permanente»: «Come membro di un popolo ’senza storia’ che aveva solo classe capitalista rudimentale, non potevo sperare nell’instaurazione di uno Stato borghese ucraino.

D’altro canto l’irrisolta questione contadina e l’oppressione nazionale creava un terreno favorevole per il rapido sviluppo delle idee del socialismo rivoluzionario», affermerà in seguito. Il suo interesse per la questione ucraina non scemerà mai. Negli anni ’30, su questa tema, scrisse l’importante studio La comunità di villaggio nella Galizia Orientale e la sua dissoluzione.


Dalla fine degli anni ’20 visse prevalentemente a Vienna dove completò la tesi di dottorato su Friedrich Engels e il problema dei popoli senza storia in cui criticava la tesi del «Generale» secondo cui i popoli slavi erano intimamente reazionari e incapaci di giungere all’indipendenza. Un’opera che il crollo dei regimi dell’est e la rinascita dei nazionalismi hanno riportato alla ribalta (in Italia è uscita per i tipi della Graphos nel 2005).

Sono stati anni particolarmente intensi quelli di Vienna per Rosdolsky. Dal 1926, collaborò con il Marx-Engels Institute di Mosca fino a quando David Rjazanov venne estromesso dall’incarico. Partecipò con entusiasmo all’esperienza della «Vienna Rossa» e conobbe Emily Meder che sarà la compagna di una vita. Dopo l’Anschluss fu espulso dall’Austria e tornò a Lviv.

Tuttavia con la spartizione della Polonia seguita al patto Ribentropp-Molotov, la Galizia finì sotto il controllo sovietico, e Rosdolsky temendo di essere arrestato come trotskista, fuggì a Cracovia. Conobbe qui l’altra metà della «mezzanotte del secolo»: i bambini dell’orfanotrofio ebraico dello stabile adiacente a quello in cui viveva con la moglie, furono deportati dalle truppe tedesche. Da quel giorno, scriverà in una sua memoria, sentirà l’intensa mancanza delle «abitudini di quegli orfani ebrei che avevo iniziato a osservare con curiosità e del suono poco familiare dell’yiddish».

Nel 1942 Rosdolsky fu arrestato a Vienna e passerà il resto del periodo bellico nei lager di Auschwitz, Ravensbrück e Oranienburg lavorandovi come carpentiere. Nel 1947 decise di lasciare l’Austria per gli Stati Uniti nel timore di essere sequestrato dalla Gpu e spedito – come altri suoi compagni – nei gulag sovietici.

Rosdolsky non si integrerà mai nella società americana. In piena era maccartista non riuscì a ottenere nessuna cattedra: svolgerà per il resto della vita l’attività di libero ricercatore. Oltre a lavorare alla Genesi, approfondirà lo studio della politica leninista, e in particolare del «disfattismo rivoluzionario». Abbandonata la politica attiva – della IV Internazionale non condivideva caratterizzazione sociale dell’Urss – le difficoltà economiche portarono lo studioso ucraino ad isolarsi e a lunghe pause nelle sue ricerche. «La tua depressione non mi è estranea», gli confesserà in una lettera Paul Mattick.

In quegli anni Rosdolsky manterrà uno scambio epistolare anche con altri eretici del movimento comunista come Korsch, Frölich, Deutscher e Mandel, il quale gli dedicherà il suo studio sul tardocapitalismo. Quest’ultimo, in un omaggio all’amico ricorderà come «prima di morire assistette con grande gioia a due avvenimenti che confermavano la sua piena fiducia nella vittoria finale delle idee di Lenin e Trotsky… la riapparizione di una opposizione comunista di sinistra in Polonia cristallizzata nella Lettera aperta di Modzelevsky e Kuron e il carattere di massa che assunse la rivolta studentesca contro la guerra in Vietnam».

Dopo la morte, sua moglie Emily tornerà in Europa dove parteciperà ai movimenti sociali e femministi degli anni ’70.


il manifesto – 18 ottobre 2017

Siamo tutti Anna Frank

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Mauro Calabresi

Siamo tutti Anna Frank

L’idea che l’immagine di Anna Frank possa essere utilizzata per insultare qualcuno è talmente arretrata e grottesca da squalificare per sempre chi l’ha pensata. Quel volto è nei cuori di ogni studente che abbia letto il suo Diario e l’abbia avuta come ideale compagna di banco: quella ragazzina ci ha raccontato non la sua morte ma la vita, i sogni, le speranze, il futuro sebbene si trovasse nel cuore della notte dell’umanità. Grazie a lei generazioni hanno compreso cosa è stato il nazismo, cosa abbia significato vivere nascosti, essere deportati e morire in un campo di sterminio.

Quando ieri sera al giornale abbiamo visto la sua foto con la maglia della Roma, usata da un gruppo di ultrà della Lazio per infamare gli avversari, ci siamo indignati come tutte le volte che ci troviamo di fronte alla banalità del male. Ma questa volta abbiamo pensato che è necessario fare un passo in più.

Come è diventato possibile che Anna Frank sia considerata un modo per offendere? Ribaltiamo i piani, restituiamole il suo valore, trasformiamola in un omaggio, non lasciamola sola e in mano all’ignoranza. E allora Anna Frank siamo tutti noi, può e deve avere la maglia di ogni squadra, essere parte della nostra vita. Ogni club dovrebbe farne una bandiera, per rispondere senza esitazione alla deriva degli estremisti delle curve.

Soprattutto oggi che non solo una parte delle curve degli stadi ma una parte della società sta diventando ricettacolo di razzismo, antisemitismo e xenofobia. Perché Anna è la ragazzina che non ce la fa a sopravvivere fino alla Liberazione. Il suo Diario è la trama di una vita spezzata, che diventa parte della vita di tutti noi. Riprendiamocela, non lasciamola nelle mani di chi vuole calpestarla ma continuiamo a leggerla e a dedicarle strade, scuole e biblioteche.


La repubblica – 24 ottobre 2017

Mussolini contro gli ebrei

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L'episodio disgustoso degli ultras laziali, da sempre schierati con l'ultradestra, non nasce dal nulla. Pur contando il regime forti simpatie e appoggi nella comunità ebraica italiana, Mussolini inizia a manifestare atteggiamenti antisemiti ben prima delle leggi razziali e dell'accordo con Hitler. 


Giorgio Fabre

La lunga rincorsa di Mussolini antisemita



Nel maggio 1994 Michele Sarfatti pubblicava da Zamorani, editore specializzato in storia della persecuzione antiebraica, la prima edizione di Mussolini contro gli ebrei. Renzo De Felice era già malato, ma ancora attivo e dirigeva la sua rivista, «Storia contemporanea». E molto incisivo era lo stuolo dei suoi allievi, esponenti dell’establishment accademico e collaboratori di vari giornali. Mussolini contro gli ebrei metteva profondamente in crisi, soprattutto grazie alla precisione e all’incontestabilità della documentazione, le tesi dello storico del fascismo, in particolare la sua Storia degli ebrei. Era una svolta in questo campo, anche di metodo. La reazione fu un silenzio greve sul libro di tutta la potente scuola defeliciana. L’anno dopo De Felice pubblicò il famoso Rosso e Nero (Baldini e Castoldi) su Mussolini e il fascismo, ignorando del tutto questo libro. Si ricorda solo, per converso, una recensione appunto dell’allora nemico di De Felice, Nicola Tranfaglia, su Repubblica. Ma la vita del libro di Sarfatti fu assai difficile.

Egli aveva ricostruito con estremo dettaglio – spesso avendo recuperato carte autografe e lavorando sugli originali – tutte le prese di posizione e le concrete azioni persecutorie del capo del fascismo verso gli ebrei nel 1938: compresa l’elaborazione del Manifesto della razza (l’attribuzione era praticamente una novità) e la preparazione accurata delle leggi antisemite.

Dalla ricostruzione emergeva che il duce aveva condotto di persona un lavoro di una complessità enorme e Sarfatti, passo passo, lo aveva seguito – per quanto era stato possibile – nelle sue varie fasi, con documenti originali e interpretazioni assai innovative. È ovvio che a uno storico come De Felice, che aveva puntato a dimostrare come nel 1938 Mussolini avesse «discriminato» gli ebrei, più che «perseguitarli», una ricostruzione del genere potesse dare fastidio. In un certo senso, Sarfatti agì da «revisionista» nei confronti dello storico italiano accreditato come il massimo esponente italico del revisionismo storiografico. Se ne accorse George Mosse, che fino ad allora sul fascismo italiano aveva seguito in tutto De Felice. Rapidamente (e morto De Felice nel maggio 1996), Mosse fece uno scarto e nel ’97 dichiarò che su antisemitismo e razzismo non dava retta «fino in fondo» allo storico reatino e qualche anno dopo certificò che riteneva Mussolini «un convinto razzista».



Oggi, a quasi un quarto di secolo dalla prima uscita, presso lo stesso editore Sarfatti pubblica una nuova edizione ampliata di Mussolini contro gli ebrei (Zamorani, euro 28,00), 217 pagine invece di 199 e con un corpo più piccolo, in cui aggiunge e illustra diversi nuovi episodi dell’antisemitismo di Mussolini nel 1938: alcuni recuperati e ridiscussi in base ai nuovi studi pubblicati nel frattempo, altri ricostruiti in maniera inedita. Chiude il volume un capitolo sul censimento degli ebrei dell’agosto ’38, che non contiene novità rispetto al ’94.

Il risultato della seconda edizione è la dimostrazione – ancor più forte di quanto si sapesse o si potesse intuire – dell’impegno antisemita di Mussolini: che, come è noto, era un lavoratore indefesso e veloce, ma fu davvero impressionante per l’attenzione e la cura con cui predispose il terreno e poi preparò le nuove leggi contro gli ebrei. Rispetto a vent’anni fa, sappiamo ora che nel 1938 scrisse articoli (in forma anonima) sulla campagna razzista; allertò con anticipo, un mese prima del Manifesto, i ministeri che avrebbero dovuto agire; si preoccupò, fin dal novembre 1937, di avvertire i nazisti della campagna antisemita che si andava preparando in Italia. Si fece affiancare da alcuni «tecnici», i cui ruoli però sono ancora piuttosto opachi; e poi da qualche politico; ma fu lui a ideare e a guidare tutta l’operazione, con fermezza e talora perfino con estrema durezza: come oggi si vede bene dal modo in cui trattò, perfino sbeffeggiandoli, papa Pio XI e la Chiesa.

Viene da dire, quasi in automatico, che tutta questa operatività non poteva essere nata come un fungo, tra la fine del ’37 e quella del ’38. Mussolini agiva in maniera molto diversa da Hitler: era metodico, aveva tempi lunghi di preparazione e di elaborazione, più volte sperimentava e talvolta tornava sui suoi passi, come fece anche nel 1938, quando – a febbraio – preparò il dettaglio dell’azione razzista con cinque-sei mesi di anticipo. Lo aveva fatto anche in altri campi: nel fondamentale e delicatissimo terreno corporativo, che richiese anni di preparazione; o in quello della censura dei libri. È plausibile, quindi, che la preparazione sia stata molto più lunga, anche se magari non continuativa, come del resto anche nel 1938.

In effetti, da altre ricerche è emersa una diversa interpretazione del periodo che anticipò le leggi contro gli ebrei, una preparazione che risale più indietro nel tempo rispetto al 1936-’38. Sarfatti ne accenna, ma concentra la sua analisi sul periodo della persecuzione «pubblica». Eppure è ormai ampiamente documentato che eliminazioni specifiche di ebrei da vari posti di responsabilità furono ordinate a partire dal 1933-’34: accadde nei comuni, nelle province, nei sindacati, negli ospedali, in qualche caso nelle università. Mussolini poté predisporre con cura, ben soppesando e con altri stop and go prima del fatidico 1938, il terremoto che provocò con le leggi razziste. Non solo ci pensò, ma eliminò. È una vicenda su cui continua a emergere nuova documentazione, ma il quadro complessivo di questo «prequel» è chiaro e ineludibile.

Eppure, anche con questi limiti, il libro di Michele Sarfatti continua a restare un piccolo capolavoro della storiografia del Novecento, in una materia difficile e ancora controversa come quella delle leggi razziali. Oggi, questo campo storiografico è diventato un campo di battaglia, soprattutto per le lotte e per le carriere accademiche, e la qualità della ricerca è andata in caduta libera. È naturale che quel libro sia ancora, per molti aspetti, un modello.


il manifesto – 8 ottobre 2017

Se questi sono uomini

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Giorgio Amico

Se questi sono uomini

No, non è colpa della scuola che non fa più leggere il diario di Anna Frank.
Neanche l'ignoranza c'entra qualcosa.
Gli ultras della Lazio non hanno bisogno di andare ad Auschwitz per capire.
L'orrore di Auschwitz lo portano dentro, nella testa e nel cuore.
Nella miseria delle loro vite insignificanti, nella pochezza dei loro pensieri.
Nella totale incapacità d'amore.
Pieni d'odio verso tutto quello che non capiscono, che riflette la loro nullità.
"Ebreo"è la parola magica che apre le porte della cella oscura in cui vivono.
"Ebreo" l'incantesimo che scioglie le catene che paralizzano la loro vita.
"Ebreo"è tutto ciò che loro non riusciranno mai ad essere.
"Ebreo"è il fantasma che tormenta i loro giorni inutili.
"Ebreo"è il male assoluto da esorcizzare, il nemico da abbattere.
"Ebreo"è l'insulto peggiore. Da lanciare in faccia al nemico.
A chi non è come loro, anche solo per il colore della maglia.
Perchè l'ebreo non è uomo.
E anche molto meno di un animale.
L'ebreo è una cosa, che si può impunemente insultare e colpire.
Non è la prima volta che accade.
Così erano gli uomini di Hitler, così i guardiani dei forni di Auschwitz.
Per questo è inutile portarli ad Auschwitz.
Perchè ad Auschwitz vivono già.
Sono uomini questi?
Si. Sono uomini.
E anche fratelli. se tutti gli uomini davvero fra loro lo sono.
Ci vuole molta fede per accettarlo.
O una grande speranza...

Non si muore per amore ma per la miseria dell’amore

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Siamo da sempre convinti che il romanzo poliziesco nelle sue espressioni migliori rappresenti la forma più efficace di rappresentazione della società contemporanea. Oggi riproponiamo un racconto poco conosciuto di Jean-Claude Izzo (1945-2000), uno degli autori più significativi del noir francese.


Jean-Claude Izzo

Non si muore per amore ma per la miseria dell’amore


Da quando aveva acquistato quella grossa agenda, dalla copertina nera, di tela, Coco annotava tutti gli avvenimenti e le sue azioni quotidiane. Anche i suoi pensieri. Soprattutto i suoi pensieri. Quell’agenda gli aveva cambiato la vita. Adesso Coco poteva vedersi vivere e riflettere. Anzi, meglio, poteva valutare con la precisione di un pubblico funzionario il proprio fallimento. Giorno dopo giorno. Bastava che si rileggesse. Alzandosi, prima ancora di prendere un caffè, aveva scritto sulla sua agenda: «Svegliato ore nove e cinquantadue». Si alzava sempre più tardi la mattina, e sua madre non mancava mai di farglielo notare. «Non me ne frega niente» le rispose. «Perché dovrei alzarmi presto, eh? Me lo sai dire?».

Da quando aveva acquistato quella grossa agenda, dalla copertina nera, di tela, Coco annotava tutti gli avvenimenti e le sue azioni quotidiane. Anche i suoi pensieri. Soprattutto i suoi pensieri. Quell’agenda gli aveva cambiato la vita. Adesso Coco poteva vedersi vivere e riflettere. Anzi, meglio, poteva valutare con la precisione di un pubblico funzionario il proprio fallimento. Giorno dopo giorno. Bastava che si rileggesse. Alzandosi, prima ancora di prendere un caffè, aveva scritto sulla sua agenda: «Svegliato ore nove e cinquantadue». Si alzava sempre più tardi la mattina, e sua madre non mancava mai di farglielo notare. «Non me ne frega niente» le rispose. «Perché dovrei alzarmi presto, eh? Me lo sai dire?».

«Potresti…».

«Già, cercarmi un lavoro, non è vero?» tagliò corto lui, dirigendosi in cucina. Tutte le mattine era la solita solfa. «Dovrei fare come tutti quei coglioni, è così? Ecco, adesso prova a dirmi che io non sono un coglione. Io non ho nessuna intenzione di assomigliare a quelli là».
«Non mi piace che continui così, senza far niente. Non mi va che te ne stai in giro tutto il giorno con Luca. Ho paura che…».

«Ecco! Lo sapevo. Stira, dai! Ammazzati di lavoro, come papà». 



Coco se n´era andato sbattendo la porta. Erano mesi, ormai, che andandosene sbatteva le porte. Le porte della vita, una dopo l´altra.

L´agenda gli serviva proprio a questo. Per averne consapevolezza.

Quell´agenda se l´era comprata in una cartoleria del Vicolo della Campana, mercoledì 17 febbraio, dopo aver letto la lettera di Barbara. «Ai tuoi messaggi risponde il silenzio. Io non riesco a chiamarti. Per dirti che cosa, poi? Lo sai, Giovanni, tu fai parte delle persone che non posso risolvermi a perdere, le persone che amo. Però non posso dirti “ti amo”». «Troia!» aveva mormorato, rileggendo la lettera una seconda volta. 

Barbara gli aveva chiesto una pausa. Per riflettere su se stessa, su di lui, su di loro, sulla loro storia. Si conoscevano dai tempi del liceo. Avevano flirtato a lungo. Poi, due anni prima, si erano persi di vista. In seguito, una sera, il 30 gennaio scorso, lei gli aveva telefonato. Non si sentiva bene. Era necessario che lo vedesse. «Vieni, ti prego». Voleva vedere lui, Giovanni Coco. Nessun altro. E Coco sapeva perché. Non era uno qualsiasi, lui. Un quarto d´ora dopo era già davanti alla fontana di Piazza Navona. Impaziente di vedere nuovamente Barbara. L´aveva stretta tra le braccia e poi le aveva sollevato il viso e l´aveva baciata. Lentamente. A lungo. Come due anni prima. Quando l´aveva riaccompagnata al portone di casa sua. «È così semplice?» aveva riso lei. «Sì, è così semplice. Ti amo». 

Erano passati appena otto giorni. Con la punta delle dita Barbara aveva accarezzato la guancia di Giovanni, poi gli aveva dato un bacio furtivo sulle labbra. «Lasciami ancora un po´ di tempo, Giovanni. Soltanto un pochino…». Poi era arrivata la sua lettera. «Perché mai mi faccio viva con te ogni volta che sto male? E perché con te non riesco mai ad andare fino in fondo alla nostra storia, quale che sia?». «Troia», aveva ripetuto Coco. Questa volta a voce più alta. 

Uscendo dalla cartoleria di Vicolo della Campana, era entrato in un bar e aveva ricostruito nei dettagli la sua vita dopo quell´appuntamento del 30 gennaio con Barbara. Al 15 febbraio, sulla pagina degli appunti, aveva incollato la lettera di Barbara. E proprio sotto aveva scritto: «Sono sul punto di innervosirmi». 

Erano passati ormai tre mesi esatti senza ricevere più notizie da Barbara. Dopo la sua lettera non aveva intenzione di rivederla. Neppure di telefonarle. Lui non era uno qualsiasi. Non si sarebbe abbassato a fare una cosa del genere. Che marcisse pure nel suo “mal di vivere”, si era detto. E quando sarà lei a richiamare, le farò vedere io chi sono. Questo, però, non l´aveva scritto nella sua agenda. L´aveva soltanto pensato. E Barbara non richiamò. 



Il 15 marzo, primo “mesiversario”, aveva scritto sulla sua agenda: «Niente. Non mi ha scritto una sola parola. Non mi ha telefonato. Potrebbe anche essere morta. Devo abituarmi a vivere come se ciò fosse normale». Ma non riusciva ad abituarsi. Ogni mattina annotava l´ora alla quale si svegliava. Poi sotto scriveva: «Niente». Il 22 marzo scrisse: «Quante cose non le ho detto. In fondo, il terrore di perderla adesso non nasce dall´ansia di “possederla”, ma dalla paura di non poterle più dire queste cose. Quali siano queste cose, per ora non lo so. Ma si riverserebbero fuori come un torrente se fossi con lei». Scrivere cose di questo tipo gli faceva salire le lacrime agli occhi. E poi, ieri a mezzogiorno, quello stronzo di Luca gli aveva raccontato che Barbara si vedeva con uno. Un francese. Un pittore che viveva a Villa Medicis. 

«Dove vai?» gli chiese sua madre. 

«In palestra».

«Rientri per cena?»

«Non ne ho idea». 

Nella sacca aveva ficcato il fucile di suo padre. E alcune cartucce. Nient´altro. Il fucile e le cartucce. E la sua agenda. Scese le scale, aprì la cassetta della posta. C´erano soltanto bollette e una cartolina di sua sorella, spedita da Marsiglia. «Niente» aveva scritto ancora sulla sua agenda. Niente. «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, non importa quale amore, ci rivela tutta la nostra nudità, la nostra miseria, il nostro essere indifesi, il nostro niente». Aveva scritto queste cose dopo essersi lavato, rasato, vestito. 15 maggio. Santa Giulia, precisava l´agenda. «Santa Giulia, prega per me» aveva poi aggiunto. 

Salì in macchina, una Fiat 128 bianca. La macchina di sua sorella. «Che cos´è questo male incurabile che logora la vita?» si chiedeva. Quella era la sua domanda, la vera domanda. Arrivato in piazza del Popolo seppe di aver preso la sua decisione. Si fermò davanti alla chiesa di Santa Maria e tirò fuori la sua agenda. La appoggiò sul volante e scrisse: «Non voglio morire come uno qualsiasi. Tutti devono sapere come muore un tipo come me». Pensò a Barbara. Anche lei doveva sapere.

Coco fece nuovamente il giro di Piazza del Popolo. Due tizi in Vespa procedevano affiancati. Coco accelerò e puntò dritto su di loro. Il parafango destro della Fiat sfiorò una delle Vespe. Il conducente perse l´equilibrio. La Vespa e il tizio si ribaltarono. «Stronzo!» gli gridò dietro l´altro. Si avvicinarono a lui, con fare minaccioso. Coco fece spuntare la canna del fucile dal finestrino del sedile passeggeri e la puntò loro addosso. I due ragazzi si paralizzarono. E così pure tutti gli altri lì intorno. Coco sghignazzò. Ripartì. Due macchine della polizia a sirene spiegate lo intercettarono all´altezza di Piazza Colonna. «Ci siamo», mormorò lui. Poi si chiese: «Perché morire?». Non si era mai sentito così vivo. Mai così adolescente! Gli passarono per la testa tante parole, tante frasi che non poteva più annotare sulla sua agenda. «Chissà, forse avrò il tempo di scriverle, almeno queste…». Gliene venne in mente un´altra. «Amore e morte. Vecchia storia». 



In Piazza Venezia bruciò un semaforo rosso e non riuscì a schivare un´Alfa Romeo – rossa, come è giusto che fosse – che arrivava dalla sua destra. Coco scese dalla Fiat imbracciando il fucile. Le auto della polizia si fermarono e sei poliziotti si diressero di corsa verso di lui. Sentì in lontananza altre sirene. Sparò un colpo, in alto rispetto alle teste dei poliziotti. «Forza, venite! Venite avanti, banda di stronzi!». Coco sentì i passanti gridare. Poi udì la prima ingiunzione ad arrendersi. Sparò una seconda volta. Questa volta mirò al lampeggiatore della macchina della polizia a lui più vicina. Fece centro e ne provò una certa fierezza. «E ora?» si chiese. «E ora, tutto ciò mi disgusta». 

La prima pallottola gli attraversò la spalla. Il dolore gli strappò un grido. Sparò una terza volta, con gli occhi chiusi. E poi ancora una quarta. Un´altra pallottola gli si conficcò in corpo. «Barbara», pensò, «oggi ne so sicuramente più di te sul dolore». Crollò a terra. «Non esiste il mal di vivere. Esiste soltanto il male. Barbara». 

Traduzione di Anna Bissanti


La repubblica – 9 gennaio 2011

100 anni di Russia attraverso i manifesti della propaganda

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Anche a Genova si ricorda il centenario della Rivoluzione Russa.

Genova -Globo Libri, azienda attiva a Genova da oltre un decennio nell'importazione e distribuzione di libri in lingua straniera, con la collaborazione di Kowalski | Ristorante e Pub dall’Est Europa , ed il supporto di molte realtà culturali genovesi, promuove la rassegna 100 anni di Russia, che si svolgerà a Genova da mercoledì 25 ottobre a domenica 10 dicembre 2017.

Evento principale della rassegna sarà una mostra diffusa di manifesti della propaganda sovietica, dislocata in una serie di spazi cittadini: le librerie L’Amico Ritrovato (via Luccoli 98 r.) e Falso Demetrio (via di San Bernardo 67), il ristorante e pub dall’Est Europa Kowalski (via dei Giustiniani 3 r.) ed il Teatro Altrove (Piazza Cambiaso 1) con la collaborazione di Laboratorio possibile Bellamy.

Saranno decine le stampe dei manifesti - realizzati a partire dal 1917 fino agli anni '60 del secolo scorso - esposti a rotazione e dedicati all’arte, alle avanguardie, al lavoro, alla II guerra mondiale, alla conquista del cosmo, alla diffusione di messaggi sociali e sportivi. La Russia del primo Novecento fu l'epicentro dell’avanguardia europea e mondiale.

Le tecniche grafiche usate da artisti quali Aleksander Rodchenko e Dmitrij Moor per i loro manifesti raccontano accuratamente la propaganda ufficiale del periodo. Furono molti gli artisti dell'epoca che si fecero portatori dei valori della rivoluzione, nella convinzione che essa avrebbe cambiato il mondo, creando una nuova arte, lavorando alacremente e senza sosta a questo processo d’innovazione che durò almeno sino alla presa del potere da parte di Stalin, quando iniziarono ad esser abbandonate le varie forme di arte astratta per un duro ritorno al Realismo. Per molti artisti ciò significò la cancellazione della libertà di espressione.

A supporto delle esposizioni si affiancano vari appuntamenti eterogenei, sia dal punto di vista degli enti coinvolti sia da quello del format: presentazioni di libri, proiezioni cinematografiche, aperitivi e cene a tema “rivoluzionario”, in modo da offrire varie occasioni per focalizzare l'attenzione su questa importante ricorrenza storica:

  • Presentazione del libro Il Lubok. Un'enciclopedia illustrata della vita russa (I Libri di Emil editore) di M.A.Curletto ed E. Buvina (Università degli Studi di Genova). Martedì 7 novembre 2017 ore 17 presso la libreria L’amico ritrovato.
  • Cena sovietica con una selezione di ricette originali dell’epoca, la cui storia verrà illustrata nel corso della serata. Martedì 7 novembre 2017 ore 20 presso il ristorante e pub dall’Est Europa Kowalski.
  • Lectura: Osip Mandel’stam “Quaderni di Voronez” & Arsenij Tarkoskij “Stelle Tardive” (edizioni Giometti e Antonello) a cura di Sara Sorrentino. Venerdì 10 novembre alle ore 18.30 presso la libreria Falso Demetrio.
  • Cineconcerto: proiezione del film Ottobre di S.Ejzenstejn in pellicola 35 mm, musicato dal vivo, pressoTeatro Altrove. All'ingresso del teatro sarà allestita una speciale libreria a cura di Globo Libri. Lunedì 6 novembre 2017 ore 21.15 presso il Teatro Altrove.
  • Presentazione del libro Laika, antologia spaziale a cura di Rebigo Studio di Illustrazione (Genova). Domenica 10 dicembre 2017 ore 19.30 presso il ristorante e pub dall’Est Europa Kowalski.
  • Lo Scaffale rivoluzionario: un corner dedicato a pubblicazioni in russo ed in italiano sul tema della Rivoluzione Russa (storia, arte, propaganda, ecc.) ed alla letteratura russa dal 1917 ad oggi, riproduzioni dei manifesti e delle cartoline della propaganda. Per tutta la durata della rassegna presso la libreria L'Amico Ritrovato, la libreria Falso Demetrio ed il ristorante Kowalski.
  • L’aperitivo rivoluzionario: aperitivo in cui sarà protagonista un cocktail studiato per l’occasione, abbinato ad una piccola degustazione di specialità russe. Per tutta la durata della rassegna presso il ristorante Kowalski(tutti i giorni dalle 19 alle 21).

http://www.mentelocale.it/

Lasciate che i ragazzini tornino a casa da soli

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Riprendiamo l'intervento di Chiara Saraceno che condividiamo totalmente. Siamo l'unico paese in Europa (per non dire nel mondo) a regolamentare per legge l'uscita dei bambini da scuola. Probabilmente anche l''unico paese dove una famiglia cita in giudizio la scuola per un incidente sul percorso casa-scuola e trova dei giudici che le danno ragione. Risultato ovvio: una situazione caotica da cui nessuno (genitori e presidi) sa più come uscire né come gestire. Proposta della ministra: utilizzare i nonni. E poi qualcuno si stupisce che in Europa non ci prendano sul serio.

Chiara Saraceno

Lasciate che i ragazzini tornino a casa da soli


La pretesa che i ragazzini delle medie debbano essere consegnati ai genitori o comunque a un adulto da questi delegato e non possano tornare a casa da soli è un insulto al buon senso, prima che un ulteriore vincolo posto all’organizzazione quotidiana delle famiglie, in primis delle madri. Potrebbe sembrare una pretesa da buon tempo antico, se non fosse che una volta i bambini erano lasciati molto più autonomi e più precocemente, nell’andare e tornare da scuola, ma anche nell’andare ai giardini o a trovare i nonni nelle vicinanze, o a comperare il pane o il latte. Ed i più grandicelli potevano, e dovevano, accompagnare i fratelli più piccoli, senza aspettare di essere maggiorenni, come invece succede oggi.

Di antico, in questa pretesa, c’è l’ovvia aspettativa che nelle famiglie ci sia sempre un adulto — per lo più la mamma — che non ha impegni di lavoro, ma anche di cura di altri familiari, che gli impediscano di trovarsi fuori scuola a metà giornata e di accompagnare i figli non ancora quattordicenni dovunque. Il tutto in un contesto in cui le scuole a tempo pieno sono in via di riduzione anche alle elementari e pressoché inesistenti alle medie. Se si dovesse dunque seguire l’interpretazione che dà la Corte di Cassazione alla norma sull’incapacità degli studenti fino ai quattordici anni, non solo i ragazzini con lo zaino in spalla e lo smartphone in mano ma anche i bambini che cominciano i primi anni di studio non potrebbero più andare a prendere il latte da soli. Perché, se malauguratamente succedesse un incidente, scattarebbe una denuncia per abbandono di minore.

A differenza di quanto ha dichiarato la ministra Valeria Fedeli, i ragazzi non potrebbero imparare a diventare autonomi neppure nel pomeriggio. L’eccesso di protezione, la difficoltà ad accettare i rischi dell’autonomia (ovviamente avendo educato alla stessa), unita alla tendenza allo scarico di responsabilità quando qualche cosa va storta, sono fenomeni ahimè tutti contemporanei e molto accentuati nel nostro Paese.

Le città europee sono piene di ragazzini che vanno a scuola da soli, prendono il tram, vanno in palestra senza essere accompagnati. I loro genitori, i loro insegnanti, le loro collettività non sono più irresponsabili della nostra, solo più fiduciosi nella propria capacità di insegnare a diventare responsabili. Forse sono anche meno disponibili allo scaricabarile. Perché, se un genitore pretende che la scuola riconosca l’autonomia dei ragazzi e l’impossibilità dei genitori stessi di essere continuamente presenti quando i figli si muovono, ma poi è pronto a denunciare l’istituto se qualche cosa succede nel tragitto verso casa, è inevitabile che la scuola si protegga. E imponga, appunto, la presenza della madre o del padre, o comunque di un adulto.

La norma che definisce i ragazzi sotto i quattordici anni legalmente incapaci è stata probabilmente pensata dal punto di vista della loro — cioè dei ragazzini — responsabilità penale, non per tenerli costantemente sotto una campana di vetro. Se invece l’interpretazione giusta è quest’ultima, come sembra di capire dalla sentenza della Corte di Cassazione, la norma va cambiata, come da tempo è chiesto dai presidi, ma non solo. E gli adulti dovranno prendersi la responsabilità, ciascuno nel proprio campo e ruolo, di insegnare ai ragazzi ad essere responsabili, a gestire appropriatamente l’autonomia conquistata.


La repubblica – 27 ottobre 2017

Nel 1975 Ford e Kissinger discussero l’entrata del Pci nel governo italiano

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Pubblicato il resoconto segreto dell’incontro tra il presidente e il Segretario di Stato L’accordo tra comunisti e cattolici ipotizzato da Berlinguer nell’ottobre del 1973.


Paolo Mastrolilli

Ford e Kissinger discussero l’entrata del Pci nel governo italiano


Nel giugno del 1975, almeno per un giorno, la Casa Bianca considera la possibilità di favorire l’ingresso dei comunisti al governo in Italia. La proposta, avanzata dall’ambasciatore a Roma John Volpe, viene discussa nell’Ufficio Ovale dal presidente Gerald Ford, il segretario di Stato Henry Kissinger, e il vice consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft. Alla fine viene bocciata, anche bruscamente, ma è la dimostrazione di un dibattito interno all’amministrazione sul futuro del nostro Paese che finora non era emerso in questi termini, e di una forte preoccupazione per la tenuta della democrazia a Roma.

Il documento che racconta questo episodio è stato pubblicato giovedì sera, insieme ai files sull’assassinio di John Kennedy rimasti finora segreti. Porta la data di giovedì 26 giugno 1975, è classificato «segreto», e descrive un incontro avvenuto nell’Ufficio Ovale tra Ford, Kissinger e Scowcroft. Il tema, molto delicato, è il rapporto con l’Urss, il negoziato per l’accordo Salt, la minaccia dei missili sovietici puntati verso i Paesi occidentali. Nel corso della conversazione, Kissinger solleva la questione del rapporto col Pci: «Volpe vuole cominciare le discussioni con i comunisti in Italia».

La risposta di Ford è fredda: «Io questo non lo capisco». Il segretario di Stato prova a spiegare: «È una questione di politica locale: sarà difficile non includere i comunisti nel governo». Kissinger si riferisce alla loro crescita elettorale, e all’opportunità di coinvolgerli attraverso il «compromesso storico», forse anche per sfruttare la particolare condizione dell’Italia allo scopo di dividere il Pci da Mosca. «Però - aggiunge subito dopo - noi non vogliamo giocare». Ford condivide, e chiude l’argomento: «Sono d’accordo».

La discussione è breve e la bocciatura rapida, ma è molto significativo che la proposta di Volpe sia arrivata fino all’Ufficio Ovale. Anche perché in quei giorni tutti i segnali pubblici andavano nella direzione opposta, e invece l’ambasciatore americano a Roma era così impegnato a considerare il via libera al «compromesso storico» da proporlo all’attenzione del segretario di Stato e del presidente.

Il momento in cui avviene questa discussione è molto difficile. Negli Usa, dieci mesi prima lo scandalo Watergate aveva costretto Richard Nixon alle dimissioni, e l’anno dopo erano in programma le presidenziali poi vinte da Carter. Nell’Italia già insanguinata dal terrorismo, invece, il Pci fa un balzo al 33,5% nelle regionali del giugno 1975, sullo sfondo degli scandali Pike e Lockheed. Il primo, ha rivelato i finanziamenti della Cia ai politici italiani e al generale Miceli, «per passarli ai neofascisti»; il secondo, le tangenti pagate dalla compagnia americana per spingere Roma a comprare i suoi aerei, che trascinano nel fango anche il presidente Leone.

I rapporti che Volpe manda a Kissinger in quel periodo, ad esempio quello del 4 marzo 1976, sono molto allarmati: «Forse gli Stati Uniti hanno toccato il nadir della loro popolarità in Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale». Gli scandali non stanno solo aiutando la sinistra, ma hanno diffuso tra gli stessi democristiani il sospetto che Washington li abbia alimentati per liberarsi della DC.

Il 30 aprile del 1976 il governo Moro presenta le dimissioni, e la sera stessa Volpe invia un documento «segreto» di 29 pagine a Kissinger, con cui chiede di «usare tutte le risorse a disposizione del governo americano» per impedire la vittoria dei comunisti nelle elezioni politiche imminenti. «L’Italia - spiega l’ambasciatore - si trova davanti alla possibilità di veder entrare il Pci nell’esecutivo, attraverso le urne. Se ciò accadesse, sarebbe un profondo choc per il mondo occidentale». Eppure, nemmeno un anno prima, Volpe aveva proposto a Ford di consentire il «compromesso storico», per neutralizzare i comunisti accettandoli nel governo.


La Stampa – 28 ottobre 2017

Ambrogio Lorenzetti. Dall’Annunciazione alla Madonna del latte, l’emozione del realismo

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Di Ambrogio Lorenzetti è conosciuto soprattutto il grande ciclo di affreschi sul buono e cattivo governo. Una grande mostra a Siena ne illustra per la prima volta l'intera opera che ne fa uno dei grandi pittori del medioevo.

Marco Gasperetti

Dall’Annunciazione alla Madonna del latte, l’emozione del realismo



Benvenuti nell’avanguardia del Trecento. E se la definizione vi sembra esagerata, avvicinatevi alle tavole e agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, il «Magnifico» pittore che rivoluzionò l’arte del suo tempo, sfidando il vento dell’incomprensione, con uno sguardo profetico verso il futuro.

Guardatele prima da una certa distanza e con quella visione globale e distaccata che serve a introiettare la struttura dell’opera. E poi, lentamente, passo dopo passo, avvicinatevi sino a individuare i particolari più straordinari e di un realismo, sublimato nell’arte e nella religiosità dei soggetti, molto avanzati per i tempi.

C’è da emozionarsi, sino quasi alla commozione, nell’osservare la Madonna del Latte (vestita di rosso), con il seno quasi deformato dal neonato che guarda l’osservatore come potrebbe fare un qualsiasi pargolo postmoderno davanti alla fotocamera di uno smartphone. La sorpresa si ripete davanti all’immagine di un’altra Madonna con Bambino, custodita al Louvre, dove il piccolo mangia un fico, simbolo del peccato, e che invece Ambrogio nobilita.

    Madonna del latte. Museo Diocesano Siena

Camminando tra le dieci sale, ma meglio sarebbe chiamarle ambientazioni, nelle quali trionfa la mostra «Ambrogio Lorenzetti» (dal 22 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018) visitata in anteprima dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si ha una visione non solo complessiva di questo straordinario campione dell’arte medievale (e non solo), ma si cancella la visione un po’ stereotipata del pittore dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo, il grandioso ciclo di affreschi della Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena.

    Maestà. Museo di arte sacra di Massa Marittima

Lorenzetti si presenta per ciò che è realmente, uno dei tre grandi pittori del suo tempo, insieme a Giotto e Simone Martini (come scrive il Ghiberti) dalla natura innovativa. «Un artista geniale, un intellettuale dall’idea di una pittura nella quale l’intelletto e l’innovazione iconografica sono molto forti — spiega Roberto Bartalini, uno dei curatori insieme ad Alessandro Bagnoli e Max Seide —. Dipinge i fenomeni naturali, il vento, la grandine, la luce, la notte. Dà immagini a idee complesse. Descrive negli affreschi un’Annunciazione che nessuno aveva immaginato, con una Madonna impaurita che cade a terra, così fuori dai canoni che appena finisce la sua opera i committenti la fanno modificare».

    Crocefissione. Städel Museum di Francoforte

Quella di Siena non è solo una mostra svelatrice del genio di Lorenzetti, ma completa. Non solo perché nei dieci ambienti del percorso si trovano le opere dell’artista conservate a Siena (sono il 70% della sua produzione), ma perché è stata arricchita da una serie di prestiti provenienti dal Louvre di Parigi, dalla National Gallery di Londra, dalle Gallerie degli Uffizi, dai Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery. «Con l’obiettivo di reintegrare pressoché interamente la vicenda artistica dell’artista — afferma il direttore del Santa Maria Daniele Pittèri — facendo nuovamente convergere a Siena dei dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città».

La razionale disposizione delle opere e l’inserimento di spazi multimediali accompagna il visitatore a conoscere l’evoluzione di Lorenzetti in un crescendo d’emozioni. La sua modernità ci abbaglia.


Il Corriere della sera – 22 ottobre 2017

Il fantasma della Val Varaita. Riti e costumi delle valli alpine.

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    La Toureto

In alta Val Varaita, nell'antico Delfinato, a capodanno si celebra un antichissimo rito propiziatorio. In piazza viene processato un fantoccio, Lou fantôme (il fantasma), per tutto quanto di negativo è avvenuto nell'anno appena terminato. Il fantoccio viene poi condannato a morte e bruciato. La comunità, così purificata, può iniziare con ottimismo il nuovo anno.

Guido Araldo

Lou fantôme



C’è una borgata in Val Varaita, Piemonte, ai piedi del Monviso, dove un tempo iniziava un piccolo cantone alpino (escarton) noto come la Castellata, formato dalle comunità di Casteldelfino, Pontechianale e Bellino.

In questa terra alpina di frontiera, oggi dimenticata, dove le tradizioni si sono conservate meglio che altrove, per la distanza dai poli industriali, si tiene ancora un atavico rito propiziatorio, a capodanno. La Toureto, questo il nome occitano della borgata situata a quota 1.179 metri sul livello del mare, è un pugno di case nel fondovalle, su uno sperone roccioso dove il sole sta nascosto dietro la montagna per quaranta giorni tra l’8 dicembre (l’Immacolata) e il 17 gennaio (sant’Antonio abate).

In questa borgata quando finisce l’anno i giovani vanno di casa in casa ad elemosinare un po’ di “paio” (paglia di segala) e dopo averne raccolto in quantità sufficiente, si ritrovano in un fienile con un paio di anziani, i maestri, per costruire un grande fantoccio simile a spaventapasseri: lou fantôme.



Il pupazzo, alquanto informe, per quanto antropomorfo, presenta una peculiarità: un grosso attributo maschile. Un simbolo dove affiorano reminiscenze lontane: la forza rigeneratrice della natura che si rinnova, l’inizio di un nuovo ciclo con la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo e, anche, riti propiziatori per un’annata di frutti e raccolti abbondanti. Rievocazione di Priapo…Lou fantôme, una volta ultimato, viene nascosto in un luogo segreto e, un tempo, era vegliato per tutta la notte.

Nel tardo mattino del primo giorno dell’anno lou fantôme appare come per incanto nella piazzetta centrale della borgata, accanto alla fontana. Allora la gente viene a vederlo, quasi un ospite familiare, atteso, prima di rincasare per il tradizionale pranzo di capodanno a base di ravioles tipiche della Val Varaita e del buon vino delle Langhe lontane. Poi, nel pomeriggio, il rullo di un tamburo riempie le stradine della borgata e due “gendarmi”, armati di grossi tridenti, stanno di guardia ai lati del fantôme imprigionato.

Il fantoccio, infatti, sarà processato. Un uomo arcigno, vestito di nero, con mantellina e cappellaccio altrettanto nero: il giudice, siede davanti a un tavolino nel centro della piazza. Tiene di fronte a Sé il grande libro della legge e impugna di maglietto, come nelle solenni aule dei tribunali: intima il silenzio e si fa avanti il pubblico ministero. Al lou fantôme sono imputate tutte le malefatte dell’anno appena trascorso, accuratamente elencate. A sua volta l’avvocato difensore elenca i fatti postivi. Tocca ai testimoni che, a turno, danno libero sfogo alla fantasia narrando fatti stravaganti imputabili al fantôme di cui, l’ultimo, è una storia d’amore finita tragicamente. Inevitabile la condanna a morte.



Comincia allora una strana processione con il tamburino e i suonatori di fisarmonica in prima fila, mentre lou fantôme è portato in spalla, a turno, dai gendarmi con i forconi. Al corteo partecipano gli abitanti della borgata, seguiti dai turisti curiosi, sempre più numerosi negli ultimi anni.

La sfilata si snoda in un lungo giro nelle stradine per approdare in prossimità di un prato, dove lou fantôme viene sistemato in piedi sulla neve, solitamente abbonante in quella stagione. La condanna a morte viene eseguita e le fiamme avvolgono il fantoccio di paglia nell’allegria generale, tra balli e canti occitani accompagnati da abbondanti sorsi di vin brûlé: calda bevanda tipica del Piemonte, ottima per contrastare il freddo pungente. In tal modo, le scintille del rogo si portano via le ultime tracce dell’anno vecchio, in una specie di fuoco purificatore, e la sua cenere, simile a concime, dovrebbe annunciare un’annata proficua tanto per gli uomini quanto per la campagna. Un tempo, dalla forma della cenere sulla neve, si traevano auspici.

La Toureto, la Torretta (borgata Torrette), era un’antica torre di avvistamento, ora inglobata nell’abside della chiesa, situata presso il confine occidentale dell’antico escarton della Castellata, parte del Delfinato; non a caso la località poco più a valle porta tuttora l’emblematico nome di Confine.


L’escarton fu uno straordinario esperimento di libertà alpina, iniziato il 29 maggio del 1343 quando fu firmata la Grande Charte des Libertés Briançonnaises dalla quale gemmò una piccola Svizzera alpina sulle Alpi Occidentali, attorno al Monviso, costituita dagli escartons di Briançon, del Queyras, dell’Alta Val Chiosone, dell’Alta Val Susa di Oulx con Bardonecchia e della Castellata.

Nei secoli la Grande Charte alpina fu sempre rispettata dai re di Francia, fino alla Rivoluzione Francese. All’epoca il territorio, costituito da alte montagne, contava più di quarantamila abitanti e ogni anno i capi dei vari paesi che comprendevano la repubblica si riunivano in un consiglio per eleggere un console che guidasse la comunità. Questi “cantoni”, purtroppo, non ebbero la stessa fortuna di quelli elvetici. Al di qua delle Alpi il magnifico esperimento fu spento dal trattato di Utrecht del 1713 e le “libere valli” del Chiosone, dell’Alta Susa e della Castellata passarono di proprietà, venendo brutalmente fagocitate dal nuovo regno sabaudo di Sardegna dove non c’era posto per le antiche autonomie locali, com’era accaduto vent’anni prima alla città Mondovì e al suo vasto territorio circostante.

Un’ultima annotazione: si pensi che negli Escartons il grado di alfabetizzazione della popolazione era elevatissimo, mentre negli stati circostanti era bassissimo. Nove montanari su dieci nelle alte terre attorno al Monviso sapevano leggere, scrivere e fare i calcoli matematici. Gli antropologi definiscono questo fenomeno, secondo il quale il livello di istruzione e di apertura culturale di una comunità aumentava proporzionalmente alla quota, il paradosso alpino.


(Dal volume Mesi, miti, mysteria)

Il viaggio sulla luna. Storia di un sogno

Beppe Fenoglio, Una questione privata

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Le pagine più belle di Beppe Fenoglio sono diventate cinema. In attesa di vedere il film dei fratelli Taviani proponiamo l'incipit, travolgente, di Una questione privata, il romanzo che ci ha fatto scoprire (e amare) Fenoglio.

Beppe Fenoglio

Una questione privata

La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.

Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.

«Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria».

Il suo compagno si avvicinava, pattinando sul fango fresco.

– Perché hai deviato? – domandò Ivan. – Perché ora ti sei fermato? Cosa guardi? Quella casa? Perché ti interessi a quella casa?
– Non la vedevo dal principio della guerra, e non la rivedrò più prima della fine. Abbi pazienza cinque minuti, Ivan.
– Non è questione di pazienza, ma di pelle. Quassù è pericoloso. Le pattuglie.
– Non si azzardano fin quassù. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
– Dà retta a me, Milton, pompiamo. L’asfalto non mi piace.
– Qui non siamo sull’asfalto, – rispose Milton che si era rifissato alla villa.
– Ci passa proprio sotto, – e Ivan additò un tratto dello stradale subito a valle della cresta, con l’asfalto qua e là sfondato, sdrucito dappertutto.
– L’asfalto non mi piace, – ripeté Ivan. – Su una stradina di campagna puoi farmi fare qualunque follia, ma l’asfalto non mi piace.
– Aspettami cinque minuti, – rispose cheto Milton e avanzò verso la villa, mentre soffiando l’altro si accoccolava sui talloni e con lo sten posato sulla coscia sorvegliava lo stradale e i viottoli del versante. Lanciò pure un’ultima occhiata al compagno. – Ma come cammina?

In tanti mesi non l’ho mai visto camminare così come se camminasse sulle uova.



Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato. I capelli erano castani, ma mesi di pioggia e di polvere li avevano ridotti alla più vile gradazione di biondo. All’attivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e ansiosi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato più che notevoli. Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rapido e composto.

Passò il cancello che non cigolò e percorse il vialetto fino all’altezza del terzo ciliegio. Com’erano venute belle le ciliege nella primavera del quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due. Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le più gloriosamente mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo solida. Il cestino era già pieno e ancora non scendeva, nemmeno rientrava verso il tronco. Lui arrivò a pensare che Fulvia tardasse apposta perché lui si decidesse a farlesi un po’ più sotto e scoccarle un’occhiata da sotto in sù. Invece indietreggiò di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano.

«Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una. Scendi o rovescerò il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia».


Fulvia rise, un po’ stridula, e un uccello scappò via dai rami alti dell’ultimo ciliegio.

Proseguì con passo leggerissimo verso la casa ma presto si fermò e retrocesse verso i ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensò, molto turbato. Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse più tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così».

Poi, guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere».


(Da: Beppe Fenoglio, Una questione privata)

Genova. Marcia della memoria

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Domenica 5 novembre 2017
Anniversario delle deportazione degli ebrei genovesi.
Marcia della memoria

Ore 17.30
partenza da Galleria Mazzini con arrivo presso la sinagoga

interverranno:

Giuseppe Momigliano - Rabbino capo di Genova
Ariel Dello Strologo - Presidente Comunità Ebraica di Genova
Marco Bucci - Sindaco di Genova
Andrea Chiappori - Comunità di Sant'Egidio  

"Sacco e Vanzetti" di Giuliano Montaldo

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Restaurata la pellicola del 1971 di Giuliano Montaldo con Cucciolla e Volonté, e la canzone di Joan Baez. Il film sarà riproposto alla Festa del cinema di Roma il 4 novembre.

Irene Bignardi

Sacco e Vanzetti” cronaca di un successo


Come tante cose importanti, anche il film che Giuliano Montaldo ha dedicato alla tragedia di Sacco e Vanzetti è nato dal caso. Il casuale incontro nel 1970 con un amico che lo aveva convinto ad andare con lui in un teatrino della zona operaia di Sampierdarena, dove si metteva in scena la storia dimenticata di Sacco e Vanzetti.

Da quel giorno, racconta ora il regista, a distanza di quasi cinquant’anni dall’inizio di quell’avventura, la storia dei due anarchici italiani, ingiustamente accusati nel 1920 di duplice omicidio per rapina e finiti sulla sedia elettrica nel 1927 dopo sette anni di prigione per il solo fatto di essere poveri, immigrati e anarchici, dopo un processo monstre e la mobilitazione di tutte le forze democratiche in Usa e ovunque nel mondo per salvagli la vita, quella storia, dice Montaldo, non gli ha dato pace. Ma trovare i fondi per fare un film sulla vicenda di Sacco e Vanzetti sembrava quasi impossibile. Stando ai molti no e agli sguardi di commiserazione dei produttori consultati.

Ma, racconta Montaldo (che della storia dei due fino ad allora non sapeva niente), nel frattempo trovò un appassionato sostenitore, e una fonte sapiente, in un intellettuale del peso di Fabrizio Onofri: aveva trovato un riflesso doloroso nella storia della strage alla Banca dell’Agricoltura del dicembre 1969 e nella successiva colpevolizzazione degli anarchici. Spuntò anche un produttore: Harry Colombo.



Tutto questo, e la storia nella storia, è raccontato nel bel documentario La morte legale di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri, presentato a Cinecittà al centro di una mostra di 40 scatti di scena dall’Archivio di Enrico Appettito. Una iniziativa in cui si sono associati Luce e Rai cinema, la Cineteca di Bologna e il ministero, DG cinema e Cinecittà Studios. Un omaggio alla vigilia, il 4 novembre, della presentazione del film di Giuliano Montaldo in edizione restaurata, e un ricordo dei due anarchici italiani nel 90° anniversario della loro esecuzione e nel 50° della loro ufficiale riabilitazione.

La lavorazione del film è stata complessa e avventurosa. Della vecchia Brockton, Massachusetts, dei tempi di Sacco e Vanzetti (che nel frattempo avevano trovato i loro volti per il film in Riccardo Cucciolla come Nicola Sacco l’operaio, e in Gian Maria Volonté come Bartolomeo Vanzetti il pescivendolo), e dell’America del 1920 restava ben poco. Una buona parte delle riprese fu così effettuata in Irlanda e in alcune zone rimaste intatte di New York. 

Ma il film si svolge soprattutto nelle aule di tribunale e rispetta le regole del courtroom drama, il dramma giudiziario, controbilanciato dai materiali d’archivio e dalle impressionanti scene di folla che documentano quanto profondamente la vicenda dei due italiani avesse toccato la fantasia e le passioni della gente. Sacco e Vanzetti, per taluni simbolo della Minaccia rossa (erano gli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione russa), per altri la speranza di un mondo migliore e più giusto, che invocava anche la canzone cantata da Joan Baez alla fine del film.



Se all’uscita italiana il film trovò un terreno favorevole e un pubblico sensibile e motivato, anche dagli eventi recenti, e se Cucciolla si guadagnò a Cannes, a sorpresa, il premio come miglior attore, negli Stati Uniti le reazioni furono contrastanti e sempre, in realtà, molto politiche e sotto sotto passionali. Così se Vincent Canby, il critico del New York Times, definì Sacco e Vanzetti, senza perifrasi, «non un buon film» ( in realtà risultando chiaramente spiazzato dal fatto di assistere a un grande film civile sull’America non fatto da americani ) Roger Ebert , il critico del Chicago Sun, è rispettosamente e devotamente in ammirazione. E in un gioco per bambini ispirato a un libro di Daniel Curley, Sacco e Vanzetti diventano una sola persona, con i due nomi attaccati in una crasi che dimostra quanto il dramma dei due anarchici sia diventato parte della cultura popolare.


La Repubblica – 30 ottobre 2017

Caporetto, autobiografia di una nazione

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In modo molto meno drammatico, ma altrettanto intenso Caporetto anticipa l'8 settembre. Entrambi segnano un momento di cesura. Il primo fra l'Italia giolittiana e il dopoguerra (che fu fascista, ma poteva anche essere bolscevico, come si resero ben conto i poteri forti che non a caso puntarono su Mussolini). Il secondo tra il monarco-fascismo e la repubblica democratica. Entrambi, poi, sempre più ci appaiono metafore del presente di un'Italia che ha perso ogni spinta propulsiva (come l'Italia giolittiana e quella fascista), ma senza che al momento si delineino prospettive reali di cambiamento e di ripresa. Forse davvero, come scrive Gentile, il centenario di Caporetto dovrebbe essere occasione di un ripensamento complessivo della nostra storia recente.

Emilio Gentile

A 100 anni da Caporetto. Il trauma nazionale

Si suicidò il 4 novembre 1917 il senatore Leopoldo Franchetti. Aveva settanta anni, e ne aveva dedicati oltre quaranta, come studioso e come politico, all’emancipazione dei contadini e del Mezzogiorno, che da giovane aveva percorso a cavallo per conoscere personalmente le condizioni economiche e amministrative delle province meridionali. Di famiglia ebraica livornese, ricco proprietario terriero, conservatore liberale, lasciò le sue terre ai contadini, che le lavoravano, e il suo patrimonio a un istituto di beneficenza. Fautore dell’intervento italiano nella Grande Guerra, si uccise perché affranto dalla catastrofe di Caporetto.

Per lo stesso motivo, fu sul punto di farsi «saltare le cervella» Leonida Bissolati: «È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo con questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo pagare, e scomparire». Bissolati non era un nazionalista: era un socialista riformista, interventista democratico, volontario e combattente a 58 anni, assertore del principio di nazionalità, tanto che dopo la guerra si oppose all’annessione all’Italia di territori dove la popolazione non era in maggioranza italiana.

Il proposito del suicidio non sfiorò il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore dell’esercito, che addossò la colpa della disfatta alla viltà dei soldati e alla propaganda disfattista dei neutralisti. Altri considerarono la rotta di Caporetto uno «sciopero militare», fomentato dai socialisti e suscitato dall’esempio della rivoluzione in Russia, oppure una rivolta dei fanti contadini che versavano maggior copia di sangue nella «guerra dei signori», costretti a combattere e a morire sotto la sferza di una ferrea e spietata disciplina.

Nessuna di queste spiegazioni era prossima alla verità di un disastro che aveva origini e cause esclusivamente militari, anche se la gravità delle sue conseguenze indusse molti contemporanei a considerare la rotta di Caporetto la rivelazione di una profonda crisi morale, che coinvolgeva, nell’attribuzione delle responsabilità, oltre ai comandi militari, l’intera classe dirigente.
«Catastrofi come la presente non si esauriscono in una causa occasionale, ma sono il risultato di fattori complessi, molteplici, remoti», scriveva Giuseppe Prezzolini, interventista e volontario in guerra, all’indomani di Caporetto, in una delle più acute analisi delle carenze militari, politiche e sociali, che avevano reso possibile la trasformazione di una disfatta militare in una catastrofe nazionale, che pareva travolgere l’esistenza stessa dell’Italia unita, mostrando la fragilità delle sue precarie fondamenta statali e morali.



Anche se, un decennio più tardi, un grande storico come Gioacchino Volpe, militante nazionalista e fascista, ironizzava su quanti, per spiegare Caporetto, «la pigliavano di lontano e rivangavano tutta la storia d’Italia, presentandola quasi come teologicamente orientata verso Caporetto», all’indomani della catastrofe, con il nemico che occupava gran parte del Veneto, intellettuali e politici non afflitti da retorica ritennero necessario affiancare, alla resistenza armata dell’esercito, un «esame nazionale» per suscitare una resistenza morale non occasionale ma tale da operare nel profondo della coscienza collettiva. Nel novembre 1917, alcuni studiosi e combattenti di vario orientamento costituirono un Comitato per l’esame nazionale, col proposito di riscrivere la storia italiana dal Rinascimento alla Grande Guerra alla luce della rotta di Caporetto.

La premessa dell’iniziativa non era soltanto scientifica, ma esplicitamente politica, perché i promotori facevano risalire le «responsabilità mediate e profonde» di Caporetto, «a cinquant’anni di mal governo, di corruzione politica, di dittature parlamentari, di menzogne elettorali, di assenza della scuola popolare, di voluto e sistematicamente procurato servilismo in tutti i rami di funzionari, di assenza di dignità, di forza, di volontà nei rappresentanti dello Stato». L’iniziativa ebbe molte adesioni. Benedetto Croce, che pure era stato contrario all’intervento italiano, lodò «l’ottimo proposito di promuovere un esame di coscienza della vita nazionale» perché, avendo da «sempre frugato con animo ansioso e doloroso le pagine della storia d’Italia», aveva potuto «osservare che la storia, la storia vera d’Italia, è quasi ignota a tutti».

Non fu tuttavia con i libri di storia che l’Italia resistette dopo Caporetto fino a Vittorio Veneto, dove concluse vittoriosamente la guerra. Eppure, se vinse, fu perché fu in grado di trarre una lezione efficace dall’esame nazionale al quale Caporetto l’aveva costretta.



Può apparire oggi ingenua l’iniziativa di un esame di coscienza nazionale per fronteggiare una disfatta militare. Eppure, una simile ingenuità fu condivisa, due decenni più tardi, da uno dei grandi storici del Novecento, Marc Bloch, di fronte al crollo della Francia invasa dalle armate hitleriane nel giugno 1940, che certamente fu catastrofe nazionale di più vaste e gravi dimensioni di quella subita dall’Italia con Caporetto. Bloch aveva combattuto nella Grande Guerra e di nuovo era stato mobilitato all’inizio della Seconda guerra mondiale. Anch’egli volle rendersi conto della «strana disfatta», come la definì, del suo Paese, domandandosi: «Di chi la colpa?». E Bloch pensava, come i suoi predecessori italiani dopo Caporetto, che la ricerca doveva svolgersi non solo nel campo militare, ma si doveva scovarne le radici «più lontano e più in profondità».

E sotto l’occupazione tedesca, Bloch scrisse un esame di coscienza in quanto francese, per comprendere «il più atroce crollo della nostra storia», confessando che non affrontava «a cuor leggero questa parte del mio compito. Francese, mi vedrà costretto, parlando della mia patria, a non dirne soltanto bene; ed è penoso dover denunciare le debolezze della madre dolente». L’esame di coscienza portò Bloch a combattere nella resistenza francese e a morire fucilato dai tedeschi il 16 giugno 1944, dopo essere stato per mesi torturato.

A cento anni da Caporetto, a quasi ottant’anni dalla «strana disfatta» francese, gli esami nazionali possono apparire ingenui o anacronistici. Tale può apparire anche il suicidio di Franchetti. Altre catastrofi ha subito l’Italia nel corso degli ultimi cento anni, sia pure di diversa gravità: l’8 settembre 1943; la «Caporetto economica» del 1973; il disfacimento della «repubblica dei partiti» dopo il 1993. Ma non risulta che ci siano stati altri nuovi esami nazionali. O, se ci sono stati, l’Italia non li ha superati. Forse per questo l’Italia vive da decenni sotto il segno di una perenne disfatta. Tentare allora un nuovo esame nazionale?


Il Sole 24ore – 22 ottobre 2017
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