Quantcast
Channel: Vento largo
Viewing all 3486 articles
Browse latest View live

Sulla violenza contro le donne

$
0
0


Non aggiungiamo commenti a questa riflessione. Ci limitiamo a ricordare come già il giovane Marx, spesso tacciato di maschilismo, vedesse nel grado reale di libertà delle donne (e non parliamo di diritti giuridici, ma di vita) il segno della libertà della società nel suo complesso.Ed aveva ragione, perchè nelle insicurezze di maschi disumanizzati che un capitalismo trionfante e senza più limiti rende  fattori di produzione e nient'altro, stanno le radici profonde della violenza e della sopraffazione verso le donne. E' ora anche per i maschi di riprendersi la vita.

Chiara Saraceno

La protesta in rosso e le donne da proteggere


Ancora una volta ci si mobilita contro la violenza e il femminicidio. Con l’hashtag #saranonsarà e #rossopersara, è stata lanciata l’iniziativa dei drappi rossi: vestiti, sciarpe, bandiere rosse da appendere a finestre, balconi, panchine, perché governo e Parlamento considerino il femminicidio non un fatto emergenziale ma strutturale, che avvelena la nostra società e i rapporti tra i sessi e che va affrontato in modo non episodico.

In effetti, a settant’anni dall’accesso delle donne al voto, quindi alla piena cittadinanza politica, la lunga serie di violenze sulle donne e di femminicidi come quello di Sara ci ricorda che per le donne il diritto civile fondamentale, l’habeas corpus, il diritto alla propria integrità fisica e psichica, persino alla vita, è uno dei diritti più insicuri, meno garantiti non solo nello spazio pubblico, ma proprio là dove le donne a lungo sono state relegate, lo spazio delle relazioni private. Non è un fenomeno nuovo, dovuto alla emancipazione femminile, all’accesso alla cittadinanza civile e politica.

È vero che ci sono uomini che non accettano che una donna — una moglie, una fidanzata, una figlia, una sorella — li lasci o abbia una propria professione, proprie amicizie, propri spazi. Ma ci sono anche uomini che fanno violenza, e talvolta uccidono, le proprie mogli o fidanzate anche quando queste accettano di essere sottomesse, vuoi perché non corrispondono comunque alle loro aspettative di uomini- padroni, vuoi perché fare violenza ad una donna è per loro un modo di affermarsi come maschi. La sopraffazione in questi casi si alimenta della stessa subordinazione femminile, della rassegnata accettazione con cui molte donne subiscono le prepotenze degli uomini con cui vivono, che sperino di cambiarli, abbiano paura di lasciarli e/o denunciarli, o pensino che è ciò che loro tocca in quanto donne.



Dire, come si fa spesso, che la violenza maschile e il femminicidio sono la conseguenza negativa e drammatica della maggiore libertà acquisita dalle donne è quindi semplicistico e persino un po’ fuorviante. Anche quando le donne erano (e dove ancora sono) più sottomesse e i ruoli di genere più nettamente distinti (e asimmetrici) c’erano altrettanti, se non più, femminicidi e violenze fisiche contro le donne. Attribuire la causa della violenza degli (o meglio di alcuni) uomini sulle donne alla maggiore libertà femminile rischia, inoltre, di presentare quest’ultima come una perdita secca per gli uomini-maschi e non come una possibilità anche per loro: per sviluppare modelli di maschilità diversi, più ricchi e articolati e meno dipendenti dalla contrapposizione più o meno prepotente alla alterità femminile.

È una consapevolezza che molti uomini hanno. Va al di là della accettazione della libertà femminile, coinvolgendo, appunto, un ripensamento sul maschile. Ci sono anche molti uomini che partecipano all’iniziativa dei drappi rossi. Ma non è ancora diventata consapevolezza socialmente condivisa, tanto meno prevalente. Vi si oppone una nostalgia del buon tempo antico più o meno mitizzato, quando gli uomini erano “uomini veri”, tutti d’un pezzo, l’autorità maschile riconosciuta e legittimata dalle leggi civili e da quelle psicoanalitiche. Con differenze di classe sociale e ceto per quanto riguarda gli spazi e le risorse concretamente disponibili, ma dove la divisione del potere e del lavoro lungo le linee della appartenenza di sesso erano chiare.

È una nostalgia che ispira narrazioni talvolta insopportabili. Si pensi al sospetto di debolezza e incompetenza maschili con cui si tacciano di “mammi” i padri accudenti, o al modo in cui vengono considerati gli uomini nelle coppie in cui lei ha maggior potere, o al modo spesso sottilmente denigratorio con cui sono presentate le persone omosessuali, specie i maschi. Per questo ha un forte potere deterrente rispetto ad una elaborazione pubblica condivisa di modelli maschili più plurali, meno rigidi, perciò anche non imperniati su un modello di rapporto tra i sessi di tipo asimmetrico e basato su rapporti di potere.

Eppure la socializzazione a modalità di essere maschi diverse da quella basata sulla asimmetria di genere è l’unica strada per sconfiggere la violenza contro le donne e il femminicidio; perché non solo le donne, ma anche gli uomini, possano essere più liberi, non resi ottusi nei propri modi di essere e sentire da corazze identitarie difensive. È una strada lunga, che va intrapresa con sistematicità, in famiglia, a scuola, sui media. Nel frattempo, occorre anche mettere in sicurezza per quanto possibile le potenziali vittime di maschi incapaci di pensarsi altrimenti che come controllori delle donne che hanno scelto. A cominciare dal rafforzamento e finanziamento delle reti di sostegno e dei luoghi protetti che in questi anni le donne hanno costruito, spesso senza finanziamenti pubblici.


La Repubblica - 3 giugno 2016

Moriscos ed ebrei. Migranti in fuga dalla Spagna "cristiana" del Cinquecento

$
0
0


I drammi dei migranti di oggi non sono una novità per l'Italia che già nel Cinquecento si vide investita dall'arrivo di masse ingenti di profughi dalla Spagna appena cristianizzata che scacciava la minoranza ebraica con cui l'Islam aveva per secoli pacificamente convissuto. Fu un fenomeno di massa che cambiò i destini (e il modo di vivere) di città come Livorno e Ferrara. Ricordarlo non fa male, perchè la memoria (e la cultura) sono tra i pochi argini disponibili contro le barbarie del presente.

Adriano Prosperi

Quando i migranti erano portatori di ricchezza



Il contesto in cui viviamo è tale da mettere definitivamente fuori uso ogni residuo di idea della storia come percorso ascensionale, progressivo della cosiddetta civiltà europea. Davanti al mare che inghiotte ogni giorno vite umane e alle folle di migranti che si ammassano davanti ai muri alzati dalla paura della nostra sedicente Unione Europea, gli studiosi del passato sembrano aver poco da dire: come l’angelo di Walter Benjamin, quella che si vede della storia è l’immagine di una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine. E tuttavia dallo studio di altre migrazioni di popoli accadute nel passato emergono constatazioni che possono avere qualche interesse per le discussioni attuali: per esempio quella sui conflitti delle cosiddette “identità”.

C’è stato un tempo in cui il Mediterraneo fu già lo scenario di tragedie simili a quelle attuali: accadde esattmente all’epoca in cui la formazione delle grandi monarchie nazionali moderne avvenne al prezzo dell’intolleranza religiosa come strumento per formare una “identità”, cioè un sentimento collettivo di appartenenza. La vicenda si può far cominciare dal 1492, con la migrazione di centinaia di migliaia di ebrei dalla Spagna dove l’unificazione di popoli di culture, lingue e religioni diverse sotto un solo sovrano avvenne al prezzo dell’espulsione delle minoranze religiose.

Seguì tra il 1607 e il 1614 l’espulsione della ancor più numerosa minoranza dei “moriscos”, nonostante che si fosse piegata al battesimo. Fra queste due date la frattura religiosa dell’unità cristiana aveva intanto obbligato numerose comunità europee a spostarsi verso stati dove fosse possibile praticare la loro religione diventata un’eresia per il luogo dove abitavano. Il principio che legava la religione di un popolo a quella del sovrano territoriale , sancito con la “pacificazione religiosa” di Augusta, risolse il problema di come garantire la sopravvivenza di strutture statali davanti alla diffusione inarrestabile di laceranti conflitti religiosi tra le ortodossie in lotta.

Lo studio di quel che accadde allora nel Mediterraneo e in Europa ha proposto scenari tragici ma con qualche dato a favore di chi ritiene che l’afflusso di gruppi umani in cerca di lavoro e portatori di altre culture possa essere un’occasione positiva e di crescita per le società disposte ad accoglierli.

Nel caso degli ebrei sefarditi come in quello dei “moriscos” ritroviamo molti aspetti delle tragedie attuali: navi affondate o respinte dai porti cristiani con un carico umano esposto alla fame e alla peste, uomini, donne e bambini abbandonati su coste ostili, esposti a finire sui mercati del lavoro schiavile e della prostituzione (allora molto fiorenti). Il numero delle vittime fu altissimo. Quantificarlo è difficile, ancor più di quanto lo sia oggi quello degli annegati nel Mediterraneo.



Ma ci furono alcuni casi in cui si aprirono ai migranti possibilità di insediamento. È noto il caso del duca di Ferrara che aprì le porte del suo stato agli ebrei spagnoli e li tutelò dall’intolleranza religiosa seminata nel popolo dalla Chiesa: ne ricavò così vantaggi economici e regalò alla città e allo stato un grande arricchimento civile e culturale. E anche il granducato di Toscana aprì agli ebrei portoghesi in fuga la possibilità di insediarsi nell’area di Livorno : le leggi “Livornine” (1593) ne garantirono la sicurezza. Livorno ne ricavò uno sviluppo economico e culturale che la rese il porto maggiore del Mediterraneo e una vera capitale culturale aperta alle idee di tolleranza dell’Illuminismo.

Quanto ai“moriscos”, le ricerche storiche hanno individuato alcuni, rari casi di apertura, accanto al prevalente sfruttamento selvaggio della merce umana e a una duplice violenza religiosa che si esercitò contro chi, in quanto battezzato, era apostata per l’Islam però veniva intanto rigettato come apostata dagli stati cristiani. Ma non mancarono tentativi di attirarli per ripopolare aree da bonificare e mettere a coltura o rilanciare attività commerciali. E ci furono forme di insediamento diffuso nella grande città (Napoli) o in aree costiere dove furono pacificamente accolti dalla popolazione.

In tutti questi casi la produzione di identità collettive obbligatorie da parte dei grandi Stati nazionali e delle rispettive Chiese dette vita a forme di intolleranza e di rifiuto preconcette che non ebbero nemmeno bisogno per alimentarsi della presenza effettiva dell’”altro” (l’ebreo,l’infedele). Invece l’immissione effettiva di immigrati di diversa cultura e/o religione, ben lungi dal creare conflitti sociali e impoverimento, si rivelò fonte di progresso economico e culturale. 

La regola trova conferma nei movimenti di minoranze religiose interne all’Europa: come quella delle 55 famiglie italiane di Locarno emigrate a Zurigo a metà ‘500 per fedeltà alla scelta religiosa riformata; o quella degli ugonotti francesi che nel ‘600 si spostarono a Ginevra e a Erlangen portandovi un sapere e uno spirito d’iniziativa che dette frutti (si pensi all’industria degli orologi). E ci sono tanti altri casi da prendere in esame per rileggere aspetti poco noti della moderna storia europea e fare i conti con le intolleranze “identitarie” antiche e moderne che la caratterizzano ma anche con gli esperimenti positivi degli innesti che vi furono.

Tutta questa materia si offre oggi come un campo di studio per una storiografia spinta a diventare non più il sapere egoista di culture chiuse ma scienza dell’alterità, “xenologia”.


La Repubblica – 3 giugno 2016

Come guarire le ferite invisibili dell'anima

$
0
0

    Frida Kalho. La columna rota (1944)

Gli animali portano le cicatrici sulla pelle, invece gli uomini sono condannati ad averle all'interno. Il metodo della psicoanalisi nella cura dei traumi: una pagina dall'ultimo libro di Massimo Recalcati.


Massimo Recalcati

Come guarire le ferite invisibili dell'anima

L'esperienza della psicoanalisi si confronta regolarmente con la dimensione della violenza. L'analista rintraccia nel discorso del soggetto le ferite inferte dalla violenza dell'Altro; offese, esclusioni, insulti, rifiuti, tradimenti, indifferenza, silenzi, abusi, aggressività, odio. Quale memoria conserva nell'essere umano le tracce di tutta questa violenza? Nel corpo dell'animale le tracce della violenza dell'Altro sono visibili, appaiono nella forma delle cicatrici più o meno gloriose delle quali il corpo diventa una sorta di deposito. La cicatrice è la forma che può assumere nel corpo animale la traccia della violenza dell'Altro.

Anche nel corpo dell'essere parlante la cicatrice può essere la memoria di una violenza, ma le ferite del parlessere — come Lacan chiama il soggetto — sono tendenzialmente invisibili. La violenza dell'Altro non si manifesta elettivamente attraverso la memoria della ferita, ma solo per la via di ferite che non possono cicatrizzarsi mai del tutto proprio perché invisibili. Nel mondo animale la cicatrice è memoria dell'offesa subita, ma è anche il segno della avvenuta estinzione dell'offesa. Il passato della cicatrice è in questi casi un passato "passato".

Per il parlessere, invece, le ferite invisibili provocate dalla violenza dell'Altro non passano, piuttosto scavano, erodono, bruciano, lasciano tracce mnestiche. La ferita è sempre viva, non cessa di spurgare. Il processo di cicatrizzazione non si compie mai definitivamente perché la ferita non è causata dagli artigli dell'altro animale ostile ma dai significanti di chi ha cresciuto la nostra vita.

Una frase, una parola, un insulto, ma anche un semplice gesto possono avere il potere di far sanguinare il corpo simbolico del soggetto, di provocare ferite impossibili da cicatrizzare, ferite per sempre vive.

Se la cicatrice sul corpo animale è il segno tangibile della memoria del passato, la ferita invisibile prodotta dall'azione traumatizzante del significante sul corpo del parlessere può generare una ripetizione attiva, un passato che non passa, un passato che insiste nel ripetersi sordamente.

La logica della cicatrice del corpo animale risponde all'idea di una archiviazione solo somatica del passato. L'animale porta sul suo corpo i segni delle offese subite ma in questo modo isola e archivia per sempre l'evento dell'offesa; lo incorpora, lo assimila come una parte del suo proprio corpo. Nelle ferite senza cicatrici, invisibili, che ricoprono il corpo del parlessere, la violenza, invece, non è archiviata ma lascia una traccia attiva che agisce la tendenza a ripetere il suo impatto ustionante.


    Frida Kalho, La venadita (1944)

In generale la psicoanalisi affronta lo scandalo della violenza a partire dal concetto di ripetizione: come può accadere che ciò che ha violato il soggetto tenda a ripetersi incessantemente?

Perché la violenza genera la sua ripetizione anziché la sua abolizione? È l'enigma clinico del trauma: perché ripetere quella che per il soggetto è stata evidentemente un'esperienza penosa? Perché non dimenticare, non rimuovere la lacerazione inflitta dall'evento traumatico? Perché — si chiedeva esplicitamente Freud all'indomani della fine del Primo grande conflitto mondiale — i soldati traumatizzati dalla guerra, anziché allontanarsi dai loro ricordi più penosi, sono nell'impossibilità di dimenticare? In quel caso è evidente come la difficoltà per il soggetto consista nel dimenticare ciò che riattiva la ferita, invisibile, aperta dall'evento traumatico. Si tratta del rovesciamento della dimensione estatica della memoria involontaria di Proust, per la quale esiste una dimensione indistruttibile del passato che tende a riemergere e a inondare il presente. Ma queste reminiscenze — questi ritorni del passato perduto — danno luogo a una gioia estatica più che a un turbamento, attivano una colorazione lirica della memoria piuttosto che mostrarne il carattere claustrale e traumatizzante.

Il passato che non si lascia dimenticare, così come entra in azione nel circuito della temporalità traumatica, non dà luogo ad alcuna estasi, né ad alcun ritrovamento del tempo perduto, ma segnala l'impossibilità per il soggetto di liberarsi da un peso opprimente, da una insistenza demoniaca, "al di là del principio di piacere" direbbe Freud, da una compulsione a ripetere che sottopone il soggetto a un giogo perpetuo. […] La violenza è la violenza della ripetizione che esclude il movimento della soggettivazione. È quello che viene messo in luce drammaticamente nelle forme della dipendenza cosiddetta patologica. In questi casi la violenza è provocata dal fallimento della "ripresa" soggettiva della ripetizione. La violenza consiste nel carattere inesorabile della ripetizione.

Per questo Lacan insiste nel presentare il soggetto dell'inconscio come una discontinuità rispetto all'automatismo della ripetizione. Sartre aveva ragione nella sua critica a Freud: la "personalizzazione" dipende dalla "costituzione" ma non è un suo effetto necessario. Ma come si può trasformare la violenza necessaria della ripetizione? In questione, come si vede, è il problema della soggettivazione nel suo rapporto con le procedure di assoggettamento.

Come si eredita il proprio passato? Quando un passato diventa "proprio"? Può un passato diventare "proprio"? Cosa significa ereditare? Cosa significa provenire, discendere, venire dall'Altro singolarizzando questa provenienza? La trasmissione, per esempio, del desiderio da una generazione all'altra non può mai essere una mera ripetizione. Ereditare significa assumere soggettivamente la dimensione simbolica del debito.

Per non ripetere lo Stesso non bisogna cancellare il debito perché tale cancellazione implica inesorabilmente che ciò che non è entrato nel simbolico, come direbbe Lacan, ritorni direttamente nel reale. La violenza è la violenza che esige la ripetizione dello Stesso. «Sono arrabbiata perché non c'è più nessuno con il quale essere arrabbiata », dichiarava una mia giovane paziente in un punto assai avanzato della sua analisi. Solo l'incontro con l'inesistenza dell'Altro — reso possibile dall'analisi — è la condizione perché vi sia una soggettivazione della ripetizione.

La Repubblica – 31 maggio 2016



Massimo Recalcati
Un cammino nella psicoanalisi
Mimesis
euro 20

Ildegarda di Bingen

$
0
0


Mistica, filosofa, poetessa, la badessa di Bingen visse nel XII secolo e illustrò le sue profezie che anticipano Jung.*

Silvia Ronchey

Il Libro Rosso di Ildegarda la donna che volò via dal Medioevo

«Simon Pietro disse loro: Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono degne della Vita! Gesù disse: ecco, io la trarrò a me per renderla maschio, perché anche lei divenga uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni femmina che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli». È il capitolo 121 del "Vangelo di Tommaso", il più famoso dei testi gnostici ritrovati nel 1945 a Nag-Hammadi. L'insegnamento lasciato sepolto dal V secolo nell'apocrifo gnostico bizantino riaffiora in uno scenario medievale tedesco.

Siamo all'inizio del XII secolo, in riva al Reno. La monaca benedettina siede davanti a uno scrittoio, sorretta dall'alto schienale di una sedia. È pronta a scrivere o trascrivere qualcosa: tiene in mano l'occorrente, due tavolette di cera nera a due colonne ciascuna. È nera anche la veste claustrale, su cui è drappeggiato un mantello marrone, e le maniche della cotta bianca stringono i polsi che reggono lo stilo. È lei stessa a ritrarsi così, nella miniatura in cui la grande ruota del firmamento scintilla di carminio e lapislazzulo, schiacciando in basso, in un piccolo riquadro illuminato, il minuscolo autoritratto dell'autrice. Il viso è rivolto verso la parte principale del foglio, che la sovrasta con la visione da cui traboccano "squame di fuoco lucido", a ferirla «sotto forma di scintille».

Ildegarda, badessa di Rupertsberg presso Bingen nell'Assia, studiosa di scienze naturali, di medicina e di musica, nonché dello pseudo Dionigi Areopagita, scrittrice, compositrice, teurga, drammaturga, era dotata di talenti multiformi e affetta da violenti disturbi. «La forza delle visioni misteriose, segrete e stupefacenti » la tormentava da quando aveva cinque anni. Tacere ciò che vedeva e sapeva le aveva fatto trascorrere una giovinezza macerata nell'ansia e diventare col tempo sempre più «misera e debole, figlia di enormi sofferenze, tormentata da molte e gravi infermità corporali», come annota negli incipit dei suoi cosiddetti libri profetici, ora tradotti nella raccolta che consegna integralmente al lettore italiano le sue visioni: lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum (Ildegarda di Bingen, Visioni, a cura di Anna Maria Sciacca, prefazione di Enrico dal Covolo, Castelvecchi).



Dettate da una misteriosa voce e da lei solo compitate, per essere a loro volta trascritte con l'aiuto del vecchio monaco segretario Volmar, le visioni di Ildegarda sono affiancate in due manoscritti – quello di Wiesbaden, perito nell'incendio del 1945 e sopravvissuto solo in copia, e quello della Biblioteca Governativa di Lucca, identificato da Tritemio e ancora oggi consultabile in originale – dalle formidabili esplosioni di forma e colore delle miniature, che risalgono all'autrice e illustrano dal vero i paesaggi di una frastagliata geografia dello spirito.

Nel nastro policromo dell'illustrazione scorrono incessanti le schegge visive, "appuntite, piccole e grandi", di una tradizione universale, si dilatano "sfere d'ombra e cerchi di luce", roteano mandala, si serrano labirinti, si schiudono meandri, e le geometrie astratte si popolano di figure ermetiche e di presenze animali. Un bestiario che si è tentato invano di interpretare, accostandolo ora a quello dell'Apocalissi di Giovanni, ora al medioevo fantastico delle cattedrali tedesche, ora ai bestiari, agli erbari, alle tabulae della tradizione tardoantica, o perfino alle allegorie della Commedia dantesca o al Libro rosso di Jung.

«Nel millecentoquarantunesimo anno dall'Incarnazione di Gesù Cristo, quando avevo quarantadue anni e sette mesi», si legge nella prefazione allo Scivias, «un globo di fuoco abbacinante, proveniente dal cielo aperto, invase tutto il mio cervello e pervase il mio cuore e il mio petto come una fiamma che non ustiona, ma scioglie nel suo calore immenso». Ildegarda udì una voce chiamarla homo: «L'uomo che ho voluto e ho scosso per mio arbitrio e capriccio con meraviglie più grandi dei segreti degli antichi», diceva la voce, «l'ho steso a terra, perché non si rialzasse in esaltazione di spirito. Il mondo non ha prodotto in lui né gioia né diletto, né progresso nelle cose che gli erano sue, perché l'ho privato di qualsiasi aggressività e ostinazione, facendolo rimanere timoroso e spaventato, senza alcuna sicu- rezza di sé, in preda al senso di colpa».

Fu così che Ildegarda si consentì di consegnare alle parole e alle immagini ciò che fino ad allora non aveva «manifestato a nessuno, ma serbato per tutto il tempo in silenzio». Impiegò dieci anni a trascrivere ciò che in quei «momenti rovinosi del suo cuore » lei, uomo, vedeva e sentiva non «secondo l'intelligenza dell'inventio umana e nemmeno secondo la volontà di comporre umanamente, ma secondo il tenore della parola così come è voluta, mostrata, descritta» da un'entità più grande e profonda «che sa, vede e dispone ogni cosa nel segreto dei suoi misteri»: secondo la visione «non del cuore o della mente, ma dell'anima», còlta «non in sonno né in estasi», ma «da sveglia, con occhi e orecchie umani», e però "interiormente", in "luoghi scoperti" dentro di sé. È in questo modo che Ildegarda diventò maschio e realizzò il comandamento gnostico del Vangelo di Tommaso.



Nel secolo di Federico Barbarossa, che consigliò e sfidò, e di Bernardo di Chiaravalle, con cui corrispose e che la ammirò, ingaggiò le gerarchie ecclesiastiche cattoliche con tale coraggio e tanta abilità da non venirne mai considerata eretica, ma anzi eletta a autorità dottrinale e ascoltata nei sinodi. Le sue prediche risuonavano a Treviri, a Colonia, a Liegi, a Magonza, a Würzburg, a Metz; i suoi drammi e poemi sacri nelle chiese di tutta Europa. Era detta la Sibilla del Reno anche per la chiaroveggenza che esercitava in politica, quando imperatori e papi le si rivolgevano a consulto, di persona o nelle lettere ancora oggi conservate dal suo prezioso epistolario.

La scrittura "maschile" di Ildegarda è solo uno degli esempi di quella grande e formidabile tradizione femminile, fino a poco tempo fa misconosciuta o marchiata dal sigillo della pura irrazionalità, che è la letteratura delle mistiche. Ildegarda è solo un combattente, anche se indubbiamente di alto grado, nell'esercito di donne colte e sofisticate, dal carattere libero e dalla prosa superba, che da Eloisa a Margherita Porete, da Angela da Foligno a Brigida di Svezia, da Caterina da Siena a Maria Maddalena de' Pazzi, da Margherita Maria Alacoque a Veronica Giuliani alle due Terese, d'Avila e di Lisieux, ha sfidato le oppressioni della cultura dominante.

Donne che furono giudicate anoressiche, isteriche, forse epilettiche, ma attraverso le quali l'intelligenza e l'indipendenza femminili hanno sfidato secoli di oscurità. «È donna chi non ha l'intelletto maschio che sradica dalla sua memoria tutte le passioni, che sono femmine, chi non sa servirsi di quella sola collera, che è potenza dell'anima distruttrice dei pensieri», aveva scritto nel quarto secolo Evagrio Pontico nelle sue Centurie (47). In questo senso, quella delle sante mistiche è il più grande esempio, forse, di letteratura autenticamente maschile.

*Illustrazioni tratte dal Liber Divinorum Operum di Ildegarda di Bingen



Visioni di Ildegarda di Bingen
Castelvecchi
euro 39

Streghe e modernità

Saint Martin de Corléans ad Aosta. Un santuario megalitico di 4000 anni fa.

$
0
0


Ad Aosta apre dopo anni di lavoro il parco archeologico di Saint Martin de Corléans. Uno straordinario museo che presenta con tecniche modernissime il santuario più antico d'Europa, integralmente recuperato dopo la scoperta casuale del 1969.


Alessio Ribaudo

L’Europa megalitica


Entrare in una macchina del tempo e trovarsi catapultati indietro di seimila anni, avvolti fra magia e mistero. Benvenuti nel parco e museo archeologico di Saint Martin de Corléans ad Aosta che sarà inaugurato il prossimo 24 giugno.

Un viaggio nella storia che inizia con i reperti del Neolitico e arriva all’Età del Bronzo attraversando l’età del Ferro e del Rame. Il sito, grande quasi un ettaro, è unico nel suo genere in Europa ed è stato scoperto casualmente, nel 1969, durante scavi edilizi per le fondamenta di una serie di condomini che dovevano sorgere alla periferia di Aosta. Una ruspa urtò una strana lastra di pietra e si capì che si trattava di una stele antropomorfa di più di quattromila anni fa. Aveva preservato per millenni un vero e proprio «mondo». L’area poi è stata acquisita dalla Regione autonoma Valle d’Aosta, che, nel 1970, ha dato il via a indagini che sono continuati sino a oggi per via della grande area da scavare e, soprattutto, per l’importanza scientifica del sito a livello mondiale.



Il percorso espositivo più che a una classica area archeologica somiglia più a un set di un film di fantascienza: touch screen , fasci laser, didascalie parlanti e grafiche ricostruttive. Così, si ha l’opportunità di approfondire, in tempo reale, tutte le informazioni sui reperti. Per iniziare il viaggio nella storia basta dirigersi verso una passerella che conduce il visitatore sottoterra. Più si scende e più si va indietro nei secoli. Un calendario perpetuo indica l’epoca odierna poi, man mano che si prosegue, altri pannelli ricordano i più importanti avvenimenti storici del luogo, intrecciandoli con quelli del mondo.

Si prosegue così sino a sei metri di profondità e indietro di 6 mila anni ovvero l’età in cui inizia la frequentazione del sito aostano da parte dell’uomo. Finita la passerella, si apre una grande area coperta su cui svetta un imponente dolmen adagiato su una piattaforma triangolare di pietre (forse un simbolo di una freccia o un pugnale) e intorno sepolture e arature usate per il culto. Per immergere il visitatore nella vita dell’uomo preistorico ci sono 500 fari che fanno sorgere e tramontare il sole, permettono di consultare le stelle come facevano gli antenati dei aostani per posizionare i monumenti secondo criteri astronomici. In uno schermo, poi, viene mostrata una giornata tipica in quel luogo tra il 4.000 e il 1.100 a.C.

Continuando la passeggiata nel tempo si sale verso una balconata che si affaccia sugli scavi. In sei diverse sezioni sono esposte stele antropomorfe, tombe, pali rituali, macine, resti di cereali offerti durante le cerimonie sacre, testimonianze della lavorazione dei metalli, della semina di denti umani e della trapanazione dei crani di persone viventi ( eseguite a scopi medici-terapeutici o a carattere rituale).



Infine, ecco le maestose stele antropomorfe, alte sino a 3 metri, che sono dei monumenti celebrativi dedicati al culto di capi guerrieri, eroi o divinità, raffigurati con armi e oggetti forgiati in metallo.

Ora la sfida che attende gli studiosi è quella di capire chi sono i protagonisti di Saint Martin de Corléans. Potrebbero essere discendenti dei cacciatori del Mesolitico, insediatisi nel Neozoico alla fine della glaciazione, oppure popolazioni venute dal Mediterraneo, come suggeriscono alcuni reperti. Inoltre, potrebbero esserci altri villaggi sepolti nei paraggi da riportare alla luce. Il mistero dell’area di Saint Martin ancora non è risolto.


Il Corriere della sera – 14 giugno 2016

Pietra su Pietra. Parola su Parola

La Repubblica ha 70 anni e li dimostra tutti

$
0
0


In “Storia della Repubblica” Guido Crainz sintetizza quanto già esposto nei quattro volumi finora dedicati alle varie fasi della storia d'Italia dal dopoguerra a Berlusconi. Da questa veduta d'assieme emerge l'immagine di un paese in declino.

Giovanni De Luna

Crainz, una galoppata nei 70 anni della Repubblica

A destra c’è un elettorato travolto dal degenerare del sistema dei partiti, in crisi di fronte “all’intrecciarsi al suo interno di corruzione e indifferenza al bene comune, incapacità di governo e privilegi di casta”; a sinistra è accampato un PD “prigioniero di feudatari locali, soprattutto nel Mezzogiorno” e orfano di qualsiasi progetto che lasci intravedere “la bella politica” promessa da Renzi. I sindacati sono diventati “simulacri sbiaditi di quel che erano stati in passato…, privi di quella capacità di misurarsi con gli interessi generali che era stata la forza del sindacalismo italiano, incapaci di orientarsi nelle trasformazioni degli ultimi decenni”.

Queste sconfortate considerazioni segnano l’approdo finale della lunga galoppata che Guido Crainz ci propone attraverso tutti i settant’anni della nostra Repubblica (Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione a oggi, Donzelli, 2016). Un percorso tumultuoso e contraddittorio affrontato con la consapevolezza dello storico di razza, attingendo a un vastissimo repertorio di fonti, conducendoci per mano nelle trasformazioni profonde del nostro paese, restituendoci i tratti salienti della nostra storia politica più recente.

Nel libro oltre alla politica, ci sono anche i film, le canzoni, i romanzi , c’è insomma il vissuto degli italiani. E c’è un continuo rimbalzare dalla dimensione politico-istituzionale a quella dell’economia, della cultura, della società, mostrando quando fitte siano queste interrelazioni, di come sia pigramente consolatorio ogni tentativo di guardare al sistema politico e alla società civile come a due entità rigidamente separate.

Con coraggio Crainz spinge la sua ricostruzione storica fin ai giorni nostri, fino all’avvicendamento tra Berlusconi e Renzi. E su quest’ultimo ci offre il punto di vista dei testimoni del nostro tempo (i giornalisti in particolare). Pure sarebbe interessante misurare su Renzi l’efficacia interpretativa di categorie come quelle della “continuità” e della “rottura”: in questi settant’anni c’è stato qualcosa che somiglii a quanto oggi Renzi si propone, privilegiando in modo esclusivo l’azione di governo? Ed è proprio vero che il rottamatore si è liberato di tutte le ipoteche trasformistiche che hanno segnato il lungo periodo della nostra storia politica?

La Stampa – 28 febbraio 2016




Carmen Spigno, Processi evolutivi

Italiani brava gente spietati nei Balcani

$
0
0


Ricostruita la vera storia dell’occupazione fascista in Montenegro dal 1941 al 1943. Una storia di internamenti e rappresaglie a danno dei civili.

Simonetta Fiori

Italiani brava gente spietati nei Balcani


I cattivi sono sempre gli altri. Così ce la siamo raccontata per svariati decenni a proposito dell’occupazione italiana nel Montenegro. Due anni di assedio, repressione e rappresaglie contro i civili tra l’estate del 1941 e il settembre del 1943. Pagine della storia italiana a lungo rimosse, scivolate sotto i più facili pregiudizi contro i Balcani “terra di violenza”, perché altrimenti come giustificare i crimini commessi dai civilissimi popoli occidentali? A rompere un protratto silenzio, nel corso degli anni, sono state le ricerche tra gli altri di Enzo Collotti e di Davide Rodogno.

E ora un documentato saggio di Federico Goddi disegna il tassello mancante, che s’è poi rivelato il cardine dell’intero progetto fascista nei Balcani. Perché proprio in quel piccolo lembo di terra incastonato tra Serbia, Albania e Croazia il regime mise a punto agguerrite strategie repressive che anticipano d’un anno la famigerata circolare 3 C, comunemente considerata l’atto di inizio della politica della terra bruciata.

Grazie a uno sterminato materiale inedito, rinvenuto negli archivi di tre paesi diversi – Italia, Serbia e Montenegro – Goddi ricostruisce un articolato sistema di campi di concentramento in cui gli occupanti chiusero i civili montenegrini solo sospettati o comunque “indesiderabili perché filo serbi o comunisti”. Una politica d’internamento mirata soprattutto ai parenti prossimi dei ribelli, anche donne e bambini ritenuti colpevoli solo per ragioni di sangue, puniti con la fame e con la sete.

«I civili arrestati costituivano una riserva umana per le rappresaglie », racconta Goddi. A un attentato partigiano, le forze armate rispondevano con l’immediata fucilazione dei civili internati. La recrudescenza della violenza fu dovuta anche alla particolare natura della guerriglia partigiana, temibile per velocità e strategia, «attacchi brevi ma violenti, combinati sincronicamente, così da chiudere in una tenaglia psicologica un nemico in preda al panico».

La reazione non si fece attendere. Già nell’agosto del 1941 i provvedimenti militari ordinano rastrellamenti di civili, case incendiate e fucilazioni in caso di mancata collaborazione. Nella repressione si distinsero in particolare due formazioni militari, la Pusteria e la Venezia, i cui generali s’erano formati nelle imprese coloniali d’Africa. Una tragedia umana che lascia ferite profonde nei nostri soldati: dopo l’8 settembre diverse migliaia tra loro sarebbero confluiti nelle file della resistenza jugoslava.

Il lavoro di Goddi è interessante anche perché per la prima volta offre un’analisi sociale dell’ambizioso progetto di Mussolini. L’unico capace di registrarne l’improponibile disegno fu l’emissario della Banca d’Italia le cui note preannunciano la disfatta.

La Repubblica – 12 giugno 2016

Federico Goddi
Fronte Montenegro
LEG
Euro 26  

Hoffmann, il romantico che batte Freud sui sogni

$
0
0


La letteratura romantica contiene spunti preziosi per lo studio dell'inconscio. Lo testimonia l'interesse di Freud per l'opera di E.T.A. Hoffmann e in particolare per i Racconti notturni.

Giuseppe O. Longo

Hoffmann, il romantico che batte Freud sui sogni


Due secoli fa, nel 1816, uscivano i Racconti notturni di Ernesto Teodoro Amedeo Hoffmann, esponente geniale e bizzarro del romanticismo, scrittore, compositore, pittore e giurista, noto soprattutto per la sua narrativa, il cui tratto più originale è l’introduzione nelle normali situazioni quotidiane di elementi fantastici e soprannaturali: sdoppiamento della coscienza, telepatia, follia, magia e occultismo.

Nei primi decenni dell’Ottocento questi temi esoterici e inquietanti erano largamente coltivati: non dimentichiamo che proprio nel 1816 Mary Shelley concepisce il suo Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo e John Polidori il suo Vampiro. Nei Racconti notturni si assiste all’angosciosa disgregazione della realtà, che trapassa in un mondo assurdo e grottesco. Come dice Ladislao Mittner, in Hoffmann «il rapporto tra l’entusiasmo e la follia, fra il sogno e la smorfia, più che poetico, cioè spontaneo, è deliberatamente provocato; provocato con grandissima abilità. L’alternarsi capriccioso, rapidissimo, spesso quasi inavvertibile, del sogno e della realtà distrugge questa e quello; conseguenza ne è il vuoto, unico vero esito artistico dell’opera hoffmanniana».

I Racconti notturni furono preceduti e seguiti da molte altre opere, in cui l’autore diede libero sfogo alla sua fervida e tumultuosa fantasia, che tuttavia era ancorata a profonde intuizioni psicologiche. Italo Calvino scrisse che la scoperta dell’inconscio avvenne «nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne fosse data una definizione teorica». A Hoffmann si ispirarono molti scrittori, da Stevenson a Poe, da Dostoevskij a Gogol. Anche la musica, passione straripante del nostro, gli deve molto: non solo per le sue composizioni, ma anche per l’influenza esercitata su altri musicisti, in particolare su Jacques Offenbach.



Hoffmann nacque nel 1776 a Königsberg, nella Prussia orientale, e morì ancora piuttosto giovane a Berlino nel 1822. Aveva ereditato dal padre, pastore luterano e giurista, una forte attitudine artistica e dalla madre, ipersensibile e soggetta a depressioni, un carattere incline al fantastico e al visionario. Dopo la precoce separazione dei genitori, visse con la soffocante famiglia materna, in un clima cupo e bigotto che lascerà nel bambino un’impronta indelebile. Conseguita la laurea in legge, intraprese una carriera di funzionario in Germania e poi a Varsavia. Irrequieto e sognatore, fervido lettore, s’interessò di disegno e di medicina, e, in modo professionale, di musica. Nel 1809 pubblicò il suo primo racconto fantastico ( Il cavalier Gluck), seguito da molti altri in cui si riflettono i traumi psichici della sua infanzia ( Racconti fantastici alla maniera di Callot) e il suo interesse per l’occultismo e l’ipnotismo ( Gli elisir del diavolo).

Perseguitato dal timore di diventare pazzo, Hoffmann approfondì l’argomento della follia studiando i ricoverati nel manicomio di Bamberga e le persone che incontrava grazie al suo lavoro di consigliere giudiziario a Berlino. Sempre sull’orlo dello squilibrio, in lui si dissolveva di continuo il confine tra sogno e realtà: tipico in questo senso è L’uomo della sabbia, il più famoso dei Racconti notturni, nel quale il giovane Nataniele, anch’egli come lo scrittore segnato precocemente da incubi e terrori infantili, s’innamora perdutamente di Olimpia. Ma Olimpia è una bambola meccanica di cui Nataniele non riesce a scorgere la vera natura, nonostante le tante prove che agli occhi degli altri sono evidenti. Fin dalle prime righe si respira un’atmosfera orrorifica, fomentata dagli aggettivi (spaventoso, orribile, minaccioso) disposti in un crescendo magistrale che allude alla pazzia, alla magia, agli spettri e che prelude alla tragedia: quando scopre la verità, Nataniele si ammala e poi, in una crisi di follia, si precipita da una torre.

Già questi pochi cenni possono spiegare il grande interesse che L’uomo della sabbia suscitò in due studiosi vissuti cent’anni dopo. Nel 1906 lo psichiatra tedesco Ernst Jentsch (18671919) pubblicò il saggio Sulla psicologia del perturbante, in cui afferma che il minaccioso, l’angoscioso, il perturbante ( Unheimlich), scaturisce dall’incertezza che si prova di fronte a certe entità o in certe situazioni. Secondo Jentsch, tra tutte le incertezze che possono generare un senso di perturbante, ve n’è una in grado di produrre «un effetto regolare, potente e generale, cioè il dubbio se un essere apparentemente vivo sia davvero animato e, viceversa, il dubbio se un oggetto che sembra privo di vita possa in realtà essere animato ». Jentsch indica in Hoffmann un narratore che ha impiegato questo artificio psicologico con notevole abilità, in particolare nell’Uomo della sabbia, dove il lettore viene tenuto sapientemente in uno stato di indecisione sulla vera natura dell’automa Olimpia. Anche il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), s’interessò a questo racconto.



Nel saggio del 1919 Das Unheimliche, Freud si richiama esplicitamente al lavoro di Jentsch, ma trova limitata la sua interpretazione del perturbante fondata sull’incertezza, e preferisce la definizione del filosofo Friedrich Schelling (1775-1854): si dice heimlich ciò che dovrebbe restar nascosto e che invece è affiorato. C’è dunque un chiaro legame tra il perturbante, il sinistro, l’angoscioso e il meccanismo psicoanalitico della rimozione.

Il perturbante si manifesta quando il confine tra fantasia e realtà si intorbida e quando ciò che era considerato fantastico si presenta nella realtà: ciò accade nelle pratiche magiche, ma anche in quell’oscuro reame della meccanica onirica in cui vivevano gli automi descritti da Hoffmann, automi a quell’epoca realmente costruiti da abilissimi artigiani e che, già molto prima dell’avvento dei robot moderni, incarnavano, con esiti goffi e vagamente minacciosi, l’antico sogno di costruire l’uomo artificiale, tentando di imitare l’opera creatrice di Dio.


Avvenire.it – 15 giugno 2016

Tempo storico e tempo messianico. Gli scritti giovanili di Gershom Scholem

$
0
0


Pubblicati gli scritti giovanili di Gershom Scholem. Redatti nell'autoesilio svizzero negli anni della prima guerra mondiale testimoniano dell'incontro con Walter Benjamin.

Giulio Busi

Capire Giona con Scholem


Immaginate una città in cui tutte le luci si spengono alle otto e mezzo di sera. In giro per le strade non rimane anima viva, eccezion fatta per gli stranieri. Poiché è tempo di guerra, e la Svizzera neutrale è un buon posto per sfuggire a eserciti e battaglie, di forestieri a Berna ce ne sono parecchi. Sono loro ad aggirarsi inquieti dopo il tramonto, a discutere, a divertirsi, qualche volta a bere più del dovuto. Gershom Scholem ha appena vent’anni. Se n’è andato dalla Germania per sfuggire a un conflitto che non condivide. In Svizzera, assieme all’amico Walter Benjamin, Scholem studia, sogna, s’innamora. È il consueto turbine di curiosità e d’emozioni dei ventenni. Ma sono tempi straordinari, e i due –Scholem e Benjamin - non sono certo giovanotti qualsiasi.

Irene Kajon, dell’Università la Sapienza di Roma, ha recuperato alcuni scritti giovanili di Scholem, testimonianza di questo biennio bernese (1918-19), e più in generale del lavoro intellettuale del futuro storico della qabbalah durante il periodo bellico. Sono testi brevi, spesso allo stato di abbozzo, con la freschezza che aleggia sugli incompiuti letterari. Scholem è qui ancora brusco, squilibrato, e sciorina una prosa curiosamente in bilico tra filosofia e romanzo tardo-romantico. Si vede che ha letto e amato Nietzsche, e che è andato a scuola di stile da Martin Buber. Ma si coglie anche che vuol liberarsi dai maestri, e battere una strada sua, per quanto faticosa possa essere.

Quando riassumerà questo periodo, nella sua autobiografia Da Berlino a Gerusalemme, dirà di aver creduto che il popolo ebraico si sarebbe potuto rinnovare solo dopo aver incontrato se stesso. Il vero sé, la coscienza collettiva, il mistero della storia ebraica, ecco i temi che animano le pagine di Giona e la giustizia e delle Novantacinque tesi sull’ebraismo e sul sionismo.

    Gershom Scholem (1925)

È forse nella profezia, il nocciolo dell’esperienza giudaica? «Dio è il maestro e il profeta è lo scolaro». Di questa antichissima, enigmatica scuola, il giovane Scholem esplora il metodo: «L’oggetto dell’istruzione – scrive - è l’idea di giustizia. L’educazione è una categoria religiosamente profetica».

Il libro biblico di Giona è così scomposto in una curva, quasi un moto sussultorio che cattura le fasi del racconto. Un comando giunge a Giona. Questi si sottrae, fugge ed è punito. Il movimento, la tensione narrativa s’inabissa, per poi innalzarsi nuovamente nell’inno con cui il protagonista si rivolge in preghiera al Signore. Ninive si converte, ed ecco il centro del libro. Quindi la lite tra profeta e Dio, l’istruzione che questi impartisce al discepolo ribelle, e infine la domanda, che chiude il testo: «Non dovrei, io, avere pietà di Ninive?». Per un simile quesito non c’è risposta, o meglio la soluzione che il giudaismo prospetta, davanti alle strettoie del bene, è l’infinita ripetizione dell’interrogativo.


     Walter Benjamin

Il bilancio scholemiano è lapidario: «Nella risonanza … di questa domanda si chiude, nel non detto, il circolo dell’accadere». Ancora più impervie sono le Novantacinque tesi. Pensate come regalo per il ventiseiesimo compleanno di Walter Benjamin, il 15 luglio 1918, queste proposizioni, polemiche e dense, non furono in realtà consegnate al destinatario. Scholem non era soddisfatto del risultato, che pure è notevole da molti punti di vista. Quanto a concisione e a coraggio ermeneutico, il nostro ragazzo cresciuto in fretta mostra di avere pochi rivali. A cominciare dalla prima – «L’ebraismo va dedotto dal suo linguaggio» – e per finire alla novantacinquesima – «Il nuovo cielo è il cielo senza notte» – le proposizioni sembrano voler misurarsi con il grande Benjamin, in un dialogo degno di cotanto interlocutore.

Vi si trova, in nuce, la dottrina mistico-messianica del Scholem più tardo, e anche qualche balenio del messianismo à la Benjamin. Si consideri, per esempio, l'ottantacinquesima proposizione. «Il tempo del waw inversivo è il tempo messianico», dove una peculiarità grammaticale diventa segno della rivoluzione dei tempi. Come la lettera waw, preposta a una forma verbale, può in ebraico invertirne il valore temporale, così l'età messianica è il rovesciamento della storia. Tutto quello che è stato si redime, così, in quanto deve ancora succedere. Vi ricordate l’Angelus novus, quello che si lancia verso il futuro voltandogli le spalle? È probabile che quel volatile apocalittico, dipinto da Paul Klee e teorizzato da Walter Benjamin, abbia imparato a volare a rovescio in qualche lunga sera di Berna, dopo le otto e mezzo, quando per strada c’erano solo forestieri.

Il Sole 24 Ore – 5 giugno 2016



Gershom Scholem
Giona e la giustizia e altri scritti giovanili
Morcelliana
10 

E i russi dissero: guardatevi da Togliatti

$
0
0


Nel 1963 Claudio Pavone visita l'URSS per lavoro. Nel suo diario il futuro grande storico della Resistenza descrive l’atmosfera di quel Paese nell’ultima fase del disgelo kruscioviano e di come gli interlocutori sovietici si mostrassero spesso più critici verso il regime di quanto non fossero gli esponenti del Pci.

Marcello Flores

E i russi dissero: guardatevi da Togliatti


Nel 1963, un anno prima che Krusciov venisse costretto ad abbandonare il potere in Unione Sovietica, il nostro maggiore storico della Resistenza Claudio Pavone, all’epoca funzionario dell’Archivio di Stato, trascorre un mese in Urss per scambiare informazioni su documenti italiani presenti negli archivi russi. Proviene da Karlovy Vary, in Cecoslovacchia, dove vi è stato un convegno di storia della Resistenza cui hanno partecipato numerosi studiosi italiani.

Il diario tenuto nel corso di quel mese, dettagliato e scritto in modo semplice ma ricco di informazioni, viene ora pubblicato nella sua interezza con il titolo Aria di Russia (Laterza), a darci un’immagine viva e autentica dell’ultima fase del periodo kruscioviano (non si capisce perché l’editore, nella controcopertina di presentazione, parli di un mondo «non più staliniano, ma non ancora attraversato dal disgelo di Krusciov», dal momento che quel disgelo stava invece proprio per terminare).

I resoconti di viaggio nell’Urss sono stati una fonte ricchissima (a volte quasi unica) non solo per conoscere meglio le vicende di quel Paese, ma come termometro dei rapporti tra mondo occidentale e mondo sovietico, tra Ovest ed Est, come specchio delle speranze riposte nel comunismo o delle delusioni da esso causate, come barometro del rapporto tra il comunismo europeo e quello di Mosca o del confronto tra sistemi politici e sociali contrapposti che si aprono, però, l’un l’altro proprio negli anni successivi alla morte di Stalin.



Uno degli ultimi contributi allo studio dell’immagine occidentale dell’Urss — ma con la notevole aggiunta del ruolo attivo svolto dalle istituzioni sovietiche per favorire e plasmare la percezione e il giudizio dei visitatori — è stato quello di Michael David-Fox: capace di delineare il meccanismo di «diplomazia culturale» iniziato negli anni Venti e rafforzato e istituzionalizzato nell’epoca di Stalin, che permise di fare interagire la dimensione interna e internazionale del sistema sovietico. Dedicato soprattutto al periodo staliniano, il libro getta qualche illuminante occhiata anche negli anni Cinquanta, quando la costruzione delle società sovietiche di amicizia e rapporti culturali con i Paesi stranieri crea le premesse per rapporti stabili, anche di tipo accademico, quali quelli di cui profitterà Pavone per il suo viaggio.

Qualche anno prima era uscito un libro di Ludmila Stern, cresciuta in Urss negli anni Sessanta e Settanta, che intendeva capire come mai i suoi nonni — che avevano attraversato le peripezie dello stalinismo, compresi prigione e persecuzioni, ed erano potuti uscire dall’Urss solamente nel 1982 — avessero voluto da giovani andare nel Paese dei soviet e si fossero perfino convinti a spiare per il Cremlino, restandone presto totalmente delusi e colpiti. Allo studio dei grandi intellettuali europei affascinati dal comunismo sovietico, Stern aggiungeva l’analisi degli strumenti messi in atto dal regime di Mosca per sedurre gli scrittori occidentali, per manipolarli, per convincerli a un atteggiamento che tralasciasse dubbi e critiche che pure molti di loro non riuscivano a nascondersi.

Per quanto riguarda l’epoca della guerra fredda sono mancati studi e analisi dei «viaggiatori» che hanno lasciato il loro racconto della Russia poststaliniana, anche se vi sono stati studi formidabili — purtroppo non tradotti in italiano — che hanno esaminato gli aspetti più diversi di quella «guerra fredda culturale» che, iniziata già negli ultimi anni del dittatore georgiano, si protrasse negli anni di Krusciov e terminò di fatto con la grande svolta internazionale (sul piano della cultura) della fine degli anni Sessanta.

Esempi di grande capacità analitica e di giudizio, ma anche di racconto affascinante, sono i due libri che a distanza di qualche anno scrisse David Caute, che aveva iniziato la sua carriera di studioso proprio occupandosi dei fellow-travellers (i «compagni di strada») che spesso avevano trovato nei loro viaggi in Urss conferma o delusione delle proprie attese. I due libri di Caute sulla guerra fredda culturale hanno al centro — il secondo in modo esplicito — la letteratura, che costituì uno degli strumenti più potenti perché il confronto Ovest-Est, il giudizio sul comunismo e sul capitalismo, la propaganda culturale potessero giungere a un grande pubblico cercando di influenzarlo, tanto al di qua che al di là della cortina di ferro. Con il risultato di un condizionamento reciproco molto più ricco e produttivo, favorito da quella parziale apertura che il disgelo kruscioviano aveva permesso alla cultura sovietica.



Proprio la mancanza di una documentazione ampia e articolata di memorie e testimonianze di viaggio in Urss negli anni del disgelo rende il diario di Pavone una fonte di particolare interesse, perché scritto a caldo sul momento e non frutto di una rielaborazione successiva. L’autore annota con frequenza la «luce tersa» e il contrappunto di «nuvole bianche e lontane», forse influenzato dalla lettura del Dottor Živago , uscito qualche anno prima e oggetto di aspre polemiche, in cui Boris Pasternak offre immagini splendide di paesaggi russi degne della tradizione tolstoiana: quel Pasternak di cui discute con il giovane archivista russo Papavian, la sua guida quotidiana, che pure non ha potuto leggerlo perché proibito, ma di cui nutre grande stima, e che parla con finezza di Pratolini e Piovene, Moravia e Pasolini.

Gran parte del racconto di Pavone è una bella narrazione «da turista»; come è dettagliato il susseguirsi di incontri professionali, la visita agli archivi e il lavoro di collaborazione per il quale era stato invitato. La parte più interessante, anche oggi, resta il riassunto delle discussioni avute con gli storici e archivisti russi, il timore di offenderli con giudizi troppo negativi sull’Urss e la scoperta che in molti di loro l’atteggiamento critico è più avanzato e consapevole di quello di tanti intellettuali legati al Partito comunista italiano.

Le conversazioni con gli amici russi riguardano Stalin e il suo ruolo storico, la limitatezza delle critiche di Krusciov, le reazioni del movimento operaio europeo, le posizioni dei comunisti cinesi: «Sento allora il bisogno — ricorda Pavone — di parlare delle ambiguità del Pci e della sua doppia anima»; mentre in un’altra occasione è Fridman, un traduttore dall’italiano, a dire: «Sfogatevi a parlare finché non arriva al potere il compagno Togliatti», rimarcando scandalizzato che il capo del comunismo italiano ha affermato in un recente discorso «che la libertà di stampa esiste in Italia solo sulla carta».


Il Corriere della sera/La Lettura – 12 giugno 2016

Faisons le point de la situation

Ordo ab chao. Interpretazioni del mito

$
0
0


Il mito come mezzo per dare ordine e senso ad una realtà caotica.


Mauro Bonazzi

C’era una volta il caos, e il mito vinse


L’infinita sequenza di cose ed eventi, che compone il flusso della nostra esistenza intrecciandosi con quella degli altri, ha un senso o è soltanto una combinazione casuale di fatti isolati, come dune di sabbia che si creano e disperdono su una spiaggia? Figlio di un’epoca frenetica, ossessionata dall’angoscia della futilità, James Joyce aveva le idee ben chiare in proposito, quando scrisse l’ Ulysses . Non è vero che tutto è accidentale; persino la giornata — mediocre, apparentemente inutile — di un impiegato qualsiasi in un qualsiasi ufficio di Dublino (Milano, Roma, Catania) rinnova qualcosa che c’è già stato e che di nuovo sarà, ripete un disegno che gli dà senso e valore, è un’impresa non meno eroica di quella di Odisseo. 

Ci sono schemi ricorrenti, strutture costanti nella vita degli uomini e dell’universo. Sempre in cerca dell’impresa estrema e mirabolante, del gesto di rottura che salva il mondo, non vediamo la bellezza del quotidiano, di ciò che si ripete sempre uguale, del sole che sorge tutte le mattine e degli uomini che tutti i giorni si avventurano nel mare dell’esistenza. Se sapremo accorgercene, potremo riscoprire le trame segrete che innervano le nostre giornate.

Erano le idee che, in quegli stessi anni, stava maturando anche un grande studioso del mito greco, Walter Otto. Perché questo è il mito: la convinzione che c’è un ordine dietro all’apparente frammentarietà degli eventi, e che il particolare, l’individuale — noi, nella nostra presunta irripetibilità — si comprende solo all’interno dell’intero di cui fa parte. Non esiste la fetta se non c’è la torta. Bisogna essere moderni per capire le sfide dell’antico.

Scritto in uno stile chiaro, Il volto degli dèi (Fazi) è un saggio breve, erudito, e molto attuale. Il mito è racconto. Linguaggio e parole insomma: nel Novecento non si è discusso che di questo. Oggi se ne parla molto meno, convinti che contino le cose e non le parole. Così ognuno attribuisce alle cose il significato che vuole e la realtà assomiglia a uno specchio rotto che riflette tante immagini discordanti. La realtà passa anche per le parole che la dicono, e il mito è un modo per mettere in ordine il mondo, dare forma al caos: racconta le cose per farle venire all’essere, scrive Otto, e progressivamente si dispiega davanti a noi lo spettacolo meraviglioso dell’universo.



Naturalmente, il mito non è soltanto ricerca dell’ordine, come se si trattasse solo di un primo e incerto tentativo, che poi scienza e filosofia perfezioneranno con ben altri mezzi, sostituendo all’idea di un destino imperscrutabile la regolarità delle leggi di causa ed effetto. Il mito è anche la pretesa che quest’ordine sia divino, sacro.

Servono, oggi, simili rivelazioni? Forse no, penseranno in molti, magari con qualche buona ragione. Ma del mistero, della capacità di stupirsi per l’infinita ricchezza di ciò che sta intorno a noi, c’è ancora bisogno, e tanto. «In momenti particolari succede anche a noi che di fronte ai fenomeni di ciò che ci circonda, siano essi alberi, animali, monti, acque, avvenimenti celesti o le condizioni o gli eventi della vita umana, ci troviamo come afferrati e proviamo un brivido, come se dal suo abisso volesse rivelarsi qualcosa che oltrepassa ogni nostra conoscenza e comprensione».

Non si tratta di fuggire nell’aldilà di una trascendenza irraggiungibile, ma di riscoprire la potenza vitale, e la bellezza, di ciò che ci circonda — «l’essere nella pienezza della sua manifestazione», come scrive Otto. Non sono solo ingenue superstizioni: il mito ci ricorda che non tutto è a nostra disposizione, perché non possiamo tutto. La terra è troppo grande per essere solo nostra. E se invece di volerla piegare ai nostri bisogni, impareremo a comprenderne il ritmo, e i cicli che ne regolano la vita, riconoscendoci come parte di un insieme più vasto, la lezione del mito non sarà stata vana. Lo ha detto bene Friedrich Hölderlin: «È un’eterna serenità, una gioia divina poter porre ogni singola cosa ov’essa appartiene, nel luogo del tutto».


Il Corriere della sera/La Lettura – 19 giugno 2016

Una sconfitta meritata

$
0
0


L'arroganza rende ciechi. Si potrebbe leggere così il risultato elettorale delle amministrative. L'avevamo già visto alle regionali in Liguria. Lo rivediamo oggi in Italia (e a Savona). Con un partito (il PD) ostaggio del suo leader e di notabili locali incapaci di comprendere lo stato d'animo della gente. Un partito privo di identità che ha tagliato le sue radici nella società ed è tenuto assieme solo dalla gestione (spesso molto disinvolta) del potere.

Norma Rangeri

Una sconfitta capitale

Il numero clamoroso che crolla in testa a Renzi sarebbe da scrivere a caratteri romani perché si tratta della valanga 5Stelle che ieri si è abbattuta sulla Capitale con percentuali bulgare. Le prime proiezioni sfioravano il 70% per la giovane Raggi, a vanificare la fatica di Sisifo del povero Giachetti, doppiato dai consensi della futura sindaca di Roma.

È la prima donna nella storia ad agguantare il governo della Capitale. E non c’è dubbio che nella scelta di far correre due donne in città importanti del paese, Raggi a Roma e Appendino che vince a Torino, c’è una marcia in più del Movimento 5Stelle.

Si compensa l’inesperienza di queste future prime cittadine (hanno alle spalle una consiliatura nei precedenti governi comunali), con l’attenzione alla domanda di cambiamento radicale reclamato dalla cittadinanza: specialmente, come si è visto dalla geografia dei quartieri, di quella parte della società che paga i prezzi più pesanti della crisi.

La pesante, e inaspettata, sconfitta di Fassino a Torino è l’altro risultato che mette il piombo all’avventura nazionale di Renzi. Cade proprio sul fronte torinese la linea d’attacco del renzismo-marchionnismo rappresentata da un renziano ante-litteram come Fassino, antico dirigente del Pci-Pds-Ds-Pd, il partito che oggi perde una città che guidava da più di vent’anni.

E neppure la difficile vittoria di Sala a Milano, raggiunta con fatica e probabilmente ottenuta grazie al soccorso rosso della sinistra e dei radicali, riesce a pareggiare il pesante debito elettorale del partito democratico.

Con la conferma piena della vittoria di De Magistris a Napoli, il Pd di Renzi esce dal match delle urne come un pugile suonato, perché ai risultati dei ballottaggi va affiancato quello del crollo registrato dal Pd già al primo turno. Dalle europee del 2014 sembra passata un’era geologica.

È basso ma non inedito il dato dell’affluenza che si profila intorno a un 50% dei votanti. Le elezioni comunali, un tempo le più partecipate, fin da quando inaugurarono, nel 1993, l’elezione diretta dei sindaci, oggi si rivelano poco amate e meno frequentate dagli elettori italiani. E tutto fa pensare allo scenario possibile dell’Italicum, quando ci potremmo ritrovare in una situazione analoga alle elezioni politiche, con una nuova legge elettorale che prevede il ballottaggio senza nessuna soglia per il premio di maggioranza. Configurando così un governo nazionale espressione di una minoranza di votanti. Un obiettivo del resto perseguito con tenacia e perseveranza da Renzi, politico allergico alla filosofia decoubertiana, l’importante per lui non è partecipare ma vincere. Le urne dicono che da solo perde. La strategia dell’autosufficienza fa solo terra bruciata.


Il Manifesto – 20 giugno 2016

Melville-Hawthorne: l'incontro da cui nacque la letteratura americana

$
0
0


Una grande amicizia legò Melville e Hawthorne. L'autore di Moby Dick ebbe sempre un atteggiamento di grande ammirazione per la scrittura dell'amico da cui derivò non pochi stimoli. Il loro incontro rappresentò uno dei pilastri della nascente letteratura americana.


Pietro Citati

Melville stregato da Hawthorne


Chi conobbe Nathaniel Hawthorne, negli anni trascorsi negli Stati Uniti o nel corso dei suoi vagabondaggi in Inghilterra, in Francia e in Italia, credette di incontrare il più delicato e raffinato gentiluomo della Nuova Inghilterra: dove era nato, il 4 luglio 1804, da un’antica famiglia puritana.

Teneva moltissimo, talora persino troppo, alle «maniere irreprensibili»; e se qualcosa lo urtò in Herman Melville, suo grande amico, fu il fatto che fosse «un poco eterodosso in materia di biancheria intima». Come ogni gentiluomo, nascose la sua vita, i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue inclinazioni più intime dietro un muro di invincibile riserbo. Durante le conversazioni, stava sempre girato di fianco, volgendo il capo, senza mai guardare in viso l’interlocutore. Parlava poco, e a voce bassa, di viaggi, di avvenimenti quotidiani, di piccoli faits divers , «evitando di mantenere i propri sentimenti in superficie e a disposizione di tutti».

Se vogliamo compiere un passo avanti nella conoscenza di Hawthorne, dobbiamo leggere il Diario (a cura di Agostino Lombardo, Neri Pozza 1959) e Blithedale. Il romanzo di Valgioiosa , appena pubblicato da Castelvecchi. La grazia di Hawthorne era così squisita ed estenuata che sembrava nascere dal nulla, inseguire ciò che resta nell’aria dei sogni, e imitare i gesti di qualcuno che non è mai esistito. La sua patria non era qui, sulla terra. Viveva qui come se abitasse altrove: perché su questa terra, tra tante tenebre e tanti spettacoli spaventosi, vi è qualcosa che fa ricordare il cielo.



Come scrisse Henry James, pareva uno straniero. «In verità per molti il suo tratto più alto e commovente resta la sua estraneità, dovunque si trovasse. Egli sta fuori di tutto, è uno straniero in ogni luogo». Hawthorne si osservava come fosse un altro. Usciva dal proprio io per guardarsi; e questa scissione dell’io provocava in lui un’autoironia connaturata e profonda. Quest’uomo, che ci era parso così fermamente ancorato nel cielo, ci appare ora incerto di tutto: senza forza e senza sicurezza. Veniva assalito da un vertiginoso sentimento di irrealtà; e gli sembrava di essere un fantasma che corteggiava senza successo altri fantasmi. «Attraverso uno di questi momenti», egli scrisse, «in cui lo spettacolo della vita reale oscilla, stride, crolla, e pare sul punto di essere infranto e disperso».

Talvolta, la nostra impressione è più angosciosa. Con una specie di raccapriccio, Hawthorne avvertiva un senso di freddo in mezzo al calore, e una luce smorzata nella massima luminosità del sole. Capiva che un gelo mortale abitava la profondità del suo cuore: qualcosa, in lui, si era smarrito tra i deserti del polo; portava il ghiaccio nel sangue. Questo era il suo segreto definitivo: il segreto che lo teneva in disparte da tutti gli uomini e da tutte le cose; e lo induceva a chiedersi se il gelo fosse l’unica ragione della sua esistenza, oppure il più grave dei suoi peccati.

Quando Hawthorne pubblicò una raccolta di racconti, Muschi da un vecchio presbiterio , Herman Melville scrisse una lunga recensione sul «Literary World» del 17 e 24 agosto 1850, con il titolo Hawthorne e i suoi muschi . Melville cominciò parlando di sé stesso: «Una stanza tappezzata, in una bella antica fattoria, a un miglio di distanza da qualsiasi altra abitazione, immersa nel verde sino alle grondaie, circondata da monti, antichi boschi e laghetti indiani — questo è, senza dubbio, il luogo in cui scrivere di Hawthorne. Deve esserci una strana magia in quest’aria settentrionale, visto che amore e dovere sembrano invitarmi — insieme — a questo compito. Un uomo dalla personalità nobile e profonda si è impossessato di me in questa solitudine. In me echeggia la sua voce, una voce selvaggia, lontana, magica».



Melville sostenne che Hawthorne era uno scrittore doppio. Da un lato, c’era in lui una tenebra soprannaturale: essa si richiamava alla intuizione calvinista della Depravazione Innata e del Peccato Originale; forse nessuno scrittore aveva agitato questo terribile pensiero con più terrore di Hawthorne. D’altra parte, una dolcissima alba, sempre in movimento, avanzava attraverso di lui, navigando attorno al suo mondo.

Melville non aveva mai incontrato Hawthorne, e pensava che non lo avrebbe mai incontrato. Invece un incontro ci fu: molto presto, nello stesso agosto 1850; i due abitavano a poche miglia di distanza. Cenarono insieme nel settembre: parlando, come scrisse Hawthorne, del tempo e dell’eternità, di questo mondo e dell’altro mondo, di ogni argomento possibile ed impossibile, fino a notte alta.

Hawthorne regalò a Melville una raccolta in quattro volumi di testimonianze sui più spettacolari disastri di mare: tra le quali il resoconto del Naufragio della Baleniera Essex, affondata da una balena . Proprio in quel tempo Melville stava scrivendo Moby Dick , che uscì nell’ottobre-novembre 1851, con questa dedica all’amico: «In segno della mia ammirazione per il suo genio, questo libro è dedicato a Nathaniel Hawthorne».

Quando scoprirono di abitare così vicini, Melville e Hawthorne si incontrarono molto spesso: possiamo ricostruire questi incontri grazie alle bellissime lettere di Melville, mentre quelle di Hawthorne sono perdute. Nella prima lettera, del 29 gennaio 1851, Melville invitò Hawthorne a casa sua. «C’è un eccellente Xeres che vi aspetta, e anche un Porto molto robusto». Mentre bevevano, i due filosofavano e si raccontavano storie: discutevano del Cosmo con una bottiglia di acquavite e dei sigari. «Sono sempre incline a bere — commentava Melville —, quando scambiamo enormi discorsi ontologici». Il nome di Hawthorne significa «biancospino»: Melville giocava sul suo significato, aggiungendo che Hawthorne era un «nome grazioso», mentre Blithedale era un «libro trionfale».

Melville continuò a leggere i libri di Hawthorne con sempre nuovo entusiasmo. Parlando della Casa dai sette abbaini , disse che il libro era come una bella camera antica con ricche tende, dove sono ricamate scene di tragedia: con vecchie porcellane dai motivi rari: lunghi sofa, ammirevoli buffé; e cantine piene di vecchio vino. «Non c’è nulla che preferirei all’idea di consacrare uno studio elaborato e meticoloso all’esame e all’analisi del contenuto e dei significati di ciò che caratterizza tutti gli scritti di Hawthorne».



C’era, nei suoi libri, la ricca e rara essenza, lentamente distillata, di un cuore di alto gusto: un umore nobilissimo e profondo, eppure saporoso: una tenerezza illimitata per tutte le forme d’essere; un amore onnipresente. Forse, a Melville, i libri di Hawthorne non bastavano. Ciò che amava era soprattutto lui, lo squisito e inafferrabile gentiluomo della Nuova Inghilterra. Voleva identificarsi con lui: essere lui. «Mi sono sentito panteista — il vostro cuore batteva nelle mie costole, il mio nelle vostre, e l’uno e l’altro in quello di Dio».

Il rapporto tra i due si allargò, e finì per comprendere le famiglie. La moglie di Hawthorne, Sophia Peabody, che scriveva benissimo, fu affascinata da Melville. Il 4 settembre 1850, dopo aver pranzato con lui, inviò alla madre questo stupendo ritratto, che leggo nel bel libro di Barbara Linati, Frammenti di un sogno . Hawthorne, Melville e il romanzo americano (Feltrinelli, 1982). «Melville è un uomo dotato di una capacità di percezione straordinaria. Quello che mi sconvolge sono i suoi occhi. Non sono grandi e profondi: eppure sembra che a loro non sfugga nulla, fin nei minimi particolari, sebbene siano così piccoli. Quando parla, gesticola moltissimo, strabocca di energia, si perde anche lui in quello che sta raccontando — non ha nessuna grazia e compostezza — poi, di tanto in tanto, la sua eccitazione lascia il posto a una specie di curiosa espressione, straordinariamente calma… Uno sguardo spento, chiuso, ma che allo stesso tempo ti fa sentire che proprio in quel momento, egli ha un controllo totale, assoluto su ciò che gli sta davanti. Più che penetrare in chi gli sta di fronte, questo sguardo sembra ingoiarlo completamente dentro sé stesso».


Il Corriere della sera – 13 giugno 2016

Nelle segrete dell'Inquisizione di Palermo le vite spezzate dei rinnegati

$
0
0


Centinaia di graffiti nelle celle dell’Inquisizione nel complesso monumentale dell’Università di Palermo raccontano le pene di chi si convertiva per forza o per calcolo all’islam.


Laura Anello

Nelle segrete di Palermo le vite spezzate dei rinnegati


È il carcere segreto dell’Inquisizione spagnola, con le pareti delle celle ricoperte di graffiti, dipinti, preghiere dei prigionieri. Il testimone di una gigantesca macchina di malagiustizia che - dal Cinquecento alla fine del Settecento, tempi in cui la Sicilia faceva parte del Regno di Spagna - stritolò almeno 6500 uomini e donne. Tra loro, centinaiadi rinnegati, cioè cristiani passati dall’altra parte della barricata, nel mondo musulmano: un esercito di uomini che giuravano fedeltà ad Allah dopo essere stati presi in schiavitù dai corsari «barbareschi» o in perfetta libertà.

Un popolo sospeso tra due mondi, rimpallato da una sponda all’altra del Mediterraneo - la Sicilia e la costa africana - e costretto a cambiare religione due, tre, anche dieci volte nella vita. Bastava, da cristiani, diventare schiavi dei «turchi» per proclamarsi musulmani recitando la formula rituale e accettando la circoncisione. Ma bastava riapprodare sulle sponde dell’odierna Europa per finire nelle grinfie del Tribunale dell’Inquisizione di Palermo, accusati di eresia.



Tra Allah e Gesù Cristo

Un ping pong continuo tra cristianità e islam. C’erano vite che in cinquant’anni si dividevano a metà tra abluzioni rituali e preghiere a Gesù Cristo, tra divieto di bere vino e rispetto cattolico dell’astinenza dal mangiar carne il venerdì. Di che religione erano? Difficile rispondere. E la domanda è tanto più inquietante adesso, in tempo di estremismi e rigide contrapposizioni.

Gli ultimi studi considerano che nel XVI secolo, il «periodo d’oro» dei rinnegati, oltre trecentomila cristiani saltarono il fosso, tanto che ad Algeri arrivarono a costituire quasi la maggioranza della popolazione. Appena tre secoli fa era il mondo musulmano a offrire riconoscimenti e opportunità di crescita sociale ed economica, quel mondo a dare - si direbbe oggi - più possibilità di carriera. E così si proclamava fedeltà a Maometto non soltanto per costrizione.

Il carcere è riemerso nel 2004 nel complesso monumentale di Palazzo Chiaromonte Steri e ancora adesso è un palinsesto tutto da decifrare. Racconta storie straordinarie, come quella di fra Diego La Matina, l’eroe «di tenace concetto» protagonista di Morte dell’inquisitore di Leonardo Sciascia, il prigioniero che il 24 marzo 1657 riuscì a ferire a morte l’inquisitore che lo interrogava. Nel carcere è stato ritrovato il luogo del delitto.

Su una parete intera spicca il disegno di un prigioniero, Francesco Mannarino, catturato a tredici anni mentre pescava sulla costa di Palermo. Un dipinto tracciato con il colore rosso che i prigionieri ricavavano grattando il cotto del pavimento delle carceri. Il suo processo è stato ritrovato negli archivi della Reale Inquisizione di Madrid: a Palermo i documenti furono tutti bruciati, quando nel 1782 il viceré Caracciolo - amico degli Illuministi - decise di abolire il Tribunale liberando le ultime tre donne accusate di stregoneria. Un prezzo politico da pagare, quel rogo, per cancellare i nomi di tutti coloro - spie, delatori, collaboratori - che sul carro dell’Inquisizione erano saliti per averne benefici, prebende e garanzie di impunità.



Una storia emblematica

Ebbene, Francesco Mannarino ha una storia emblematica. Il giovane, rientrato a Palermo, si presenta spontaneamente al Tribunale con il padre: racconta di essere rimasto in cuor suo sempre fedele alla religione cattolica e di essere riuscito a liberarsi dopo aver ucciso il ràis di una feluca barbaresca. È il solito ritornello per evitare l’incriminazione. Ma tre testimoni lo accusano di raccontare il falso. Due sostengono di avergli sentito dire in Berberìa (l’attuale Maghreb) che lì la vita era migliore, e un altro rivela addirittura che Mannarino era fuggito volontariamente dall’altra parte del Mediterraneo. Il ragazzo viene quindi catturato, ma si difende denunciando a sua volta due dei testimoni, che lo accuserebbero per vendetta. Viene creduto e assolto. Come lui altre migliaia.

In senso opposto le conversioni erano molto rare. Pochi, pochissimi musulmani diventarono cristiani. L’unica clamorosa conversione - come racconta Lucetta Scaraffia nel suo Rinnegati - fu nel 1646 quella del principe tunisino Ahmed Khodja, fuggito in Sicilia, battezzato con una cerimonia pubblica e accolto con tutti gli onori. Peccato che qualche anno dopo, incapace di inserirsi nel nuovo mondo, abbia deciso di tornare in patria e alla sua religione. E che più tardi sia stato di nuovo tentato di fuggire nel mondo cristiano, sempre sospeso, sempre inquieto. Vittima, o prigioniero, di due mondi lontani e vicinissimi.


La Stampa – 3 giugno 2016

Quando Cioran sperava nei barbari di Hitler

$
0
0


Arrivano anche in Italia le prime opere dello scrittore romeno. Ne emerge come per Eliade ( ma si sapeva già) l'infatuazione per la Guardia di Ferro e il nazismo tedesco visti come elementi di rigenerazione spirituale di una società in decomposizione.


Andrea Colombo

Quando Cioran sperava nei barbari di Hitler




Un eretico d’altri tempi. Sono passati 21 anni da quando morì Cioran. Il suo pensiero è oggi più inattuale che mai: l’elogio del fallimento, lo sprofondare cupo in un pessimismo cosmico, la misantropia, nell’epoca dell’interconnessione globale e «social» di internet, ne fanno un’icona maledetta, inutilizzabile e contraddittoria. In quel 20 giugno del 1995 il cervello dello scrittore romeno risultava corroso da una malattia neurodegenerativa che lo aveva reso irriconoscibile. Lui, il «cavaliere del nulla» che aveva esaltato la morte e il suicidio, si spegneva a sua insaputa. Il maestro dell’aforisma portava con sé una marea di scritti, molti dei quali rimasti inediti nella sua patria d’elezione, la Francia. Soprattutto gli articoli e i libri del periodo giovanile, quelli degli Anni Trenta, rimanevano in un cono d’ombra. Testi sotterrati per volontà dell’autore stesso che aveva più volte preso le distanze dai suoi furori ideologici giovanili, quando abbracciò, a modo suo, il nazismo.



Furore

Gli editori d’oltralpe hanno negli ultimi anni colmato la lacuna pubblicando sia la versione integrale del suo libro più controverso, La trasfigurazione della Romania (1936), sia diverse raccolte di articoli apparsi nelle riviste rumene dell’epoca. In Italia invece il Cioran politico è ancora il grande sconosciuto. Come al solito sono le piccole case editrici le uniche a riscoprirlo. Bietti annuncia che il prossimo anno farà uscire La trasfigurazione della Romania. Voland ha già pubblicato il pamphlet del 1941 Sulla Francia e a luglio manderà alle stampe i brani inediti del Breviario dei vinti, ultimo scritto in romeno vergato durante la seconda guerra mondiale, un testo che rappresenta il momento di passaggio dal Cioran nazionalista al maestro del disincanto.



Sulla Senna

Sulle rive della Senna, in una città occupata dai nazisti, lo scrittore si rende conto che il suo fanatismo filofascista non era altro che un’ennesima, pericolosa illusione. E allora si abbandona a quell’elogio dello sradicamento che lo contraddistinguerà nei suoi scritti successivi. Tuttavia rimangono alcuni barlumi del suo entusiasmo estremista, come quando scrive che «la moderazione uccide il brivido dell’esistenza». O quando osserva che «la morte, perlomeno, soddisfa la curiosità. La tomba è preferibile allo sbadiglio».

Il Cioran romeno suscita ancora oggi imbarazzo, eppure è fondamentale se si vuole capire come si svilupperà la sua filosofia disperata e nichilista. Emil nasce nella Transilvania austroungarica l’8 aprile 1911. Da studente divora Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, Heidegger e Dostoevskij. Nel 1928 si trasferisce a Bucarest. Vive in un piccolo appartamento mal riscaldato in pieno centro e frequenta assiduamente i bar alla moda. Cresce la fama di donnaiolo di quel giovane studente di filosofia, con i capelli ribelli e gli occhi magnetici.

Frequenta, con lo storico delle religioni Mircea Eliade, il circolo della «giovane generazione», che unisce le personalità più diverse, accomunate da un rifiuto verso la società borghese e democratica. Nel maggio del 1933 pubblica il suo primo articolo di rilevanza politica: Apologia della barbarie, in cui esalta il caos che distruggerà la «decadenza» e il «marciume» della modernità. Quale sarà il mondo nuovo che sorgerà dalle macerie? Cioran non lo dice o meglio rimanda di qualche anno la sua proposta di rinnovamento politico e sociale.

    Codreanu. Il capitano

Germania

Dall’autunno del 1933 alla fine del 1935 soggiorna prima a Berlino e poi a Monaco, grazie a una borsa di studio. Ed è qui, tra le parate delle camicie brune e nell’atmosfera di entusiasmo dei primi anni del regime hitleriano, che pensa di trovare un esempio di vitalità politica capace di superare la decadenza delle democrazie. In alcuni articoli pubblicati per la rivista «Vremea» scrive: «Non c’è alcun uomo politico al mondo che mi ispiri una simpatia e un’ammirazione più grande di Hitler». E afferma: «Abbiamo bisogno di una mistica, poiché non ne possiamo più di tante verità che non sprizzano fiamme». Al ritorno in patria pubblica


   Guardia di ferro

La trasfigurazione della Romania

in cui auspica che la sua patria rinasca forte, industrializzata e aggressiva, temprata dal sangue di una rivoluzione. Se la prende con gli ebrei, considerati elementi estranei alla nazione. «Se scoprissi di essere ebreo - scrive - mi suiciderei». Allergico a ogni tipo di impiego regolare, insegna filosofia in un liceo, senza troppa convinzione.

Nel 1937 si trasferisce a Parigi grazie a un’altra borsa di studio. Cioran non ama lavorare ma scrivere sì. Tratta gli argomenti più svariati: dalla Melencolia «tragica» di Dürer alla «presenza serafica» della divina Greta Garbo. Quindi nel 1940 torna in Romania. In un discorso alla radio tesse le lodi del leader della Guardia di Ferro Codreanu, ma si sente franare il terreno sotto i piedi. Il fronte russo è vicino. Cioran teme di essere richiamato alle armi. Lui, che ha cantato la bellezza rigeneratrice della guerra, sceglie la fuga e scappa in Francia. Qui inizialmente ottiene un incarico come consigliere culturale d’ambasciata a Vichy, ruolo che dura però solo tre mesi. È considerato un incapace dai suoi superiori, per di più inaffidabile politicamente. Non ha nessuna dote diplomatica, odia le convenzioni ed è visto come un anarchico fannullone. Disoccupato, conduce una vita ai margini, nella Parigi bellica, fra i bordelli e i bistrot del Quartiere Latino.
Lo scacco

Il suo Breviario dei vinti è la confessione di uno scacco, ma anche l’inizio di una nuova vita. Da questo periodo oscuro Cioran si rialza a fatica, a guerra finita. Si reinventa come intellettuale senza patria, adotta la lingua francese, immerge nell’oblio le passioni di un tempo. Dalle rovine delle ideologie nasce un sottile e raffinato scrittore. Il tormento esistenziale che lo ha devastato e galvanizzato in gioventù diventa uno stile estetico, un virtuosismo letterario. È un altro Cioran, certo, ma perseguitato per sempre dalle ombre del passato.


La Stampa – 30 giugno 2016

Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli, lettere sulla fatica di essere un genio

$
0
0


Pubblicati i Carteggi fra Carl Gustav Jung e lo scienziato Wolfgang Pauli. Paziente del fondatore della psicologia analitica per due anni, il grande fisico avviò con lui un carteggio durato dal ’32 al ’57, che oggi vale più come indagine antropologica sulla cultura umana che come fuoco sulla realtà fisica e il funzionamento della mente.


Giovanni Iorio Giannoli

Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli, lettere sulla fatica di essere un genio


L’ultima impresa teorica pubblicata in vita da Carl Gustav Jung, il secondo volume di Mysterium Coniunctionis, uscì sessant’anni fa: era «una indagine sulla separazione e la sintesi degli opposti psichici nell’alchimia». Nell’inviarne una copia a Wolfang Pauli – il geniale fisico che era stato due decenni prima suo paziente, e che divenne in seguito un suo assiduo interlocutore – Jung inserì nella dedica una formula cara a Nicolò Cusano (nec nimis nec minus), come a sottolineare il nucleo di atteggiamenti e di idee che li univa da un quarto di secolo: il rigore intellettuale, l’inclinazione platonica, l’attribuzione di un valore universale alle simmetrie, la tesi della coincidenza degli opposti, il presupposto di unità sostanziale tra il mondo fisico e quello psicologico, l’idea che sussista un legame molto stretto tra l’inconscio, l’hintergundsphysik (il fondamento su cui poggia la fisica), le immagini simboliche che costellano i sogni e gli archetipi (il contenuto innato, arcaico e collettivo della mente umana; una sorta di schema generale del sentire, dell’immaginazione e del ragionamento).

Pubblicate in tedesco nel 1992 (poi in spagnolo, in francese e in inglese) le lettere tra Jung e Pauli arrivano ora in libreria, nella loro prima traduzione italiana con il titolo Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia (a cura di Antonio Sparziani, con Anna Panepucci, traduzione di Giusi Drago, Moretti & Vitali pp. 392, euro 30,00). Benché le edizioni già presenti in Europa non facciano di questo volume una primizia assoluta, tuttavia l’autorevolezza degli autori e la profondità con cui affrontano i temi trattati potrebbe costituire da noi un deterrente, una sorta di argine, nei confronti di quella diffusa sotto-cultura di massa che ha trasformato la fatica e la ricerca intellettuale di questi e di altri grandi scienziati del Novecento in una sorta di melassa ammiccante, nella quale convergono l’astrologia e lo spiritismo, l’esotismo e il finalismo, la telepatia e la preveggenza, la numerologia e la divinazione, il misticismo e i pregiudizi contro la scienza. 



Valga – a questo proposito – il caveat espresso dallo stesso Pauli, in uno scritto del 1948: «Dal punto di vista della scienza moderna, la forma di immaginazione (archetipica) è senza dubbio da considerare una regressione a uno stadio arcaico»; per cui: «non bisogna cadere nell’errore di ritenere che i suoi prodotti siano verità scientifiche equiparabili a una solida dottrina».

C’è da chiedersi però quale possa essere oggi il contributo del carteggio alla discussione sul pensiero scientifico e sull’umanesimo, sul rapporto tra il corpo e la mente, sulla natura della psicologia e sul suo rapporto con le scienze «forti», sulla storia della cultura umana e sulle teorie della conoscenza.

Sia la fisica contemporanea che la psicologia scientifica sembrano infatti aver superato da tempo i nodi che impegnavano questi due grandi scienziati nella prima metà del secolo scorso: la fisica, perché la riflessione sui fondamenti della meccanica quantistica (e sul ruolo determinante dell’osservatore, nel determinare il reale osservato) si è spostata in larga misura su interrogativi che riguardano ontologie molto più astratte (come quella, per esempio, che concerne la natura dello spazio-tempo quantistico); la psicologia, perché l’esplosione delle scienze cognitive (a partire dagli anni ottanta del secolo scorso) ha trasferito su un altro terreno l’indagine della psyché, dei suoi contenuti simbolici e/o sub simbolici, sottraendo al lavoro analitico, all’introspezione e all’archeologia culturale, una parte molto rilevante degli studi che riguardano la mente umana.



Ai giorni nostri, dunque, l’idea che mente e materia possano essere aspetti epifenomenici di un’unica realtà sottostante, in sé neutra (cioè: né fisica né mentale), può sembrarci un po’ ingenua, retaggio di una presunzione essenzialistica che non sentiamo più nostra. Così come pure l’idea, caldeggiata da Pauli, che tra la descrizione fisica e quella psicologica sussista una sorta di «complementarietà», analoga a quella che Niels Bohr introdusse nel 1927, per dar conto dell’impossibilità di osservare – nello stesso esperimento – sia gli aspetti ondulatori che quelli particellari della materia, alla scala atomica e sub-atomica. Analogamente, può sembrare oggi priva di senso, o di cogenza, l’idea che la sincronicità (il verificarsi di coincidenze significative, di natura non causale, in punti molto lontani dello spazio-tempo) possa integrare sotto il profilo logico ed epistemologico (come un tassello mancante, come un «quarto escluso») la triade canonica della meccanica classica, costituita dallo spazio, dal tempo e dalla causalità. Ognuna di queste idee si presenta oggi come il retaggio di un sentire datato, piuttosto che come l’embrione di un fecondo programma di ricerca.

Oppure, meglio: studi di questo genere conservano il loro carattere di indagini antropologiche, monumentali, profonde e piene di fascino, che riguardano la ricchezza della cultura umana, le sue origini, i suoi riferimenti e le sue costruzioni, piuttosto che la realtà fisica o il funzionamento della mente. Di questo tipo, per esempio, è sicuramente l’analisi dell’alchimia (perseguita da Jung e condivisa da Pauli), come proiezione dell’inconscio collettivo sulla materia, nel tentativo di trasformarla.

Ed emerge anche, insieme a questo, un resoconto «in presa diretta» della fatica di esser un genio, delle ossessioni, delle compulsioni, dell’insicurezza e dell’ansia che si associa spesso al lavoro intellettuale, ai suoi massimi livelli. Nell’epistolario, Pauli ha un ruolo maggiore di quello che occupa Jung, sia per il numero delle lettere, sia per la quantità delle pagine, sia per l’emozione che accompagna ogni scritto, anche il più astratto. E nel ritmo incalzante degli interrogativi e degli argomenti affiora per venticinque anni la posizione specifica del paziente, nei confronti del suo terapeuta (anche se il rapporto effettivo di analisi era durato solo due anni, dal 1932 al 1934).

Così – anche quando erano venute meno le ragioni più urgenti della terapia (l’alcolismo, le risse, la depressione, legata anche agli strascichi del suicidio della madre, o alle difficoltà del rapporto con l’altro sesso) – Pauli continuava a sottoporre a Jung i suoi sogni; e non certo, o non solo, per alimentare un terreno comune di ricerca.



Combattevano, in lui, due Pauli: quello estroverso/empirico/razionale/giudicante, legato alla figura del padre (un medico, poi docente di chimica e di fisica) e all’influenza del padrino (Ernst Mach, il grandissimo filosofo e fisico austriaco, capostipite dell’empirismo del Novecento) e quello introverso/intuitivo/passionale/creativo, legato alla figura della madre, all’infanzia e all’adolescenza.

Fino all’ultimo, lo scontro tra queste polarità restò attivo nel suo carattere; e volle descriverlo alla fine lui stesso, a pochi anni dalla morte, in una «fantasia attiva sull’inconscio» (dedicata a Marie-Louise von Franz, allieva e collaboratrice di Jung, legata a Pauli da un rapporto molto intimo). Alla fine di questo breve racconto, quando il personaggio denotato come Io (lo stesso Pauli) si accinge a tornare nel suo «mondo maschile, tra la gente», risuona la Voce del Maestro (Jung?), che lo incoraggia alla congiunzione tra i sessi; e – per tranquillizzarlo – ingiunge alla donna: «Sii sempre benigna».


il manifesto Alias – 27 marzo 2016
Viewing all 3486 articles
Browse latest View live