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Quando il Re Sole governava con le regole dell’etichetta



L'etichetta fu uno degli strumenti con cui il Re Sole irregimentò un'aristocrazia anarcoide. Un libro racconta questa particolare arte di governo.

Benedetta Craveri

Quando il Re Sole governava con le regole dell’etichetta


Nell’autunno del Medioevo furono il cerimoniale papale della Chiesa di Roma e quello messo a punto nella loro splendida corte dai duchi di Borgogna a servire da modello alle due grandi monarchie che nel corso dei secoli successivi si sarebbero contese il primato sullo scacchiere politico europeo.

Mentre gli Asburgo si servirono dell’etichetta per potenziare un’immagine liturgica della regalità che non consentiva ai profani di oltrepassare la soglia degli appartamenti privati del monarca, i Valois si spinsero oltre. Francesco I volle infatti fare di ogni momento della sua giornata, dal risveglio al ritiro serale, lo spettacolo stesso della sovranità. Rinunciando ad avere una esistenza privata per vivere sotto gli occhi dei suoi cortigiani, il re francese chiedeva loro un uguale sacrificio, legandoli a sé con i lacci insolubili di un’etichetta che rendeva immediatamente visibili le gerarchie e le preminenze di cui egli si voleva l’arbitro.

Ma doveva trascorrere ancora un secolo perché Luigi XIV facesse di questa messa in scena fastosa la carta da visita dell’assolutismo regio e, a cominciare dai classici saggi di Norbert Elias, sono infatti innumerevoli gli studiosi che hanno passato al vaglio la politica teatrale di Re Sole. Ma se vogliamo avere un caleidoscopio di immagini parlanti di uno spettacolo rimasto unico negli annali della storia dell’Europa moderna affidiamoci a quelle che Daria Galateria ha scelto ora per noi ne L’etichetta alla corte di Versailles. Forte di una agguerrita conoscenza dei memorialisti seicenteschi, la nostra francesista dà loro la parola dopo averceli presentati nelle pagine iniziali del libro, ma è l’eloquenza visionaria del più grande di tutti, il “piccolo duca” di Saint-Simon, a fare qui la parte del leone.



Mosso dall’ossessione di difendere i privilegi di un titolo di fresca data, Saint Simon ha infatti istruito contro Luigi XIV e la sua corte un processo di migliaia e migliaia di pagine dove è il rispetto dell’etichetta a costituire il principale metro di giudizio. Ed è attingendo a questo archivio della memoria che Daria Galateria ha messo a punto, con sorridente perizia, un “Dizionario dei privilegi” composto da 160 brevi voci che ci introducono nel bel mezzo dello spettacolo barocco di Versailles.

La prima impressione davanti a rituali, prerogative, funzioni di cui non afferriamo più il senso è di spaesamento, ma man mano che ci addentriamo in questa casistica dalla terminologia per noi così esoterica, ci rendiamo conto che anche le mansioni più ridicole che essa contempla rispondono tutte a una stessa esigenza: mostrare la maggiore o minore distanza di chi le esercita dalla persona fisica del sovrano e dei suoi stretti congiunti. E chi ha visto il film su Maria Antonietta di Sofia Coppola non avrà dimenticato la scena in cui la giovane regina, già svestita e intirizzita dal freddo, aspetta pazientemente che si decida a quale delle dame presenti competa l’onore di passarle la camicia da notte.

Al momento di andare a letto, ci dice infatti Daria Galateria, alla voce “Camicia” questa «doveva essere porta al re, alla regina o ai figli di Francia dalla persona più altolocata presente, a meno che non fosse di rango uguale o superiore». Come dunque stupirci che proprio una principessa della casa d’Asburgo come Maria Antonietta, che aveva conosciuto bambina l’intimità di una vita familiare al riparo dagli sguardi della corte, abbia deciso di sottrarsi all’etichetta di Versailles? Ma, così facendo, l’Autrichienne dimenticava che nel paese in cui cingeva ora la corona, era proprio questo rituale a garantire a ciascuno il rispetto che gli era dovuto.

Come ricorda Daria Galateria, Luigi XIV aveva ammonito i suoi discendenti sull’importanza politica delle apparenze: «Si sbaglia di grosso chi pensa che si tratti di semplici questioni cerimoniali. I popoli su cui regniamo, non potendo penetrare il fondo delle cose, regolano il pensiero normalmente su quello che vedono sull’esterno, e per lo più misurano sulle precedenze e i ranghi il loro rispetto e l’obbedienza».

L’etichetta di Versailles altro non era per lui che arte di governo.

La Repubblica – 16 aprile 2016



Daria Galateria
L’etichetta alla corte di Versailles
Sellerio
euro 14

Fiera degli Acciugai della Val Maira

La principessa che incantò Bakunin. Anarchici russi a Napoli



Spirito ribelle, la principessa russa Zoja Obolenskaja sostenne finanziariamente i progetti di Bakunin che l'aveva conosciuta a Napoli. Lorenza Foschini ne ricostruisce la vita in un libro di grande fascino.

Stefano Garzonio

Quel fascino indiscreto dell'anarchia

Nella turbinosa vita di Michail Bakunin il soggiorno tra gli anni 1865 e 1867 a Napoli, Ischia e Sorrento costituisce uno dei momenti della sua maggiore vitalità e impegno politico. Proprio a Napoli il padre dell’anarchismo incontrò una principessa russa, Zoja (Zoé) Obolenskaja, che sostenendolo economicamente, ma non solo, svolse un ruolo di primo piano nella sua vita e nella sua esperienza politica, legata in quegli anni al foglio e all’associazione Libertà e giustizia, oltre che alla stesura del programma della Fratellanza Internazionale. Figlia del principe Sergej Sumarokov e discendente, da parte di madre, della nobile famiglia veneziana con ascendenze moldave dei Panos Maruzzi, Zoja era sposa del principe Aleksej Obolenskij, combattente in Crimea e all’epoca governatore di Mosca.

Donna indipendente e culturalmente assai vivace, Obolenskaja, con il pretesto di curare una delle figlie, era approdata in Italia con tutta la prole e uno stuolo di servitori, ivi compreso il dottore di famiglia. La partenza dalla Russia era in realtà motivata dallo spirito ribelle della «principessa-nichilista», che provava un malcelato senso di avversità verso il marito, rappresentante dell’ala più reazionaria e bigotta del mondo politico russo. Presto, la ricchissima principessa, affascinata dalla personalità del celebre Bakunin, ne sposò gli ideali politici e rivoluzionari, divenendo la sua più generosa finanziatrice. Attorno alla principessa si raccolse così, specie nel periodo trascorso a Ischia, un gran numero di rivoluzionari, cospiratori, massoni, esuli e intellettuali russi, italiani e non solo, tutti attirati dalla fama del grande rivoluzionario e dalla singolare personalità della nobildonna.

Al legame tra Bakunin e Zoja Obolenskaja, alla triste separazione della principessa dai figli per l’intervento del marito sostenuto dallo zar Alessandro II, e in generale alla sua biografia, con numerose incursioni nella vita dello stesso Bakunin, è dedicato il libro di Lorenza Foschini Zoé. La principessa che incantò Bakunin. Passioni e anarchia all’ombra del Vesuvio (Mondadori, pp. 190, euro 20).



La ricostruzione appassionante è legata in primo luogo al ritrovamento e alla disamina dell’archivio degli Obolenskij e, più concretamente, della nipote della principessa, anche lei Zoé, che, emigrata dopo la rivoluzione, visse per un certo periodo a Roma, poi si trasferì negli Stati Uniti (l’archivio è conservato oggi a Harvard).

Il lavoro di Lorenza Foschini si fonda esclusivamente su fonti in lingue occidentali (ivi comprese le opere di Bakunin), ma è omogeneo e ben equilibrato nel suo taglio vivacemente narrativo. Intrecciando il racconto con flashback sulla biografia di Bakunin l’autrice ricostruisce a grandi linee la storia dei rapporti del rivoluzionario con altri idealisti europei – da Marx e Engels a Mazzini, Garibaldi e Herzen – affrontando i momenti cruciali dell’attività dell’anarchico russo in Svizzera al tempo dell’infatuazione per Necaev e delle vicende legate alla pubblicazione della rivista Narodnoe Delo.

Tra i personaggi minori, figurano i rivoluzionari Nikolaj Utin e Walerian Mroczkowski, rivoltoso e patriota polacco, che sarà compagno, e poi sposo, della principessa privata dei suoi averi dal marito. I riferimenti sono ricchi e convincenti, l’intreccio delle citazioni (da quelle del celebre scienziato Grigorij Vyrubov a quelle delle memorie inedite del principe Šeremet’ev) sempre ben dosato, e appassionata la descrizione dei luoghi, solo la scarsa conoscenza dei realia russi porta a alcune imprecisioni, per esempio il riferimento più volte ripetuto a Nicola II, mentre a essere in effetti implicato è Nicola I; inoltre, la denominazione della residenza degli Obolenskij a Cerikov (nella regione di Mogilev in Bielorussia) si chiama Gorki e nulla ha a che fare con il terminegor’kij (amaro, pseudonimo dello scrittore) che viene invece impiegato nel libro.

L’autrice sottolinea come la principessa Obolenskaja avesse ispirato molti scrittori, e tra questi Tolstoj, Henry James e Joseph Conrad. Che la principessa possa essere considerata uno dei modelli di Anna Karenina è possibile, anche se negli studi tolstojani le ipotesi interpretative sono altre e non prive di fondamento (figura anche il nome di Aleksandra Obolenskaja che svolse un ruolo importantissimo nell’organizzazione dell’educazione femminile al tempo delle riforme).

Il figlio Felix, che dal padre erediterà il cognome-soprannome Ostroga (termine che probabilmente rimanda al lessema ostrog, vale a dire fortezza, prigione), si sarebbe poi affermato come musicista e i suoi saggi su Wagner sarebbero stati al centro di un dibattito negli ambienti del simbolismo russo, risvegliando l’interesse di Vjaceslav Ivanov, il grande poeta e umanista vissuto e morto a Roma, la cui figlia Lidia, allieva di Respighi e affermata compositrice, prese nei primi anni lezioni di musica proprio da Felix Ostroga. La seconda moglie di Felix, Ol’ga Nikitina, fu amica di famiglia degli Ivanov e su di lei esistono moltissime notizie memorialistiche; ma queste non sono che alcuni accenni alle molte scoperte cui porta questo studio pionieristico di Lorenza Foschini.

Il Manifesto – 25 maggio 2016


"Non ti riconosco". L'Italia in rovina di Marco Revelli



Un viaggio nella crisi del «made in Italy» a firma di Marco Revelli. Un libro sulla fine della grande fabbrica e dei distretti industriali, orfani di qualsiasi progetto di liberazione sociale (e politica).

Benedetto Vecchi

Nel ground zero della Politica

Un lungo viaggio per l’Italia, facendo tappa nelle città, le regioni, i luoghi che ne hanno scandito la storia nel lungo Novecento. È quanto fa Marco Revelli nel volume Non ti riconosco (Einaudi, pp. 250, euro 20). Il punto di partenza non poteva che essere Torino, la città operaia per eccellenza che Revelli conosce benissimo. Lì è cresciuto come intellettuale, lì è cresciuto politicamente. A questa company town ha dedicato altri libri e innumerevoli di articoli e saggi. Torino era il luogo di un modello di società da cambiare per costruire una «città futura». Non è andata così, come è noto.

Torino è diventata il ground zero del Novecento italiano. Di quella classe operaia che ha incendiato le menti di molti militanti ci sono solo flebili tracce, il resto sono aree dismesse, terreni inquinati, rottami, ruggine e una immensa sequenza di templi del consumo che ne hanno ridisegnato la geografia, anche sociale. Il centro storico è stato però ripulito, rimesso a nuovo; i sindaci che si sono succeduti negli ultimi dieci, venti anni hanno solo accompagnato l’approfondirsi della sua morte come città simbolo dell’Italia industriale. Alcuni con pragmatismo, altri con complice subalternità ai piani della Fiat di abbandonare la città per proiettarsi sul palcoscenico impalpabile della finanza. 

Come in tanti altri luoghi, gli operai cacciati dalla fabbrica non hanno avuto altra alternativa che sopravvivere alla lenta, ma progressiva desertificazione sociale; l’élite invece si è «deterritorializzata», recidendo i suoi legami con il territorio, altra parola magica che tutto dice per non affermare nulla.



Alla fine di un mondo

Si intuisce così il perché il titolo del libro è Non ti riconosco. Nel percorrerla, Revelli annota il disorientamento, lo smarrimento di chi quella città l’ha vissuta seguendo cortei, riunioni, incontri, studiando come solo un appassionato intellettuale militante sa fare. La classe operaia però non c’è più come soggetto politico. Esistono gli operai, che entrano ed escono dalla fabbrica con gli occhi e la testa bassa. Sono ridotti a merce, forza-lavoro, non più lavoro vivo, non più classe. Questo capitolo è la storia di una apocalisse sociale, culturale. E anche se l’autore non lo cita mai, ci sono forti echi di un grande interprete della «fine di un mondo», cioè Ernesto De Martino. Soltanto che il filosofo e antropologo italiano parlava della fine del mondo contadino, individuando nel progresso e nell’industria le avvisaglie di una nuova era.

Nella pagine torinesi di Revelli, di indizi di un nuovo da lì a venire ce ne sono ben poche pochi. Tante invece le avvisaglie di una rabbia sorda, di un ribollire di sentimenti tristi, di un razzismo strisciante, sempre pronti a sfociare in un pogrom, specialmente se l’altro da sé ha lo stigma dello zingaro.

Questa rabbia oscena, violenta consegna anche una seconda chiave di lettura del libro. Il «non ti riconosco» non si riferisce infatti solo alla morfologia sociale e urbanistica dei luoghi, ma anche al rifiuto diffuso di non riconoscere l’«eterogeneo umano», meglio l’altro da sé.

L’apocalisse sociale e culturale ha lasciato sul terreno molti frammenti tossici e per il momento ci si può solo accontentare di incontrare delle oasi, come quella che chiude il capitolo torinese, quando l’autore descrive un luogo dove uomini e donne si incontrano per condividere conoscenze e saperi. Si chiama coworkinged è frequentato da makers, quelle donne e uomini che provano ad immaginare prodotti, attività lavorative fondate sulla condivisione. Revelli evoca la sharing economy, ultima frontiera del «lavorare comunicando» sotto il regime del capitalismo che qualcuno in vena di classificazioni definisce «capitalismo 4.0», quasi fosse la nuova realise di un programma informatico invece che una variazione di un rapporto sociale di produzione, sempre diverso, ma sempre eguale.



Las Vegas in Brianza

La seconda tappa è la Brianza. È meticoloso Revelli nel descrivere i luoghi, le strade che conducono a una città fantasma che nelle intenzioni del suo ideatore doveva essere la Las Vegas italiana. Città del divertimento, un parco a tema per i sogni di godimento di una borghesia molto provinciale che aveva fatto diventare quella parte d’Italia un vitale distretto industriale. Decine, centinaia, migliaia di piccole imprese con una manciata di operai di qualità che macinava e faceva aumentare fatturati e ricchezza. Modello sociale e produttivo in antitesi con la grande fabbrica, dove il sogno di cessare di essere operaio per diventare padroni di se stessi ha scandito cinquanta anni di storia locale.

Anche qui rimane ben poco di quel sogno, che per un breve periodo – i formidabili anni Settanta – ha pure alimentato conflittualità radicali. Non c’era l’operaio-massa, ma i figli di una modernizzazione che nutriva sogni, bisogni, desideri che il capitalismo 2.0 non poteva soddisfare. Il distretto, meglio i distretti industriali della Brianza si sono smontati come la panna montata. Questa volta la parola d’accesso alla comprensione di quel che è avvenuto è globalizzazione. Zygmunt Bauman ha scritto che la fabbrica che funziona di più nella globalizzazione è quella delle vite da scarto. Tale affermazione vale, seguendo il percorso di Revelli, anche per l’Italia, in particolar modo quando si giunge nel nord-est.

Del nord-est in molti hanno scritto. Scrittori, filosofi, sociologi ne hanno tratteggiato la parabola ascendente e il tonfo seguito all’entrata della Cina nel club dei ricchi chiamato Organizzazione mondiale del commercio, meglio conosciuto come Wto. Da allora il susseguirsi interrotto di capannoni con villette adiacenti che scandisce la mappa del nord-est è stato ridotto a un triste catena di ruggine, erbacce. E di disperazione, visto il numero crescente di suicidi, visto che le banche hanno sbarrato le linee del credito perché l’insolvenza cresceva a causa dei mancati pagamenti della pubblica amministrazione o di committenti che hanno chiuso i battenti. Revelli parla, prendendo a prestito il titolo di un romanzo sulla crisi del nord-est, dell’effetto domino. Sta di fatto che questa «terza Italia» è passata dal miracolo economico alla implosione nell’arco di venti anni. Anche qui la rabbia schiuma e diventa xenofobia, razzismo.

Dopo questa nuova apocalisse sociale rimane ben poco da salvare. Revelli, tuttavia, scorge i prodromi di un capitalismo 4.0. Imprenditori che hanno introiettato il senso del limite, che dosano pazientemente consolidamento e investimenti per allargarsi. Che puntano sull’innovazione usando un lessico che ricorda quello dei makers torinesi: open source, condivisione della conoscenza, reciprocità, cura delle relazioni umane, valorizzazione delle competenze. Non un nuovo inizio, ma oasi in un paesaggio arido e vuoto.

Anche qui niente politica. Nelle oasi si riprendono le forze, non si immagina un mondo nuovo, manda a dire l’autore. Ma forse è proprio da qui, da queste tendenze che la politica andrebbe ripensata. Non per improbabili alleanze tra imprenditoria illuminata e lavoratori della conoscenza, bensì per far sì che l’«eterogeneo umano» messo al lavoro si riappropri di ciò che produce. Anche nel nord-est impera il lessico della paura e dell’odio. Ai negri, zingari, sono aggiunti i cinesi, protagonisti delle pagine dedicate a Prato, capitale del tessile made in Italy.



Bruciati vivi

Il libro di Revelli ha ripetizioni e differenze. Su queste ultime va posta l’attenzione. Prato è la città dove uomini e donne provenienti dalla Cina si uccidono di lavoro per poter immaginare un futuro. Dodici, sedici, diciotto ore a sgobbare, cosi come facevani i pratesi durante il periodo d’oro del distretto del tessile. Senza pagare le tasse, ignorando le regole sulla sicurezza, al punto che possono bruciare in un capannone perché rinchiusi là dentro da un padrone di turno. Qui il libro ci consegna pagine commoventi, da groppo in gola. E dove la scrittura di Revelli, misurata e curata come non mai nei suoi libri, non concede nulla alla retorica pietistica per quei poveracci bruciati vivi. Quei sette uomini e donne bruciati vivi nel sonno sono come quei pratesi che per tutto il Novecento sono morti di lavoro.

Il lettore è poi catapultato all’Ilva di Taranto, per poi proseguire fino alla piana di Gioia Tauro. In questo squarcio di Sud il sogno progressista, anche comunista di vedere nello sviluppo industriale una possibilità per le «plebi meridionali» di affrancarsi da secoli di schiavitù tracima nell’incubo delle tantissime morti da cancro in una città ormai prigioniera di una fabbrica che uccide. E dove gli operai, come a Torino, hanno gli occhi e la testa bassa. Costretti a morire di cancro per sopravvivere. E che votano, a maggioranza, la proprio lenta, probabile condanna a morte bocciando un referendum che chiedeva la chiusura dell’Ilva,

A Gioia Tauro invece le cattedrali dell’industrializzazione hanno fatto arricchire faccendieri, imprenditori in abito blu. E la criminalità organizzata, diventa impresa globale, che usa il porto come una base per i suoi traffici e come bancomat, visto che chi lo usa come punto di attracco per i container deve pagare una quota alle ’ndrine. Qui si intrecciano faccendieri, criminali e imprenditori che scendono a patti con loro.

I marchi dei container scaricati nel porto di Gioia Tauro rivelano i legami di questo lembo d’Italia con il Messico (il narcotraffico), la Cina per l’export di merci scadenti e l’import di rifiuti industriali. Una logistica dove algoritmi sofisticati, piccoli padroncini e facchini costituiscono il medium di una valorizzazione capitalistica in cui l’economia criminale è una parte integrante.



Senza futuro

Anche nella piana di Gioia Tauro c’è una piccola oasi, ma è talmente piccola che serve solo a dare testimonianza di un imprenditore pulito e innovativo, che vive segregato nella sua fabbrica sorvegliata e protetta dall’esercito perché la ’ndrangheta vorrebbe farla saltare visto che il padrone non si prostrato alla «consuetudine» del pizzo. Per trovare una possibile via d’uscita da questa apocalisse sociale bisogna prendere il traghetto e sbarcare a Lampedusa. All’isola è dedicato l’ultimo testo che compone il libro. Il più commovente, il più arrabbiato. Ma è qui, in questo luogo di confine, il più periferico di una Italia irriconoscibile, che c’è il riconoscimento dell’eterogeneo umano. Per chi è al confine l’incontro con l’altro è scontato, così come il guardarsi negli occhi e vedere nell’altro da sé l’«eterogeneo comune».

È quello di Revelli un bello e disperante reportage sull’Italia del primo ventennio degli anni duemila. Quel che cattura l’attenzione è la tonalità no future della narrazione. C’è però poca immaginazione politica in questo libro, quasi che l’autore non sia più interessato all’antica domanda sul «che fare». La ricerca di una risposta può aiutare a ricomporre un puzzle e far sì che lo smarrimento che si ha non diventi evasione, disimpegno. È quell’«eterogeneo comune» che occorre indagare senza pulsioni essenzialiste visto che le dimensioni tipiche della specie sono diventate mezzi di produzione.

Non si tratta, infatti, di cogliere l’essenza dell’essere umano, bensì di come l’individuo sociale produce un comune che viene espropriato desertificando la realtà. Un nodo difficile da sciogliere, ma indispensabile affinché le tante, diversificate forze-lavoro possono cessare di essere merci e diventare lavoro vivo, cooperazione sociale e produttiva, momento di liberazione. Con disincanto, certo. Con realismo, certo. Ma con la convinzione, forte, che le oasi non sono solo luoghi dove riprendere le forze, ma anche in cui è possibile cambiare le relazioni sociali all’interno e poi all’esterno dell’oasi stessa. Perché la terra promessa sarà tale soltanto se la trasformazione avviene qui e ora.


Il Manifesto – 25 maggio 2016

Veniva dallo spazio il pugnale di Tutankhamon


La recente scoperta relativa alla natura “spaziale” del pugnale di Tutankhamon conferma quanto già si sapeva in materia. Il ferro meteoritico fu il primo ad essere lavorato agli inizi della stagione dei metalli. Considerato sacro per la sua scarsità e soprattutto per il fatto di provenire dal cielo, era utilizzato per costruire oggetti dal forte valore simbolico o da usare nelle cerimonie religiose più importanti.

Fabrizio Assandri

Tutankhamon. Il pugnale venuto dallo spazio


Gli antichi egiziani lo sapevano e, in fondo, ce lo avevano detto. Un papiro racconta di un «ferro piovuto dal cielo». Ma il mistero dell’origine di uno dei due pugnali trovati insieme alla mummia del faraone bambino, Tutankhamon, ha diviso gli studiosi fin da quando, nel 1925, fu aperto il sarcofago custodito nella Valle dei Re. A mettere la parola fine alla disputa è una ricerca italo-egiziana, nata anche dopo il ritrovamento di un cratere. Tra i tanti misteri e le superstizioni legati al faraone, a partire dalla maledizione che avrebbe colpito chi avesse profanato la sua tomba, almeno un’incognita è stata risolta. Con la fluorescenza a raggi X, gli scienziati hanno tolto ogni dubbio: il ferro della lama di quel pugnale arriva dallo spazio.

«Gli oggetti egizi di ferro sono pochissimi, non avevano sviluppato la metallurgia del ferro e non c’erano cave. Così, era considerato più prezioso dell’oro», spiega Francesco Porcelli, professore di Fisica al Politecnico di Torino. «Per questo il ritrovamento del pugnale di Tutankhamon aprì un dibattito». A stupire era anche la grande qualità della manifattura, segno della capacità nella lavorazione del ferro raggiunta già allora. Il pugnale, di circa 35 centimetri e per nulla arrugginito, era infilato tra le bende della mummia, per prepararsi all’incontro con l’aldilà: basti a dire quanto era ritenuto prezioso.

C’erano studiosi che già sostenevano si trattasse di un meteorite, mentre altri pensavano che fosse stato importato: in Anatolia nel XIV secolo a. C., quando visse Tutankhamon, il ferro c’era già. «Incredibilmente, però, finora nessuno aveva fatto analisi».



Porcelli è stato, per otto anni fino al 2014, addetto scientifico all’ambasciata italiana al Cairo e ha messo insieme il progetto di studio, portato avanti dagli esperti sui meteoriti dell’Università di Pisa, il Politecnico di Milano e un suo spin-off, la ditta XGLab, insieme con il Politecnico di Torino, il Cnr e per parte egiziana il Museo del Cairo e l’Università di Fayyum. L’iniziativa è stata finanziata dal ministero degli Esteri italiano e da quello della Ricerca scientifica egiziano.

L’antefatto di questa storia è la scoperta nel 2010, che finì sulla rivista Science, del Kamil Crater nel mezzo del deserto egiziano. Si tratta di un piccolo «cratere lunare», rarissimo sul nostro pianeta, perché di norma l’erosione cancella i segni degli impatti dei meteoriti. A quella spedizione parteciparono tra gli altri gli studiosi di Pisa e dell’osservatorio astronomico di Pino Torinese. «Quando fu scoperto il cratere, parlammo del mai risolto interrogativo sul pugnale sulla mummia del giovane faraone della diciottesima dinastia, e decidemmo di fare le analisi, superando un po’ di riluttanza delle autorità egiziane, che giustamente custodiscono gelosamente i reperti», spiega Porcelli.

Ma come si è arrivati a stabilire che si tratta di un metallo alieno? Dalla composizione: il ferro infatti contiene nichel al 10% e cobalto allo 0,6: «Sono le concentrazioni tipiche dei meteoriti. Pensare che possa essere il frutto di una lega, in queste concentrazioni, è impossibile». La strumentazione utilizzata sul reperto in Egitto non è stata invasiva, la fluorescenza a raggi X, poi i dati e i risultati sono stati analizzati in Italia. Il progetto bilaterale, iniziato nel 2014 e terminato con la pubblicazione in questi giorni, forse non sarebbe più possibile nell’Egitto di oggi. «Dopo il caso Regeni e il caos di questi mesi», racconta Porcelli, che sulla sua pagina Facebook ha l’appello perché si faccia chiarezza sul ricercatore ucciso, «molti studiosi non vogliono più partire per l’Egitto. Si è rotto un rapporto di fiducia. Spero che il seme delle primavere arabe torni a fiorire, intanto questo pugnale può essere un piccolo segno di quella collaborazione che dobbiamo tornare a intessere».


La Stampa – 27 maggio 2016

Restaurata l'insegna ceramica "Ferramenta" di Antonio Sabatelli


Finalmente restaurata e di nuovo fruibile l'insegna di Antonio Sabatelli per anni colpevolmente dimenticata. Un pezzo della grande storia artistica di Albisola ritorna al suo posto. Una battaglia da continuare e un ringraziamento a Mauro Baracco, più di tutti impegnato in questa non facile impresa.

Piero Simondo torna a Cosio d'Arroscia



Giovedì 2 giugno, alle ore 17.30, si inaugura al Museo delle Erbe di Cosio d’Arroscia (IM) l’esposizione di 24 opere di Piero Simondo. L’opera di Simondo, fino ad oggi, è stata promossa e comunicata in modo occasionale.


La mostra al Museo delle Erbe vuole avviare un nuovo corso espositivo presentando una selezione di 24 opere che documentano sessanta anni di attività, ricerca e sperimentazione, scelte e commentate da Daniela Lauria.  

Kierkegaard, l'uomo dell'istante



Una biografia interiore in forma di romanzo, costruita con estratti e riassunti presi delle opere del filosofo danese, sostanze della sua stessa vita.

Fulvio Ferrari

Kierkegaard, voluttà e angoscia



È una giornata d’autunno del 1855 quando il filosofo Søren Kierkegaard, che ha allora solo quarantadue anni, si presenta al Fredrikshospital di Copenaghen per farsi visitare, ma in realtà, non avendo ormai alcuna speranza di guarigione, per essere assistito nei suoi ultimi giorni di vita. Ha così inizio il romanzo biografico di Stig Dalager, L’uomo dell’istante, uscito in Danimarca nel 2013, in occasione del bicentenario della nascita dello scrittore-filosofo, e che appare ora in Italia nell’accurata traduzione di Ingrid Basso per Iperborea (pp. 416, euro 18.50).

Dalager non è nuovo al genere biografico: già nel 2004 ha infatti pubblicato Viaggio nell’azzurro, sulla vita di Hans Christian Andersen, e nel 2012 La luce azzurra, su Marie Curie. Come nei due romanzi precedenti, la narrazione prende le mosse dagli ultimi giorni del protagonista, la cui memoria ricostruisce quindi il racconto biografico in una serie di flash back che, pur seguendo in generale una linea di sviluppo cronologico, permettono all’autore di concentrarsi su momenti particolarmente significativi e intensi, capaci di manifestare con particolare forza e problematicità le questioni che hanno dominato la vita, il pensiero, le emozioni del personaggio.

La strategia di ricostruire una vita in un succedersi di scene, episodi, monologhi interiori e documenti storici si rivela particolarmente adeguata nel caso di Kierkegaard: personaggio più di chiunque altro refrattario alla sintesi con il suo pensiero manifestamente e consapevolmente contraddittorio, con le sue scelte di vita almeno apparentemente irragionevoli, apostolo dell’amore e della mitezza e polemista feroce, che non ferma i suoi attacchi incalzanti nemmeno dopo la morte dell’avversario.



L’operazione di Dalager è difficile e ambiziosa: il romanzo si basa sui più recenti risultati della ricerca storica e biografica e già nella Nota dell’Autore, in apertura del volume, Dalager dichiara il proprio debito nei confronti del libro di Joakim Garff SAK – Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, pubblicato in Danimarca nel 2000 e in Italia, da Castelvecchi, nel 2013. Le finalità di un romanzo sono però assai diverse da quelle di uno studio scientifico e l’intento dell’autore non è quello di dipanare in forma narrativa le vicende della vita del filosofo, ma di esplorare l’intima connessione tra vissuto interiore, vicende esteriori e pensiero. Una esplorazione indispensabile per comprendere il lavorio emotivo e intellettuale di questo pensatore nemico di ogni sistema, che impiegò tutta la propria esistenza a indagare se stesso per comprendere tutti gli uomini e arrivare infine ad accettare l’incomprensibilità di Dio e dell’esistenza, facendosi carico della propria disperazione e tentando il «salto vertiginoso» nella religione e nella fede

In questo movimento di esplorazione interiore il Kierkegaard descritto da Dalager assume punti di vista differenti e incompatibili, sperimenta diverse concezioni del mondo, frantuma il proprio io in una quantità di pseudonimi, ognuno dei quali rappresenta una parte di lui, ma in assenza di una totalità, che sembra formarsi solo nell’abdicazione di sé, nell’affidarsi all’assurdità della religione: «Uno scrittore si nasconde dentro l’altro come in un gioco di scatole cinesi, l’esistenza scricchiola nel pieno del gioco, è manipolazione e isolamento, ma lui, Søren, dov’è?»

Quello che Dalager, in quanto autore di un romanzo, può darci di più rispetto a una biografia scientifica è la vivida – e angosciosa – descrizione della lacerazione interiore di Kierkegaard, e di come questa lacerazione si trasformi in scrittura. Due, principalmente, sono le figure con cui il filosofo si misura per tutta la sua vita: il padre Michael e Regine Olson, la giovane donna amata e temuta, conquistata e abbandonata.



Severo e intransigente, il padre incombe sul giovane Søren come un’ombra minacciosa, e tuttavia sarebbe semplicistico vederne solo l’aspetto cupo e oppressivo. Dal padre, Kierkegaard impara a non accontentarsi della superficialità, a non assolversi cercando rifugio nell’inconsapevolezza, ma a scavare spietatamente in se stesso alla ricerca di una ragione di vita, di una verità che giustifichi l’esistenza: «Ciò che conta è trovare una verità che sia verità per me, trovare ciò per cui io voglio vivere e morire». Impetuoso, tormentato e di fatto impossibile, il rapporto con Regine è ben più di una (fallita) relazione amorosa, è piuttosto un laboratorio psichico in cui Søren viviseziona la propria anima, si confronta con i propri desideri, impulsi, terrori

Che di Regine sia innamorato non c’è dubbio, e la giovane donna assume ai suoi occhi una funzione quasi salvifica: «Sai che la Chiesa cattolica insegna che le preghiere di un uomo pio procurano conforto alle anime del purgatorio», le scrive in una lettera riportata nel romanzo per intero, «io so che è così, e ogni volta che menzioni il tuo amore smetto di udire lo sferragliare di catene, e sono libero». Ma la presenza di Regine non può dare pace al suo innamorato, troppo concentrato sulla sua ricerca interiore per poter tenere aperto un dialogo costante con un altro, vero e concreto essere umano.

Regine diventa così l’incarnazione di tutto ciò che è desiderabile, ma anche di tutto ciò che è negato a chi ha deciso di sacrificare se stesso sull’altare della verità, di una verità che non riesce peraltro a emergere se non nell’atto di negazione di ogni sforzo intellettuale e dialettico, vale a dire nel «salto» nella religione. Ed ecco allora che il ruolo di redenzione che Regine non può svolgere viene almeno in parte assunto dalla scrittura: «Scrivere è un godimento e una liberazione dall’umor nero, una vera e propria voluttà della penna che può nascondere anche un’angoscia vertiginosa, qualcosa che allo stesso tempo apre all’infinito e fa mancare la terra sotto i piedi»



La scrittura è così espressione e sostanza della vita di Kierkegaard, i suoi libri sono la sua biografia interiore, ognuno di essi è una nuova esperienza di esplorazione di sé. Dalager, quindi, non può fare a meno di accompagnare il racconto con riassunti e estratti delle sue opere, a costo di correre il rischio di rendere la lettura più lenta e difficoltosa. Questi riassunti e questi estratti, peraltro, non possono in alcun modo essere utilizzati per spiegare o riassumere il pensiero del filosofo: L’uomo dell’istante non è una «guida alla lettura» di Kierkegaard, ma un’indagine del processo creativo in cui esperienza, sofferenza, dubbio e volontà si mutano in pensiero, anzi, in pensieri tra loro in dialogo e, spesso, in conflitto.

In questo senso la vicenda umana di Kierkegaard diviene una vicenda esemplare, un caso estremo in cui l’indissolubile groviglio delle relazioni tra vita esteriore e vita interiore, tra ambiente e individuo, tra dimensione inconscia e riflessione cosciente si rivela in tutta la sua complessità e, anche, nella sua minacciosa instabilità. E nel lettore restano impresse immagini che hanno la forza di simboli: le surreali cene che Søren organizza con ospiti immaginari, ad esempio, cui fanno contrasto le giornate passate giocando con i bambini, nipoti e figli dei vicini. E, naturalmente, gli ultimi momenti del filosofo: il corpo sempre più debole, la rassegnazione svagata, malinconica, e la dolce presenza dell’infermiera Ilia Fibiger, quasi una riapparizione della donna angelo, protettiva e irraggiungibile, che per tutta la vita aveva avuto il volto di Regine Olsen.


il manifesto Alias – 22 maggio 2016

La costruzione dell'ideologia antisemita


Nascita e sviluppi della teoria del complotto giudaico dai Protocolli dei Savi di Sion a Hitler.  

Susanna Nirenstein

La costruzione dell' ideologia antisemita

Di Auschwitz si evita spesso di dare una spiegazione razionale, quasi fosse un delitto da indagare attraverso la criminologia, la psichiatria e non un mattatoio nato da un autentico progetto politico partorito dal ventre dell' Europa. E invece se pensiamo all' enormità della sua realizzazione è evidente quanto dietro la Shoah non possa che esserci stata una forte prospettiva teorica, un sistema ideologico complesso, anche se si fatica, si soffre a chiamare così l' odioso antisemitismo fiorito nell' Ottocento, maturato nel ' 900 nella sua contaminazione con altre culture antidemocratiche, e infine inverato nel totalitarismo.

«Una teoria rivoluzionaria che dispone di una propria Weltanschauung» e di una propria teoria economica mirate «a rovesciare la società borghese liberale» «in aperta concorrenza col socialismo e il marxismo», animata dallo stesso «attivismo antisistemico», la definisce, con un piglio eretico che può meravigliare, uno storico da sempre a sinistra, Francesco Germinario, studioso tra i più attenti delle ideologie e della destra nel XIX e XX secolo, in questo Antisemitismo. Un' ideologia del Novecento (Jaca Book, pagg. 247, euro 24). Dunque l' antisemitismo non come pregiudizio scomposto, invasivo e convulso, ma ideologia articolata e radicale che lascia alle spalle, anche se non ne rinnega gli stereotipi, l' antigiudaismo cattolico.



Navigando nella vasta bibliografia sull' argomento, da Toussenel a Drumont e Chirac, da Eckhart a Rosenberg e Hitler, Germinario parte dal riassumere i tre pilastri su cui si sono via via fondate tutte le declinazioni dell' antisemitismo: a) la convinzione che la storia umana sia attraversata da una cospirazione dell' ebraismo volta a conseguire il potere assoluto dell' umanità; b) la certezza che l' epoca borghese e liberale corrisponda all' ebreizzazione del mondo, alla presa del potere ebraica; c) infine la sicurezza che quella ebraica non sia una religione ma una razza con caratteristiche biologiche e culturali comuni.

L' idea di Germinario è quella che l' antisemitismo si sia chiesto sempre più, come le altre ideologie rivoluzionarie del momento, di rispondere con una grande narrazione che legasse passato e presente alle domande nate da una situazione storica angosciante, dove si erano stravolti regni, assetti, poteri, modi di produzione, tradizioni, si erano moltiplicati scontri sociali, povertà, guerre.

E la narrazione (di cui gli artefici cercano sempre di dimostrare le basi scientifiche per reggere il confronto con le altre strategie rivoluzionarie) è quella complottista, un aspetto che forse non è così forte nella prima fase, quella di Toussenel e Tridon, ma poi, specie con Drumont, inizia a definirsi saldando ed esaltando «le tematiche antisemite, specie quelle anticapitaliste, di provenienza socialista col cospirazionismo di provenienza cattolica»: è con i Protocolli dei Savi di Sion che si assiste al salto decisivo,è quie in quel che segue che si crea e si rafforza la teoria secondo cui la Storia non è fatta dagli uomini, ma tessuta dalle centrali occulte dell' ebraismo che nelle società borghesi e liberali nuotano come pesci nell' acqua facendo credere ai popoli di essere liberi ma in realtà dominando tutti con la finanza, e progettando un futuro di tirannide.



Una lettura della Storia che contesta "l' individuo" del liberalismo e le "classi" del socialismo e riesce a preconizzare un futuro di salvezza solo mettendo in campo le razze, da un lato quella ebraica, da battere, il cui "attivismo diabolico" era stato finora sottovalutato dall' umanità, dall' altro l' unica altra concreta, naturalisticamente radicata nelle nazioni europee, l' unica su cui si può fondare una politica, quella ariana.

Ed è proprio il matrimonio tra razzizzazione e cospirazionismo storico a cambiare l' ultima faccia dell' antisemitismo novecentesco perché declinare biologicamente il nemico voleva dire escludere con esso ogni compromesso, e l' unica via per disfarsene diventava lo sterminio. Germinario, dopo aver lungamente analizzato le metamorfosi dell' antisemitismo, si ferma al 1933. Peccato.

La repubblica – 3 marzo 2013


Eugenio di Savoia. Il segreto del guerriero


















Con la divisa degli Asburgo, fu tra i generali che fermarono i turchi a Vienna nel 1683. Si dice che amasse gli uomini e fosse spietato in battaglia.

Alessandro Barbero

Eugenio di Savoia. Il segreto del guerriero


Il principe Eugenio di Savoia è uno dei più sfuggenti fra i grandi generali della storia. In 72 anni di vita non scrisse nulla che potesse svelare qualcosa del suo animo agli storici futuri, né diari né memorie né lettere private: solo una fitta corrispondenza d’ufficio, in parte autografa, in francese o in italiano, in parte dettata a segretari, in tedesco. Non si sapeva nemmeno di che nazionalità fosse, perché era sì un Savoia, ma d’un ramo cadetto ed era nato a Parigi; sua mamma era Olimpia Mancini, la più famosa delle mazarinettes, com’erano chiamate alla corte del Re Sole le scandalose nipotine del cardinale Mazzarino. Voltaire assicurò che era un francese, ma i suoi colleghi inglesi lo chiamavano «il vecchio principe italiano», e un avversario politico lo chiamò con disprezzo «un miserabile generale tedesco».

La fuga giovanile

È possibile che il silenzio in cui Eugenio avvolse la propria vita privata sia legato a gusti omosessuali che non aveva piacere di mettere in pubblico, sebbene la società di corte alla sua epoca non si scandalizzasse certo per così poco: i pettegolezzi vogliono che da ragazzino partecipasse a certe feste travestito da prostituta, ed è un fatto che quando, a vent’anni, scappò da Parigi insieme a un altro ragazzo per andare a combattere contro i turchi, lui e il suo compagno erano vestiti da donna. Nella maturità di Eugenio, con grande sollievo dei biografi moderni, circoleranno voci relative a presunte amanti femminili, una delle quali lo avrebbe distratto fino a farlo arrivare in ritardo sul campo di battaglia di Denain; ma Voltaire osservò perfidamente che «non si fa giustizia al principe Eugenio ritenendo che una donna avesse qualche parte nei suoi dispositivi di guerra».

Che nella sua personalità ci fosse addirittura una vena sadica era supposto da molti già allora, quando del sadismo non esisteva neppure il nome: il suo contemporaneo Jonathan Swift, l’autore dei Viaggi di Gulliver, osservò che nel fare la guerra Eugenio dimostrava «quella crudeltà della quale si accusano talora gli Italiani». Bontà sua: ma per gli inglesi di allora gli italiani erano ancora quelli di Shakespeare, rotti all’intrigo e amanti delle vendette.



Rifiutato da Luigi XIV

D’altra parte la guerra sul fronte balcanico era una guerra senza regole, dove ciascuno dei due avversari, cristiani e musulmani, attribuiva alla barbarie dell’altro le peggiori atrocità, e giustificava le proprie come sacrosanta ritorsione: al principe Eugenio spetta il dubbio onore d’essere stato uno dei primi generali a far saccheggiare e incendiare Sarajevo, come rappresaglia per l’uccisione di un suo ufficiale. Anni dopo, quando una viaggiatrice inglese visitò la sua biblioteca, uno dei presenti le assicurò che molti volumi in quarto sull’arte della guerra erano rilegati in pelle di giannizzero, ed Eugenio sorrise compiaciuto a questo scherzo, che la dama inglese giudicò «veramente elegante».

Oggi, grazie alla psicologia e alla psicanalisi, ci sembra di capire qualcosa di più dell’animo umano, e un filo sottile può collegare il ragazzino effeminato al massacratore di giannizzeri nelle guerre balcaniche. Al Re Sole, invece, parve che da un tipo così non potesse venir fuori un militare, e gli rifiutò un grado nel suo esercito. Fece male: Eugenio si arruolò nell’armata imperiale e servì gli Asburgo per tutta la vita. Ai suoi esordi fu tra i comandanti che fermarono i turchi a Vienna nel 1683. Il bilancio delle sue guerre è incomparabile: Eugenio diresse in vita sua dodici battaglie, e ne vinse dieci. Fra queste, almeno quattro, fra cui quella di Torino nel 1706, furono vittorie colossali, che comportarono l’annientamento dell’esercito nemico e decisero le sorti d’una guerra.



Tredici ferite

Era un’epoca in cui anche per i generali la guerra era fatica, pericolo e dolore fisico, non soltanto calcoli sulla carta geografica. In trentacinque anni di campagne, Eugenio fu ferito tredici volte: la prima ferita risale alla campagna d’Ungheria del 1684, quando era un colonnello di vent’anni, e la tredicesima alla battaglia di Belgrado del 1717, l’ultima della sua vita, quando di anni ne aveva ormai cinquantaquattro. Ma questo approccio statistico e l’uso di un termine tutto sommato rassicurante come «ferita» non deve farci sottovalutare l’impatto di quest’esperienza su un corpo che per tredici volte fu traumatizzato nel corso d’un’azione violenta, con palle di moschetto che si frantumavano contro l’osso, lunghe operazioni chirurgiche senza anestesia alla vana ricerca delle schegge, salassi ripetuti per evitare che la febbre ammazzasse il paziente, degenze di mesi con la piaga aperta nell’attesa che il corpo risputasse l’ultimo pezzetto di piombo. Il principe Eugenio ci passò tredici volte: era il suo mestiere, se l’era scelto, e ogni volta è come se dovesse di nuovo dimostrare al Re Sole (che fra l’altro era stato uno degli amanti di sua madre) che aveva fatto male a non dargli fiducia.



Tra due epoche

Come ogni generazione, anche la sua visse a cavallo fra due epoche, ed è sorprendente quanto di medievale ci fosse ancora nel mondo d’un giovane principe che si presentò all’imperatore Leopoldo chiedendo di poter entrare al suo servizio con un’elegante supplica in latino, ricevette in regalo dal duca di Lorena un paio di speroni d’oro alla conclusione della sua prima campagna, e si mantenne per diversi anni grazie alle rendite di due abbazie, fra cui la Sacra di San Michele, di cui era stato nominato abate commendatario dal papa.

Allo stesso mondo premoderno appartengono le relazioni cavalleresche mantenute con i generali nemici: all’assedio di Tolone, nella calura dell’estate provenzale, il comandante della guarnigione francese spediva ogni giorno ad Eugenio un carico di ghiaccio per rinfrescare le sue bevande; e durante le trattative per la pace di Rastadt Eugenio e il maresciallo Villars, negoziatori incaricati dalle due potenze nemiche, passavano le serate giocando a carte insieme; a soldi, beninteso, e con poste colossali. Erano davvero uomini diversi da noi: e forse è per questo che a distanza di tre secoli figure elusive come quella del principe Eugenio continuano ad affascinarci.


La Stampa – 15 aprile 2016

Italo Calvino cantautore


Lo sapevate che Italo Calvino fu anche uno dei primi cantautori e che Fabrizio De Andrè si ispirò a lui per La guerra di Piero?

Francesco Cevasco

Italo Calvino cantautore

Primo maggio 1958. Italo Calvino fa il suo esordio come «cantautore». Ma cantautore per davvero. E aveva pure la voce da baritono, finto baritono, quello da troppe sigarette. Al corteo della Cgil a Torino gli altoparlanti gracchiano la canzone Dove vola l’avvoltoio, scritta da Calvino, musicata da Sergio Liberovici. È una canzone con i partigiani buoni, o perlomeno dalla parte giusta, e i nazisti-avvoltoi cattivi. E contro la guerra. E per dire che non era, quella «canzonetta», una divagazione ludica di un già grande scrittore (aveva ormai pubblicato Il barone rampante e Il visconte dimezzato) leggete il confronto tra i versi del più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, e quelli di Calvino.

De André, La guerra di Piero, 1964: «Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente».

Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958: «Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar».



Era successo che un gruppo di scrittori e musicisti non ne potevano più delle canzonette che spopolavano a Sanremo, le definivano «figlie di una musica gastronomica» e avevano inventato una combriccola che si chiamava «Cantacronache». Il loro slogan era: «Evadere dall’evasione». Se l’erano inventato l’impiegato Rai Straniero, l’architetto Amodei e l’avvocato Jona. Erano giovani intellettuali torinesi, torinesi di cultura Einaudi per intenderci, che s’erano messi in testa di scrivere canzoni — come testimonia Francesco Giuffrida — in cui la realtà, i problemi grandi e piccoli di tutti i giorni, fossero il nucleo centrale della composizione, con buona pace delle mamme piangenti, dei vecchi scarponi, delle casette in Canadà, dei papaveri e papere.

A Calvino, come a Franco Fortini, l’idea piace da morire e scrive abbastanza in fretta un pugno di canzoni: Dove vola l’avvoltoio, Canzone triste, Oltre il ponte, Il padrone del mondo, Sul verde fiume Po, Turin-la nuit. Canzoni lunghe, a volte con ritornelli ossessionanti, di impegno politico, sociale, civile, dove c’è di mezzo la guerra, la pace, la Resistenza, la giustizia, l’ingiustizia, ma anche la fantasia delle favole che ti fanno tornare in mente le Fiabe italiane. Forse lo sa, o forse no, ma anche il Re degli Ignoranti, Adriano Celentano, è debitore a Calvino. La struggente favola di Celentano: Chi non lavora non fa l’amore evoca la Canzone triste di Calvino che a sua volta evoca la leggenda di Lady Hawk. «Erano sposi, lei s’alzava all’alba/ prendeva il tram, correva al suo lavoro./ Lui aveva il turno che finiva all’alba/ entrava in letto e lei ne era già fuori».

Calvino fa tutto questo per passione, non s’aspetta mai più al mondo che dall’altra parte del mondo qualcuno si accorga delle sue «canzonette». E invece…

Invece ecco che cosa succede in un caffè di New York nel 1959 dove incontra le allieve di un corso d’italiano e la loro professoressa. «Vogliono cantarmi, le ragazze — scrive Calvino in una lettera a Liberovici — una canzone italiana. Bene, dico io, già rassegnato a sentire la solita canzonetta napoletana o radiofonica in omaggio all’italiano di passaggio. Una ragazza ha una chitarra, suona, le altre cantano e cosa cantano? Eravamo in sette… in sette è l’incipit di Sul verde fiume Po… E poi tutte le strofe, una dopo l’altra… Questo per dimostrarti come Cantacronache sia popolare anche oltreoceano».



Bella soddisfazione per quell’accrocchio (molto snob ma molto sincero) di giovani intellettuali, musicisti, scrittori, salottieri abituali che si incontravano da Giulio Einaudi, da Luciano Foa, da Elsa de’ Giorgi e cantavano, senza paura di essere abbastanza stonati, le canzoni da loro scritte e musicate. Presa confidenza, il gruppo che, tra gli altri, comprendeva Fausto Amodei, Franco Fortini, Ignazio Buttitta, Valentino Bucchi, Margherita Galante Garrone, Giovanni Arpino, Gianni Rodari, cominciò a girare per l’Italia riempiendo quelle salette da cinquanta, cento quando andava bene, posti che erano i circoli culturali, le sedi sindacali, i ritrovi ricreativi ma anche i teatri veri per portare un’emozione più forte ma meno facile di rose-fior-amor alla Nilla Pizzi e successori. Per Calvino l’esperienza di Cantacronache fu anche una terapia. Era immalinconito perché sentiva la frustrazione di essere inutile rispetto al progetto gramsciano di cambiare la società attraverso il ruolo di scrittore. Forse con le canzoni…

Ma le prime esperienze discografiche non furono un grande successo. Ricordano Giovanni Straniero e Carlo Rovello nel libro Cantacronache, i cinquant’anni della canzone ribelle (Zona editore) che dopo la delusione di un «grande spettacolo mancato in un grande teatro» il gruppo ripiegò sull’idea di fare un vero disco di vinile. E ricordano così la presunta soluzione del dilemma: «Quello spettacolo di cronaca cantata con il quale il gruppo avrebbe dovuto esibirsi, alla fine naufragò, anche per mancanza di spazi adeguati. In quegli anni non erano ancora sorti i locali di cabaret.

A quel punto, Liberovici e compagni pensarono di affidare l’esecuzione delle loro prime canzoni a cantanti professionisti. A tale scopo si fecero ricevere presso la casa editrice Cetra di Torino, senza però ottenere alcun risultato. Il primo disco, intitolato Cantacronache sperimentale, fu quindi inciso con mezzi di fortuna, in un negozio di dischi. Liberovici contattò una giovane cantante, Franca di Rienzo, che si esibiva con i «Quattro del muretto di Alassio», la quale prestò la sua voce ai testi dei torinesi. Anche in questo caso il Cantacronache fece scuola.

Nasceva l’idea dell’autoproduzione, che avrebbe aperto la strada alle etichette discografiche indipendenti. Un altro tentativo di lanciarsi sul mercato discografico fu esperito a Milano, dove il gruppo presentò le sue composizioni alla casa discografica Ricordi. L’esito fu ancora negativo, ma lo stesso Nanni Ricordi, sentendo quei brani, cominciò a concepire l’idea di una canzone diversa. Nonostante questi insuccessi discografici, Italo Calvino e altri letterati che gravitavano attorno all’Einaudi incoraggiarono il Cantacronache a proseguire la sua attività. L’esordio davanti a un pubblico veramente numeroso avvenne al Premio Viareggio. In quella circostanza, i membri del gruppo eseguirono personalmente le loro composizioni, riscuotendo un certo successo».



E ancora oggi, Cantacronache può rivendicare di aver inventato la figura del cantautore: «Da quel giorno, rinfrancati da quell’esperienza gli Amici Torinesi decisero che avrebbero cantato da soli le loro canzoni, non avendo trovato cantanti professionisti disposti a farlo».

In realtà i cantanti che amano portare in giro le parole di Calvino ci sono ancora oggi. I Modena City Ramblers, un gruppo che piace non soltanto ai vecchi rimbambiti ma anche ai giovani svegli, ancora adesso cantano Oltre il ponte, di Calvino, naturalmente. E Grazia Di Michele, che ha partecipato per tre volte al Festival di Sanremo, dice: «Quando con Maria Rosaria Omaggio abbiamo inventato lo spettacolo Chiamalavita per l’Unicef, che aveva il senso di far qualche cosa per i bambini più sfortunati del mondo, ci è venuto in mente Calvino con e per le sue canzoni. Le abbiamo cantate e alla fine molti ci hanno chiesto: ma davvero quei testi erano di Calvino? E chi poneva questa domanda era anche chi conosceva i libri di Calvino. Immaginate quanto sarebbe contento lui, adesso, a sapere quanto siano ancora emozionanti le sue “canzonette”».


http://lettura.corriere.it/italo-calvino-cantautore-indie-pop/

Il maestro di nodi chiamato Aristotele



Esce un nuovo libro su Aristotele, visto come maestro di pensiero valido anche oggi.

Mauro Bonazzi

Il maestro di nodi chiamato Aristotele


Quando Dante arriva nel Limbo e vede la «filosofica famiglia», Aristotele è la figura di più alto rilievo: «Tutti lo mirano, tutti onor li fanno». Non era un elogio di circostanza, ma una presa di posizione decisa in favore di un filosofo fino a poco tempo prima guardato con sospetto, accusato di sostenere teorie incompatibili con la verità cristiana. Il suo fascino era troppo forte, la forza dei suoi ragionamenti ineccepibile: Aristotele è colui che ha mostrato di cosa è capace la mente umana, articolando tutte le conoscenze in un sistema completo, che rispecchia la struttura del mondo.

Aristotele stesso, del resto, che non peccava certo di modestia, aveva esaltato a più riprese l’importanza del suo progetto, convinto che grazie a lui il sapere umano avesse (quasi, bontà sua) raggiunto la perfezione

Conoscere altro non è che organizzare, disporre ogni cosa al suo posto, fare ordine, in modo che le parti e il tutto si tengano e la verità possa finalmente trionfare. Aristotele «il maestro di color che sanno», appunto, come si ripete ogni volta che lo si nomina. Il problema, però, è che quando si celebra troppo si finisce per imprigionare il celebrato in un’immagine di maniera, trasformandolo in una statua: alto sul suo piedistallo, con lo sguardo severo, in una posa seriosa, intento a ripetere qualcosa che non interessa più a nessuno.

Anche questo è successo ad Aristotele, che probabilmente non se ne sarebbe troppo preoccupato, continuando a fare quello che ha sempre fatto: indagare, cercare, analizzare. Perché, come Francesco Ademollo e Mario Vegetti mostrano nel libro Incontro con Aristotele (Einaudi), questa è la cifra più propria del suo pensiero, un’inesauribile curiosità per tutto quello che ci circonda, e un piacere quasi fisico per la ricerca e la scoperta.

Il sistema, scrivono i due autori, «costituiva semmai un orizzonte tendenziale di unificazione»; ma quello che davvero appassiona Aristotele è affrontare i problemi e cercare di risolverli. Non c’è niente che non meriti un po’ di attenzione e di tutto Aristotele s’interessò, senza distinguere tra alto e basso, nobile o volgare.



Trascorse vent’anni con Platone, discutendo di dialettica, astronomia e metafisica; ma intanto raccoglieva le opinioni della gente comune, convinto che tutti potessero offrire spunti utili per avanzare nella comprensione dei problemi. E per le sue ricerche scientifiche non si vergognò di frequentare allevatori, pescatori, cacciatori, interrogandoli sulla respirazione degli uccelli o su come copulano i polpi. Quando non ci pensava direttamente lui, inseguendo una rana in uno stagno o scrutando con attenzione un embrione di pollo: i suoi lavori zoologici (che costituiscono una parte consistente della sua produzione scritta, non andrebbe mai dimenticato) sono pieni di allusioni alle sue ricerche sul campo. «Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali vi è qualcosa di meraviglioso»

Filosofia non vuol dire del resto proprio questo, un amore ( philia ) per la conoscenza ( sophia ), tutta? «La natura offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne la causa, cioè sia autenticamente filosofo». Così, ad avere la pazienza di leggerli (perché a volte ci vuole proprio pazienza: i testi di cui disponiamo sono gli appunti personali delle lezioni, non opere destinate alla pubblicazione), si scopre che gli scritti di Aristotele sono pieni di problemi, domande, difficoltà — piccole crepe nel poderoso edificio del sapere, insignificanti solo in apparenza, soprattutto quando in discussione è l’uomo.

Si prenda l’anima. Da scienziato rigoroso quale era, Aristotele aveva costruito un intero trattato per spiegare che l’anima esprime la vita di un corpo, il fatto che un corpo vive: con buona pace del suo maestro Platone non ha senso affermare che è immortale o separata dal corpo. Era una tesi ragionevole, che rispondeva all’esigenza di collocare lo studio dell’essere umano all’interno del sistema fisico. Ma davvero noi siamo completamente riducibili al mondo fisico? Tutti i nostri pensieri sono espressione di processi corporei? Platone lo aveva negato: siamo anche altro. Coerentemente a quello che aveva sostenuto nelle pagine precedenti del suo trattato, Aristotele avrebbe dovuto affermarlo. Forse lo pensava pure. Ma non ne era sicuro e alla fine non si risolse, tenendo aperte entrambe le possibilità



Ha fatto male, obietterà qualcuno, perché il discorso risulta incoerente. Ma forse abbiamo noi raggiunto una risposta esaustiva, capace di eliminare tutti i dubbi? Del resto, il problema della ragione umana è ancora più delicato. Noi siamo animali razionali (la definizione, al solito, è di Aristotele). Disponiamo della ragione per orientarci nel mondo e per regolare le nostre relazioni con gli altri uomini: per conoscere e per agire. Sembrano affermazioni scontate; ma le due attività spesso sono in contrasto tra di loro. Per agire, per orientare le nostre azioni, abbiamo stabilito alcuni criteri regolatori: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto… Ma questi criteri non sembrano prioritari mentre usiamo la nostra ragione per conoscere il mondo che ci circonda. A volte non fa problema, ma a volte sì, e pure tanto, quando si pensa ai tanti temi sensibili in discussione oggi, dalla clonazione alla ricerca sugli embrioni. Cosa conta di più, allora, la conoscenza o l’azione morale? Quando l’uomo realizza veramente la sua natura di animale razionale: dedicandosi alla conoscenza o alla politica? È il grande dilemma tra la vita attiva e vita contemplativa: Aristotele lo ha posto e ancora oggi se ne discute.

Noi possiamo criticarlo per le sue esitazioni; di certo lui avrebbe sorriso vedendoci annaspare nel momento in cui comprendiamo l’entità delle questioni in discussione, quando ci rendiamo conto che quello che sembrava scontato non lo era. È questa la grandezza di Aristotele, ieri come oggi. Molte delle sue dottrine, dalla difesa della schiavitù al geocentrismo o al finalismo, sono ormai superate. Altre probabilmente lo diventeranno. Ma la lezione di metodo, l’onestà che lo porta a segnalare i problemi che rimangono irrisolti e la pazienza con cui continua a tornarci sopra sono la dimostrazione migliore di cosa è la filosofia.

«Quelli che vogliono trovarsi con le difficoltà risolte prima devono averle affrontate bene, perché la liberazione dalle difficoltà è la soluzione delle difficoltà che si sono affrontate prima; ma non è possibile sciogliere i nodi che non si conoscono e la filosofia aiuta appunto a vedere i nodi che si trovano nelle cose». In un’epoca come la nostra, ossessionata dal bisogno di risposte, sono parole che andrebbero meditate con attenzione.


Il Corriere della sera/La Lettura – 29 maggio 2016


Francesco Ademollo - Mario Vegetti
Incontro con Aristotele. Quindici lezioni
Einaudi
euro 22



Hieronymus Bosch e Michel Foucault. Il paradosso antico della nave dei folli



Secondo Michel Foucault alla fine del Medioevo il terrore collettivo per la lebbra viene sostituito da quello per la pazzia, vista dall’intelletto come totale alterità Nasce così la leggenda dell’imbarcazione in cui sono prigionieri i matti, immortalata da Bosch. Ma non basta isolare ciò che ci inquieta per esorcizzare il Male.

Massimo Recalcati

Scacco alla ragione. Il paradosso antico della nave dei folli

Alla fine del Medioevo la lebbra si ritira dall’Occidente dopo aver rappresentato per secoli il simbolo più scabroso del Male. Il personaggio del lebbroso come emblema dell’esclusione viene sostituito da quello del folle. Con questa osservazione storica inizia la celebre Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault. È in questo passaggio dalla lebbra alla follia che prende corpo la figura letteraria e leggendaria della Stultifera navis che, come ricorda Foucault, «ha ossessionato l’immaginazione di tutto il primo Rinascimento ».

Si tratta di uno strano battello costipato di folli che naviga senza una meta lungo i fiumi e del quale il fiammingo Bosch ha offerto una straordinaria raffigurazione alla fine del Quattrocento nel suo Nef des Fous. Qui la follia esprime l’ombra che accompagna la vita umana e dal cui spettro essa vorrebbe liberarsi. La sua dimensione tragica incarna ambiguamente l’orrore e la fascinazione per l’ignoto, l’oscuro, il Male, la Morte, l’eccesso, tutto ciò, insomma, che costituisce il limite della ragione diurna. È quello che simboleggia la strana imbarcazione della Stultifera navis: l’esclusione prende le forme di un allontanamento non solo territoriale- dalla terra ferma al mare -, ma soprattutto mentale dall’ordine della città.



Destinata a vagare senza meta sulle acque, la follia viene isolata e segregata. Non appartiene all’umano ma è una forma subumana del Male totalmente estranea al regno terso della Ragione. Come ricordano già Diderot e D’Alembert nella loro Enciclopedia, i deliranti sono coloro che, etimologicamente, escono dal solco normale della Ragione. Sono i devianti, gli spettri, i mostri, i degenerati, gli anormali destinati all’erranza perpetua. Il folle è un randagio, senza casa, senza radici, senza identità, espulso, come accadde per il lebbroso, dalla Comunità degli umani.

Il gesto violento che li scaccia dalla vita della polis definisce retroattivamente la natura immunitaria della Comunità dei normali. Il folle è infatti considerato un tabù, un corpo estraneo che deve essere spurgato, allontanato, escluso. I marinai diventano allora i loro custodi: essere stivati nella Stultifera navis e abbandonati sulle acque manifesta l’esigenza di un rituale simbolico di purificazione ma anche un imprigionamento senza alcuna possibilità di redenzione. 



La libertà di una navigazione senza rotta è, in realtà, una schiavitù impossibile da riscattare. Non siamo ancora al tempo dell’internamento medico-psichiatrico dei folli. La Stultifera navis non è un ospedale, non è un dispositivo ordinato, non è ancora il risultato di una pratica programmatica di segregazione. È piuttosto il tentativo di una cancellazione della follia da ogni diritto di cittadinanza.

In questa nuova prospettiva, secondo Foucault, la follia è destinata a smarrire ogni sua dimensione tragica per essere ridotta, come accadrà da lì a breve, a mera malattia del cervello. La sua segregazione istituzionale, come ha indicato con forza Franco Basaglia, avviene sul principio della sua disumanizzazione di fondo. Ma, come la psicoanalisi insegna, ogni politica di esclusione dell’Altro è destinata a vedere ritornare all’interno quello che viene rigettato ferocemente all’esterno. E’ la lezione tragica del Novecento: la Ragione che nel nome della difesa della sua purezza emargina la follia è la stessa che si rivela folle proprio in questa sua spinta auto-affermativa. Tutte le politiche puriste e fondamentaliste di anti contaminazione portano in se stesse il germe della follia più grande.


La Repubblica – 29 maggio 2016

Biblioteca "F.lli Rosselli" di Vado Ligure. Nati per leggere

Il segno femminile


Costantino imperatore politicamente corretto



Altro che visioni celesti, dall’indagine di Alessandro Barbero emerge il percorso mutevole di un monarca attentissimo al potere che affronta il problema religioso a partire dall'immediato interesse politico.

Amedeo Feniello

Costantino imperatore trasformista



Riparlare oggi della figura di Costantino può apparire anacronistico. C’è qualcosa ancora da dire su un personaggio su cui sono stati scritti fiumi di parole? Alessandro Barbero, invece, nel suo ultimo, importante lavoro intitolato Costantino il vincitore (Salerno) sostiene il contrario. Che su Costantino c’è ancora tanto da scavare e da raccontare. Basta non essere pedissequi e seguire una prospettiva originale e metodologicamente avvincente. Così Barbero accantona la storiografia sedimentata nel tempo, spesso caotica e fuorviante, ricca di episodi che fanno ormai parte della vulgata (ricordate la visione della Croce con la scritta in hoc signo vinces ?), ma spesso fondati su «un mero montaggio di congetture».

E sceglie, da par suo, un’altra strada. Irta di insidie, ma filologicamente corretta, che è quella di riprendere le fonti originarie, convinto che «ogni testimone coevo ha una sua versione degli avvenimenti che non dipende solo dalle informazioni fattuali di cui dispone, ma anche e soprattutto dal suo orientamento culturale e ideologico».

Barbero riprende le testimonianze più varie, da quelle letterarie — dei panegiristi come degli ideologi, tra cui emerge Eusebio di Cesarea — a quelle materiali della propaganda costantiniana, al corpus delle leggi promulgate durante il suo regno, alle lettere e agli editti imperiali relativi alla vita della Chiesa e alle sue controversie interne, riportati dai polemisti cristiani del IV secolo, fino alle orazioni e ai manuali di storia composti nei decenni successivi alla sua morte, prima che il mito sovrastasse il ricordo dei contemporanei.

Più che da biografo, Barbero lavora da investigatore. Con una domanda di fondo: le fonti su Costantino, cosa raccontano? Sostanzialmente, parlano di quattro momenti. Il primo, di ascesa, come figlio di Costanzo, tetrarca di un Impero romano diviso in quattro, il meno accanito nella persecuzione dei cristiani, che lo portò a raggiungere il titolo di Augusto e a scontrarsi con Massenzio, fino alla fatidica battaglia di Ponte Milvio (312), momento che si ammanta di un alone leggendario, con un comandante assistito dalle potenze celesti.



Il secondo è di ripartizione del potere con gli altri due Augusti, Licinio e Massimino, con l’alleanza stretta tra Costantino e il primo dei due; finché Licinio non liquida Massimino e l’impero è, ormai, affare loro, di Costantino e Licinio, che regnano beneficando largamente i cristiani, cui si spalanca un’epoca nuova, di prosperità.

Il terzo è l’epoca dello scontro con Licinio, che termina con la vittoria di Costantino solo dominus dell’impero ormai unificato, che associa al potere il figlio, Crispo.

Il quarto è il tempo dell’assestamento e della politica dinastica e religiosa, con l’eliminazione del figlio Crispo e della moglie Fausta; la definizione di una successione (Costantino jr., Costanzo e Costante); l’attenzione crescente verso le comunità cristiane; e l’impegno per ricucire le violente spaccature che dividono le Chiese d’Africa e d’Egitto con la convocazione del Concilio di Nicea (325); fino al suo battesimo e alla morte come membro della Chiesa.

Narrata così, la storia di Costantino non presenterebbe novità e si offrirebbe al lettore quasi priva di fascino, secondo una direttrice che parte dall’ascesa politica e arriva fino alla sua adesione al cristianesimo. Però, avverte Barbero, il percorso fu tutt’altro che lineare, con continui andirivieni, scompensi, cambiamenti che solo la tradizione e la vulgata hanno appiattito, fino a regalarci un’immagine, uniforme e incontrovertibile, di un sovrano che abbraccia la fede senza ripensamenti.
Riprendo un solo esempio nell’enorme mole di materiale presente nel libro e relativo alla numismatica. Le innumerevoli monete coniate durante il regno di Costantino costituiscono una fonte importante «per costruire il flusso della comunicazione politica indirizzata dall’imperatore ai sudditi». Cosa rivelano? La fortissima comunicazione simbolica e l’assoluta autorappresentazione. Con delle prospettive inattese.

Ci si aspetterebbe, ad esempio, dopo la battaglia di Ponte Milvio, svolta della nuova epoca, l’utilizzo dei simboli cristiani. E invece sulle monete non c’è la Croce, ma il dio Sole. Più di metà di tutte le monete messe in circolazione a nome di Costantino fra la vittoria di Ponte Milvio e il decennio successivo sono insomma dedicate al Sole che è, parole di Barbero, «l’invincibile compagno dell’imperatore, segno inequivocabile di una scelta religiosa clamorosamente ostentata e certo popolare».

Verrebbe da dire: e le visioni cristiane? E il signum raccontato da Lattanzio a Ponte Milvio? E la cristianizzazione dell’imperatore? La cartina di tornasole monetaria è in definitiva l’indizio forte di una complessa, se non tormentata, vicenda politico-religiosa, dove convivono a lungo ai vertici del potere decise forme di sincretismo, visto che monete d’oro con rappresentazioni del Sole riportate in un programma iconografico impegnativo (il Sole che incorona Costantino o gli dona la vittoria) sono pervenute ancora per il biennio 324-325, quasi nella fase cruciale del Concilio di Nicea.



Questo è solo un esempio, ma nel volume se ne possono enumerare tanti altri, come quello relativo all’Arco romano di Costantino sul quale, chiosa Barbero, «vista la proliferazione degli studi si ha l’impressione che, su di esso, anziché saperne di più ne sappiamo di meno». Testimonianze da cui scaturisce in definitiva un personaggio impossibile da ricomporre in maniera unitaria. Un Costantino mai simile a se stesso, abilissimo a manovrare la propaganda, prima tollerante e quasi alla ricerca di una prospettiva religiosa sincretica poi persuaso, negli ultimi anni di vita, di essere stato accompagnato e protetto dal Dio cristiano.

Una memoria (e una propaganda) imperiale che non si cristallizza con la sua morte, ma tende a plasmarsi ulteriormente. Col rafforzarsi delle leggende su apparizioni celesti e in hoc signo vinces . Mentre il ricordo di tanti contemporanei — pagani come cristiani — di un tiranno dispotico, autocratico, violento nel linguaggio e nei fatti, evapora e sfuma nel mito della lebbra che colpì l’imperatore, guarito dall’intervento salvifico di papa Silvestro. Leggenda che è il palinsesto su cui si elabora la costruzione della Donazione di Costantino e della respublica cristiana medioevale.


Il Corriere della sera/La Lettura – 22 maggio 2016

L'Italia giacobina di Renzo De Felice



Il fenomeno giacobino è stato complessivamente poco studiato in Italia. Uno dei contributi più importanti è stato quello di Renzo De Felice, più conosciuto (nel bene e nel male) per la sua monumentale biografia di Mussolini.


Francesco Perfetti

Il misticismo dei giacobini


L’immagine di Renzo De Felice studioso del giacobinismo italiano è sopraffatta dalla notorietà dello studioso dell’Italia fascista. Tuttavia, fino alla metà degli anni Sessanta, gli interessi storiografici di De Felice ruotarono attorno alla breve stagione rivoluzionaria dell’Italia napoleonica e post-napoleonica. Ciò fu dovuto alla frequentazione con Delio Cantimori, uno storico con grande sensibilità per la filosofia, il pensiero politico, la storia religiosa, la storia della cultura. Nacquero, così, i saggi dedicati agli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-99, a figure dell’evangelismo rivoluzionario, agli aspetti socio-economici della realtà romana e laziale nel periodo rivoluzionario, oltre al volume Note e ricerche sugli “Illuminati” e il misticismo rivoluzionario (1960).

Emersero subito, da questi scritti, sia la capacità di De Felice di analizzare i fatti riconducendoli nell’alveo del «concreto sviluppo storico» sia la sua tendenza a rifiutare qualsiasi tipo di vulgata storiografica.



Al dibattito sul giacobinismo De Felice offrì un contributo notevole attraverso lavori, che suggerivano l’importanza dell’approccio biografico e dell’analisi dell’opinione pubblica e della stampa periodica. In particolare, suscitò interesse la sua definizione del giacobinismo. Per De Felice il giacobinismo fu, sul piano politico, un movimento repubblicano democratico che si tradusse, sul piano sociale, in un egualitarismo che postulava la redistribuzione della proprietà privata, mentre, sul piano religioso, creò nuove forme di culto e, sul piano psicologico, rivelò una sensibilità intessuta di attese escatologiche sulla capacità rigeneratrice della rivoluzione. Walter Maturi commentò icasticamente la tipologia dello studioso osservando che se qualcuno si fosse permesso di chiamare giacobino un tizio che non avesse avuto quei quattro connotati, sarebbe stato «fulminato ipso facto» da un De Felice «intransigente come un domenicano».

La polemica accompagnò sempre la pubblicazione degli studi di De Felice. All’inizio degli anni Sessanta non fu risparmiata da critiche una sua antologia del giornalismo giacobino italiano (I giornali giacobini), che richiamò l’attenzione sul ruolo politico e di rinnovamento sociale della stampa giacobina e fece emergere temi che avevano agitato il mondo giacobino: libertà di stampa e diritto di «censura pubblica», rapporti con i francesi, diffidenza delle masse, difficoltà di formare uno «spirito pubblico» rivoluzionario e via dicendo. Dagli studi di De Felice – come dimostrò anche il volume antologico Giacobini italiani, curato insieme a Cantimori – emergevano le varie anime di un movimento ideologicamente variegato e composito.



La pubblicazione, nel 1965, di Italia giacobina costituì, se non l’ultima, una delle ultime incursioni defeliciane sul terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica prima del dirottamento di interessi verso il periodo fascista. Il volume conteneva un suggestivo profilo della storia d’Italia in età rivoluzionaria, risalendo fino al 1789, quando «nel cielo italiano» avevano cominciato «a dardeggiare i primi raggi del sole della Rivoluzione» senza attendere che con il 1796 la rivoluzione varcasse le Alpi al seguito delle armate francesi: il periodo 1789-1796 appariva a De Felice importante per individuare gli sviluppi che «i fiori italiani erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato».

Gli avvenimenti successivi al 1796, il cosiddetto «triennio rivoluzionario», venivano letti alla luce della politica francese. Il Direttorio non aveva concepito la campagna d’Italia come «guerra di liberazione», ma come operazione secondaria rispetto ad altri scacchieri, un mezzo per appoggiare la campagna dell’armata del Reno, assicurarsi territori utilizzabili come merce di scambio, rimpinguare le casse dell’erario, sovvenzionare le altre armate e autofinanziare quella d’Italia. 

Invece, Bonaparte aveva presentato la campagna come «guerra rivoluzionaria», ma lo aveva fatto per facilitarsi le operazioni militari e impostare una politica personale da imporre a Parigi. In conclusione, De Felice faceva vedere come sia la politica del Direttorio sia quella di Bonaparte, diverse nelle premesse, avessero finito, dal punto di vista italiano, per risultare identiche, puntando entrambe a impadronirsi delle ricchezze italiane e a impedire la creazione di governi popolari dotati di prestigio e forza propri e capaci di opporsi alla politica di sfruttamento economico della penisola o a scambi franco-austriaci o franco-spagnoli di territori italiani.



Il che spiegava perché le amministrazioni provvisorie, le municipalità, i governi insediati dai francesi o costituiti al seguito delle truppe francesi si fossero rivelati «screditati e passivi strumenti» della politica francese. Tuttavia, De Felice respingeva la condanna, basata sul canone storiografico della «rivoluzione passiva», che presentava il triennio giacobino come fase storica negativa ed effimera e sosteneva invece che «il movimento rivoluzionario italiano fu un fenomeno, pur nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».

Gli scritti di De Felice chiusero una fase della discussione sul giacobinismo, ma, al tempo stesso, costituirono la premessa dei suoi successivi studi sul fascismo. Egli, infatti, non avrebbe mai tralasciato di sottolineare motivi riconducibili ai precedenti interessi: la dimensione rivoluzionaria, per esempio, del movimento fascista; la mentalità democratica e illuminista presente nell’idea mussoliniana dello Stato educatore; la vocazione giacobina e totalitaria del fascismo.


Il Sole 24ore – 22 maggio 2016

La biblioteca di Walter Benjamin



In un saggio scritto nel 1931 il grande studioso racconta i suoi scaffali e soprattutto la sua passione per i libri.

Paolo Mauri

Benjamin, un flâneur in biblioteca


Nel 1931 Walter Benjamin scrive un breve saggio che si intitola “La mia biblioteca”. A Benjamin interessa far luce sulla figura del collezionista, cioè, come subito ammette, di se stesso. «Avete già sentito parlare di persone che si sono ammalate per la perdita dei propri libri» continua. Già in “Infanzia berlinese” si era soffermato sulla sua storia di lettore: nel capitolo “Vecchi libri” ricorda appunto i volumi che gli passava il maestro a scuola e nel capitolo “Armadi” ecco il piccolo Benjamin, rimasto solo in casa, frugare prima nell’armadio della biancheria e poi proprio in quello dei libri. «Spalancavo i battenti, cercavo a tastoni il volume che non era allineato con gli altri, ma stava nascosto dietro, nel buio; lo sfogliavo febbrilmente fino a trovare la pagina dov’ero rimasto e, inchiodato sul posto, divorando le pagine davanti all’armadio spalancato, mi studiavo di trarre il massimo profitto dal tempo che mi separava dal ritorno dei miei. Di ciò che leggevo, nulla capivo. Voci di fantasmi, rintocchi di mezzanotte, anatemi…».

Non possiamo immaginare che cosa avrebbe detto Benjamin se avesse potuto squarciare il velo del futuro e vedere questa nostra epoca in cui tutti scrivono (e si scrivono) grazie a strumenti molto sofisticati e insieme di semplice gestione. Certo è che anche il libro come contenitore di scrittura è destinato sempre più a misurarsi con la scrittura che corre liquida in rete e in ogni computer. I nuovi mezzi di comunicazione si chiamano “social”, ma in realtà consentono di mettere in primo piano (esibire?) il proprio privato e di “spiare” quello altrui, esprimendo pareri in forma talvolta di stereotipato geroglifico.



Nel ricordare The Old Wives’ Tale, un romanzo di Arnold Bennett uscito per la prima volta venticinque anni prima, cioè agli inizi del Novecento (se ne parla in questo volumetto alla pagina 35), Benjamin apre il suo discorso all’insegna di Oscar Wilde. «Di Oscar Wilde si racconta che una volta si trovò in una cerchia di persone e che la conversazione era caduta sulla noia. Ciascuno aveva espresso una sua piccola sentenza; Wilde tacque sino alla fine. Lo guardarono impazienti per l’attesa. Allora disse: “Quando mi annoio, prendo un buon romanzo, mi siedo presso il fuoco del camino e lo osservo con attenzione” ». Spesso non ci si rende conto che il come (e il dove) si legge ha una sua notevole importanza. Non tutti oggi possono godere del fuoco del camino, metafora del calore che viene dalle vicende narrate nel romanzo stesso, anche se parla di morte e di destino

Ma un libro è un oggetto che ha una sua perfezione. Come il cucchiaio, scrisse una volta Umberto Eco, intendendo dire che ci sono oggetti che si inventano una volta sola e durano per sempre. Robinson aveva con sé una Bibbia. Se avesse avuto un qualunque congegno elettronico, questo si sarebbe fatalmente scaricato e sarebbe in breve diventato inservibile. «Non c’è nulla di più bello che stare sdraiati su un sofà e leggere un romanzo» scrive Benjamin introducendo il suo discorso sul teatro epico di Brecht, che vede invece gli spettatori partecipare collettivamente a quanto accade in scena. Il fatto è che Benjamin si preoccupa di illuminare, come si è già detto, il futuro, dove l’opera d’arte si vale di tecniche riproduttive che permettono una sorta di creatività e fruizione collettiva. Rispetto a Benjamin noi viviamo già quel futuro e possiamo trarre qualche conclusione forse non del tutto provvisoria.

Benjamin ricorda che durante la rivoluzione del 1848 Dumas pubblicò un appello agli operai di Parigi in cui si presentava come un loro simile. In vent’anni, diceva, aveva scritto quattrocento romanzi e trentacinque drammi, aveva dato pane a 8160 persone: correttori e tipografi, macchinisti e guardarobiere, senza dimenticare neppure la claque.

È raro ma non impossibile che uno scrittore produca come una fabbrica: Balzac, Simenon, Wilbur Smith, Camilleri e tanti altri sono lì a dimostrarlo, e la tendenza dell’industria culturale è quella di arruolare scrittori prolifici nella fabbrica del bestseller, in una catena di montaggio che vede intrecciarsi autore, editore e pubblico senza più soluzione di continuità. Una scrittura originale e magari un po’ ostica è un vero tormento per il grande pubblico, e va decisamente controcorrente.



Per tornare all’immagine di Benjamin, quando erano in pochi a scrivere e in pochi a leggere il rapporto tra creazione e consumo era più semplice e diretto: chi scriveva somigliava a chi leggeva. E le biblioteche personali contenevano pochi libri fondamentali. In una società di massa può capitare che un lettore legga per tutta la vita senza mai incontrare un’opera degna di questo nome. In fondo non fa altro, questo ipotetico lettore, che adeguarsi al canone provvisorio che l’industria culturale prepara per lui giorno dopo giorno. Ma sull’industria culturale è già stato scritto tutto, nel bene e nel male. A mio parere, essendo produttrice di beni di consumo in grande quantità, è certamente una ricchezza per tutti, purché prima o poi si impari a consumare, così come si impara ad usare il cucchiaio stando a tavola. Tanto più il cucchiaio- libro.

Uno dei difetti dei pensatori troppo affascinati dai paradisi che verranno è quello di trascurare l’intervento diretto sul Presente, cercando di correggere quello che è possibile correggere. Per esempio, aiutati anche dal comportamento del mercato, possiamo pretendere che i libri, almeno in una certa misura, rimangano quello che sono da qualche secolo. Se ci piacciono così, perché dovremmo accettare l’idea che scompaiano? In fondo l’avvento delle automobili non ha eliminato le biciclette, dunque l’ebook può anche convivere a lungo con il libro di carta. E il piacere del testo di Roland Barthes si può incrociare con il piacere di leggere evocato da Benjamin.

«Come si spiega un grande successo editoriale?» si chiede Benjamin (il testo è qui alla pagina 43) ragionando non su un romanzo, ma su un libriccino dedicato alle erbe medicinali svizzere. Un manuale, insomma. «Al critico, cui i denti sono diventati traballanti dopo tanta pappa di romanzi, essi possono mostrare cosa ci vorrebbe ». Essi si basano infatti su una antica antitesi, quella tra luce e tenebre. Nel nostro caso si sta tra erbe ed erbacce, ma l’assunto è chiaro: bisogna saper toccare il cuore del problema, dove si nasconde la grande poesia.


La Repubblica – 1 giugno 2016

Miti ebraici. La torre di Babele

    Brueghel, La Torre di Babele

E se la Torre di Babele invece che un castigo fosse stata un'opportunità? Una pagina da “Miti ebraici”, l'ultimo libro di Elena Loewenthal.


Elena Loewenthal

La torre di Babele, più un dono che un castigo



Come per il morso al frutto proibito, anche per la torre di Babele si potrebbe dire: «Peccato per quel che è stato, certo. Ma anche: meno male che è successo». Se Eva e Adamo non avessero trasgredito il divieto divino e assaggiato il frutto della conoscenza che diede loro la consapevolezza di essere mortali, la storia si sarebbe fermata laggiù, nel giardino dell’Eden, ancor prima di cominciare.

Allo stesso modo, se Dio, tanto per cambiare, non si fosse arrabbiato con l’umanità che ci aveva messo appena una generazione per diventare ancor più corrotta di quanto non fosse prima del diluvio, e non avesse confuso le lingue dopo la storia che tra poco verrà, avremmo parlato tutti la stessa lingua, ci saremmo capiti, forse, senza neanche il bisogno di parlare, non sarebbero esistiti il dubbio e la metafora, l’equivoco e l’allusione, e soprattutto mai sarebbe venuto al mondo quel tesoro di suoni e parole, di emozioni e figure, di storia e segreti, che sono tutte le lingue messe insieme. Un tesoro inestimabile, grazie al quale ci si capisce meglio di quanto ci si capirebbe se parlassimo tutti sempre e soltanto la stessa lingua.

«Dalla creazione del mondo non vi è stato nessuno come Nimrod, gran cacciatore di uomini e animali e peccatore davanti a Dio» (Genesi 10, 9).



La follia di Nimrod

Tutto ricomincia così, tanto per cambiare. Con un re che, forte delle doti che ha ricevuto da Dio, si monta ben presto la testa e decide che può sfidare Lui, le sue leggi. Decide che può persino prendere il Suo posto e diventare un oggetto di culto. Di onori quali si tributano alle divinità, anche se è soltanto un uomo, appena più potente e forte di tutti gli altri. È proprio Nimrod a covare l’idea di una torre che arrivi lassù e oltre, giusto per dimostrare al Creatore che deve temerlo.

La generazione del diluvio non avrà parte nel mondo a venire, è morta per sempre. Perché? Perché un bel giorno quella gente decide così: «Su, costruiamoci una torre per salire in cielo e squartarlo a colpi d’ascia, facendo scendere tanta pioggia!» A dire il vero, sono divisi in tre fazioni. La prima dice: «No, saliamo in cielo e stabiliamoci lassù». La seconda vuole andare così in alto per essere più vicina agli dèi che adora, mentre la terza desidera ingaggiare una battaglia contro l’Eterno. Tutti propositi assurdi.

    Toeput, La Torre di Babele (1835)

Improvvisamente il caos

La torre di Babele è insomma una follia collettiva. O meglio, una follia che qualcuno trasforma da propria in comune, travolgendo tutta l’umanità in quel turbine edilizio sempre più folle. Nimrod ha concepito l’opera come un atto di ribellione a Dio, come una sfida tesa a dimostrare all’Eterno che lui, umano, può arrivare allo stesso livello, se non ancora più in alto.

I lavori cominciano. E vengono assoldati seicentomila uomini. «Su, facciamoci una torre che arrivi sino al cielo, così ci conquisteremo una nomea in tutta la terra!» comincia a echeggiare il richiamo. Fra chi costruisce mattoni e chi li poggia uno sopra l’altro, la frenesia aumenta di giorno in giorno. I mattoni diventano più preziosi delle vite umane: le donne non possono smettere di lavorare neanche durante le doglie, partoriscono sfornando laterizi, e se un laterizio cade e si rompe è una tragedia collettiva, mentre se a precipitare dalla torre in costruzione è una vita umana, tutti restano indifferenti.

La torre diventa così alta che ci vuole un anno per arrivare in cima. Da lassù gli uomini scoccano frecce verso il cielo e si convincono di riuscire a sterminare coloro che vi risiedono. Allora Dio decide che è arrivato il momento. Che non può più stare a guardare quell’inaudito atto di umana protervia. E scende. Scende fino a lambire la torre di Babele, e da lì confonde la lingua, che sino ad allora è stata una soltanto per tutta l’umanità.

Da quel momento, ma forse anche da prima, nessuno capisce più l’altro, nessuno sa più che cosa dice il vicino. La parola diventa un suono confuso, imperscrutabile. Uno chiede malta e l’altro gli porge un mattone, il primo si arrabbia e come se niente fosse uccide il collega a causa dell’equivoco. Coloro che prima lanciavano senza sosta le frecce contro il cielo nella convinzione di abbattere l’Eterno, cominciano a colpirsi a vicenda, morendo come mosche. Ben presto regna il caos più totale e nello spazio di un momento o poco più la torre diventa un cumulo di macerie, distrutta dalla stessa arma con cui è stata concepita e innalzata: l’umana protervia.

Della torre, che si polverizza all’istante, una parte sprofonda nella terra, l’altra viene consumata dal fuoco. Il luogo dove una volta s’ergeva procura a chiunque passi nei pressi un oblio totale e istantaneo.

    Elena Loewenthal

Sempre meglio del diluvio

Mentre la gente, la gente non si comprende più: ogni individuo usa una lingua diversa. Babele diventa il luogo della confusione, dell’incomprensione. Bisogna imparare a capirsi di nuovo, da una lingua all’altra. A piccoli passi. Parola per parola. È un castigo certamente più blando rispetto al diluvio e allo sterminio totale che la generazione precedente si è meritata. Forse non è stato nemmeno un castigo vero e proprio, ma un modo per attestare la complessità del genere umano, per moltiplicare la sua capacità di espressione, le infinite sfumature di ogni parola in ognuna delle tante lingue del mondo.

Forse è stato più un dono che un castigo, la torre di Babele.


La Stampa – 8 maggio 2016

Arte e Genere. Il Segno Femminile, tratti e simboli femminili in opera



Arte e Genere. Un modo differente di confrontarsi con l'opera artistica. Una riflessione stimolante. Un'occasione da non perdere.

Il Segno Femminile, tratti e simboli femminili in opera

a cura della Redazione di Eredibibliotecadonne

Da sempre l’arte è uno strumento espressivo fondamentale e imprescindibile nella vita degli uomini e delle donne, per questo motivo la comunità Eredibibliotecadonne ha proposto tra le sue attività per questo anno 2016 una mostra-incontro con una selezione di opere d’arte che connettano la cultura contemporanea alle radici profonde dell’essere: “Il Segno Femminile, tratti e simboli femminili in opera”

In nome di un’idea universalistica dell’arte le donne faticano ad imprimere il segno della sessuazione femminile nelle loro opere. Eredibibliotecadonne rivolge invece la sua attenzione a quelle artiste che nella creazione artistica non prescindono dal corpo che ‘sono’, né temono di esprimersi a partire dalla loro esperienza di donne. L’opera d’arte va considerata come medium comunicativo a tutti gli effetti, utile per esternare un modo di essere, anzi uno stato consapevole del proprio essere; l’espressione artistica se autentica non può prescindere dalla differenza sessuale e quindi dalla percezione di sé come appartenente all’umanità dal lato maschile o femminile. Il gesto artistico femminile a nostro parere non può sottrarsi alla metafora dell’esperienza creativa materna come non può non rapportarsi alla presa di coscienza delle donne avvenuta con la rivoluzione femminista iniziata alla fine degli anni ‘60.

Il Segno Femminile alla sua prima edizione vuole essere quindi un’occasione di confronto sulla valenza sociale e culturale dell’espressione femminile nell’arte in quanto linguaggio universalmente accessibile e fruibile dalla comunità, un’agorà nella quale i punti di vista di chi crea e chi fruisce incontrandosi possano dar vita ad un processo di trasformazione di entrambi e della realtà intorno. Eredibibliotecadonne ha improntato a questa visione la selezione delle artiste presenti alla mostra.

Chiamiamo Mostra-Incontro un’iniziativa che vuole andare oltre la consueta esposizione di opere o il dibattito sul tema delle donne nell’arte, ma veda le artiste parlare in presenza delle opere esposte e della propria esperienza nel mondo dell’arte.

Ogni artista parteciperà con opere realizzate con tecnica libera e appartenente alle seguenti categorie: pittura, scultura, fotografia, illustrazione, grafica. Ma soprattutto con opere che meglio traducono la propria esperienza di donna attraverso l’arte.

La Mostra-Incontro si svolgerà dal 4 al 12 giugno 2016 nella sede dell’Associazione Culturale ‘Il Labirinto’ – Via Famagosta 10-12, con apertura giornaliera dalle 16,30 alle 19,30 inclusi festivi e inaugurazione il 4 giugno ore 17.30.

Le artiste amiche delle Eredi che hanno aderito al progetto: Elisa Traverso Lacchini, Rosanna LaSpesa, Lia Franzia, Laura Bonfanti, Vanessa Cavallaro, Marina Rossi, Tiziana Cau, Linda Finardi, Laura Peluffo, Maria Paola Amoretti, Maria Luisa Montanari.


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