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Sciarada, una voce arcana

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Il profondo messaggio dell'enigma che risale agli albori del pensiero

Raffaele K. Salinari

Sciarada, una voce arcana

Proviamo a chiederci come mai, in quest’epoca di smartphone e video virali, di notizie in tempo reale e multimedialità imperante, il settimanale più venduto in Italia resta La Settimana Enigmistica. Chi di noi non ha messo alla prova il suo acume almeno una volta attraverso la Pagina della Sfinge cercando di risolvere una sciarada ad enigmi collegati? Oggi, ad uno sguardo superficiale, può sembrare un banale passatempo da pendolari; ma perché dai quei quadratini neri tra una parola e l’altra di un semplice cruciverba emana ancora un affascino che ci trattiene sulle pagine con la forza di un incantesimo: da dove viene questo potere? Forse dagli albori del pensiero, quando la soluzione dell’enigma portava un messaggio drammaticamente profondo, abissale.

La morte di Omero

Una storia tra le più antiche, ripresa anche da Aristotele, ci narra le circostanze della morte di Omero, il più sapiente tra gli uomini, come dice Eraclito di Efeso. Sappiamo che il cantore dell’Iliade morì nell’isola materna di Io «di scoramento» per non essere stato in grado di interpretare la risposta che alcuni giovani pescatori avevano dato alla sua domanda su cosa avessero preso; quelli, non avendo preso alcun pesce, ma intenti a spidocchiarsi, così risposero: “Ciò che abbiamo preso lo abbiamo gettato e ciò che non abbiamo preso lo portiamo con noi”. Essi si riferivano ai pidocchi di cui si erano appena liberati e a quelli che ancora li tormentavano, ma Omero, non riuscendo a capirlo, morì.

Molti secoli dopo, durante la Seconda Guerra mondiale, i Nazisti concepirono una machina che cifrava le loro comunicazioni e la chiamarono con lo stesso nome di ciò che aveva determinato la morte di Omero: Enigma; lo stesso nome per la stessa essenza: qualcosa che evoca l’oscuro, l’ambiguo, a volte lo spaventoso, il malevolo, il perturbante, ma soprattutto, alla sua scaturigine, il divino.

E allora, come nasce l’enigma? Da dove prende la sua natura? Per rispondere a queste domande dobbiamo risalire il tempo sino a quando la comunicazione tra gli dei e gli uomini era ancora possibile, prima delle nozze di Cadmo ed Armonia, l’ultima volta che le due razze si incontrarono convivialmente sulla terra.



Enigma e sapienza

L’epilogo esiziale dell’episodio omerico può sembrare eccessivo ma, come fa notare Giorgio Colli nel suo La nascita della filosofia, l’enigma è legato direttamente alla nascita della sapienza.

Omero, infatti, è ancora un sapiente, non un semplice filosofo «amico della verità», della aletheia, cioè letteralmente di «ciò che non è nascosto», ma un conoscitore della sofia, delle cose ultime, di «quelle cose» come le definisce il canto orfico di Pindaro: «Felice chi entra sotto terra dopo aver visto quelle cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus». Il punto dunque è questo: perché egli muore «di scoramento» per non aver risolto l’enigma? Perché al tempo mitico del poeta l’enigma non era ancora diventato solo una forma di contesa tra uomini di cultura, una sfida tra due pensatori che, com’era costume nell’antica Grecia, facevano del dominio del logos la più alta forma della potenza umana.

In illo tempore l’enigma, in altre parole, non si era ancora secolarizzato, cioè non aveva perso quella carica sacrale che possedeva in origine e mercé la quale era nato. Il cantore cieco, abbiamo detto, era un sapiente – anche la sua cecità mantica, come quella di Tiresia e poi di Edipo, ce lo conferma -, cioè in grado di scrutare, con gli occhi chiusi sul mondo dei fenomeni, la trama invisibile che gli dei tessono attorno alle cose per unirle tra di loro attraverso una mistica armonia, insensibile ai più, ma chiaramente udibile dal saggio.

Ed è propriamente la natura di questa trama nascosta, «più forte di quella manifesta», come ci ricorda Eraclito, che il sapiente originariamente ricerca, nella quale egli vuole essere immerso totalmente; non pensarla semplicemente come altro da sé, un oggetto del pensiero- come filosofia insomma – ma come stato ontico del suo esserci nel mondo. Ecco perché, come ci ricorda anche Platone nelle cui parole risuona la nostalgia per il tempo della saggezza rispetto a quello della filosofia, questa è già una sconfitta, un livello inferiore di conoscenza, mediata e dunque non più autentica, delle cose ultime.

Per Omero, allora, non risolvere l’enigma era una condanna a morte come quella in cui incorrevano i tebani prima che Edipo svelasse quello della Sfinge.

La risposta all’enigma come ricerca della ragione dell’esistenza risale dunque agli albori della relazione tra gli uomini e gli dei dell’antichità Grecia, alle sue radici sciamaniche; al tempo di Empedocle e Talete, quando la parola divina poteva ancora trasmettere agli umani una traccia del mistero della vita. E questa comunicazione aveva una forma oscura, ambigua, come lo sono gli dei e le loro verità; era veicolata da un sintagma non immediatamente intelligibile dal pensiero: una frase enigmatica.

Aristotele cerca di darne una definizione: “Il concetto dell’enigma è questo: dire cose reali collegando cose impossibili”. Ora, dato che per Aristotele – il filosofo del terzo escluso e del principio di identità sui quali si basa tutta la logica occidentale – collegare due cose impossibili significa formulare una contraddizione, la sua definizione designa qualcosa di apparentemente aporetico che, invece, contiene un concetto coerente. E a questo punto che Aristotele introduce la metafora dato che, per collegare cose in apparenza contraddittorie, non bisogna intenderle nel loro significato letterale ma trasportarle oltre questo, cioè metaforizzarle. Anche l’uso della metafora dunque, chiosa Colli, sarebbe connesso all’origine della sapienza.

E allora, prima che l’enigma divenisse una contesa tra uomini di cultura o, come ai nostri giorni, un semplice gioco di società o un esercizio mentale o il nome di una macchina cifrata, chi lo emetteva, e chi lo interpretava?



Apollo e Dioniso

Nel suo famoso saggio La nascita della Tragedia, Nietzsche attribuisce a Dioniso il ruolo di divinità capace di dare agli uomini l’accesso alla saggezza attraverso l’ebbrezza estatica. Ma il dio epidemico, il dio che muore e rinasce, l’archetipo della vita indistruttibile, come lo definisce Kerényi, non è il solo a poter esercitare una simile ascendenza tra gli uomini, dato che il suo alter ego, Apollo, da sempre detiene il possesso della mantica, l’interpretazione degli enigmi attraverso cui il dio si esprime nel santuario di Delfi.

L’enigma, o meglio la sua forma spaziale, nasce però con Dioniso, e ben cinque secoli prima che il culto di Apollo sia introdotto a Delfi: nella mitica Creta dagli stupendi palazzi senza mura, troviamo già scritto, su una tavoletta di argilla, il nome di Arianna, la «signora del labirinto». La figura di Dioniso è legata a questa prima manifestazione divina di cui abbiamo una testimonianza arcaica. Ariadne, da ari molto, e adnós sacro, puro, la «molto sacra» dunque, è al tempo stesso carnefice e vittima di Dioniso, ma anche sua sposa e liberatrice, donna e dea. Una serie di ruoli che ce la tramandano come l’epitome stessa dell’enigma. «Chi sa cosa è Arianna»? si chiedeva giustamente Nietzsche, ponendo così una domanda che riassume tutto il mistero di questo archetipo delle relazioni tra enigma e conoscenza.

Il mito del labirinto è noto, almeno nella sua forma aneddotica. Ma cosa ci narra il mitologema, cioè il cuore simbolico del racconto, pur nelle sue infinite varianti, a proposito della saggezza e dei suoi enigmi? Qui siamo di fronte alla manifestazione del divino nelle sue forme più possenti e spaventose, arcaiche, di fronte al Dioniso cretese, figlio, paredro e vittima della Grande Dea minoica: Arianna stessa.

Il suo messaggio di saggezza all’umanità e annichilente, com’era guardare senza schermarsi gli occhi la luminosità del divino, o sporgersi nell’estasi verso il vortice in cui gorgoglia la Zoé, l’esistenza senza caratterizzazione alcuna. E questa esistenza primigenia, fonte di ogni saggezza, agli occhi dell’umanità assume una forma simbolica precisa ed al tempo stessa indefinita: il labirinto. Umberto Eco, cui tra le altre cose dobbiamo la brillante introduzione al libro di Paolo Santarcangeli sui labirinti, sostiene che un labirinto è «un luogo in cui è facile entrare ma è difficile uscire».

E dunque, prima di tutto, è la forma stessa del labirinto che ci segnala un enigma sotto forma di costruzione, non solo fisica ma della mente. Platone, nell’Eutidemo, per ricordarci questa analogia tra dentro e fuori, usa l’espressione «gettati in un labirinto», proprio per attestare l’inestricabile complessità dell’esistenza. E poi il Minotauro, metà uomo e metà toro, col corpo coperto di stelle – Asterios, come si chiamava – non esprime forse la confluenza tra il bestiale ed il divino, tra il razionale e l’irrazionale? Non è dunque l’epitome dell’umano? Schopenhauer scioglie così il significato enigmatico del mito: attraverso la ragione – simboleggiata dal filo di Arianna – si raggiunge la conoscenza della condizione umana – la vita del Minotauro – e della via per sconfiggere il dolore: la morte del bestiale figlio di Pasifae come metafora della liberazione dalla condizione di sofferenza. Questa è la saggezza che ci trasmettono gli dei attraverso il tortuoso percorso del labirinto. Non a caso è Schopenhauer a dircelo, il filosofo più vicino al pensiero dell’Oriente: nelle Upanishad troviamo, infatti, questa frase: “Perché gli dei amano l’enigma, e ad essi ripugna ciò che è manifesto”. Lo stesso concetto lo ritroveremo in Eraclito.

La figura di Dioniso cretese è dunque spietata nel suo messaggio: sarà il suo amico Sileno a rammentare a Creso che la somma saggezza consiste nel non essere mai nati o nel morire giovanissimi. Col passaggio alla classicità Greca il dio diventerà più amico degli umani, si trasformerà nell’ispiratore di quella figura a metà tra apollineo e dionisiaco che è Orfeo, nei cui Misteri l‘enigma delle cose ultime verrà svelato agli iniziati pur restando ineffabile. Il suo oracolo, presso l’isola di Lesbo, dove la testa mantica del poeta era stata trasportata dalle onde del mare Egeo, gli eroi greci erano andati a chiedere responsi prima di partire per la guerra di Troia.

E così, inevitabilmente, quando si indagano le relazioni tra enigma e saggezza, non si può che arrivare ad Apollo, «il signore il cui oracolo è a Delfi» e che, come afferma Eraclito, «non afferma né smentisce ma allude». Ed è Apollo stesso che parla per bocca della Pizia, dicendo «cose senza riso, né ornamento, né unguento». E pure, Apollo, come Dioniso, quando esprime le sue sentenze è oscuro ed a volte crudele, ambiguo, come le frecce del suo arco che uccidono da lontano, come l’esistenza stessa degli dei creati dagli uomini.



Ma, e qui sta l’arcano, l’oracolo che emette la Sibilla non è intelligibile da chi lo pronuncia: non è la Pizia che può interpretare le parola del dio, ma il veggente, il saggio. Ecco dunque il nesso primario tra saggezza ed enigma: solo il sapiente è in grado di sciogliere l’enigmatica sentenza oracolare, e spesso questo può significare vita o morte. Pensiamo alla Sfinge ed ad Edipo. Mandata sulla terra dagli dei per mettere alla prova la conoscenza degli uomini, solo chi rispondeva all’enigma si salvava: in altre parole solo chi penetrava la trama nascosta ed obliqua delle cose divine aveva il diritto di vivere.

Dice Gregory Bateson: “All’enigma della Sfinge ho dedicato cinquant’anni della mia vita di antropologo. È di importanza primaria che la nostra risposta sia in armonia col modo in cui gestiamo la nostra civiltà e ciò dovrebbe a sua volta essere in armonia con il funzionamento effettivo dei sistemi viventi […].

Inoltre le nostre idee su come rispondere all’enigma della Sfinge sono oggi in uno stato fluido. Ciò che noi crediamo di essere, dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del mondo intorno a noi”.

L’enigma diviene così, per l’uomo contemporaneo, un sorta di specchio attraverso il quale egli cerca di svelare la sua propria enigmatica natura: ma non era forse questo lo scopo della domanda oracolare dell’antichità? Chi aspira alla “normalità” non è forse già fuori dalla comprensione dell’esistenza? Riverberando queste antiche reminiscenze alcune sensibilità si sono servite dell’analogia tra enigma e spirito del tempo per esplorare i lati oscuri della modernità. Un esempio lo troviamo in Walter Benjamin che, quasi descrivendo se stesso, ci regala l’immagine di un uomo che «sul punto di attraversare la soglia della scomparsa storica, già ombra, risponde un’ultima volta al richiamo della sua enigmatica identità, prima di tuffarsi là dove nessuno più lo aspetta»: è il gesto di un’avanguardia disperata, l’abbandono di un essere nel mondo del quale rifiuta i contorni, le determinanti fondamentali.

L’affermazione di Benjamin esprime così tutta la sua valenza profetica: emette il suo oracolo perché l’idea, lungi dall’essere la deriva di un singolo, dichiara invero l’oscuramento del mistero, ci consegna il fato di un enigma divino oramai inintelligibile perché nascosto sia dalla luce abbagliante della razionalità, cifra della modernità, sia dalla visione teologica di matrice giudaico-cristiana. San Paolo, il fondatore della teologia politica, sancì questa impossibilità a cogliere la divinità attingendo all’enigma, affermando che si poteva contemplare Dio solo per speculum in aenigmate, cioè come semplice riflesso fideistico nelle verità ultime.



Enigma e La Settimana enigmistica

E così, non solo la nascita della filosofia vera e propria, ed il suo impetuoso sviluppo nella classicità Greca, ma il regno dell’Evo giudaico-cristiano, di fatto sviliscono la portata sacra e terribile dell’enigma come voce del dio e lo riducono a competizione tra intellettuali che, non più come Omero, sono disposti a perdere una contesa dialettica ma non certo la vita.

«Così la neve al sol si disigilla, così al vento ne le foglie levi, si perdea la sentenza di Sibilla», dice Dante nel canto XXXIII del Paradiso.

In epoca ellenistica, così come romana, si interrogavano ancora gli oracoli, sparsi per tutta la Magna Grecia ed in Italia: i Libri Sibillini ad esempio, erano una raccolte di oracoli, ma ridotti a semplici profezie o come regole di comportamento e fonte giuridica divina, come nel caso del primo Diritto romano, non come porta verso la saggezza. Poi, con l’era Cristiana, solo alcune Sibille itineranti vennero ascoltate più per tradizione popolare che per genuino ascolto della voce degli dei, dato che al panteon greco-romano si era da tempo sostituito l’unico vero Dio.

Solo nei libri alchemici, per espressa necessità degli adepti, l’enigma permane ad occultare le verità esoteriche agli occhi dei profani. Come ci ricorda Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim, considerato il principe degli alchimisti del XIV secolo, miracolosamente sfuggito all’Inquisizione: “Nessuno deve adirarsi se abbiamo dovuto nascondere la verità delle scienza sotto l’ambiguità degli enigmi, In realtà non l’abbiamo nascosta ai sapienti ma agli spiriti malvagi”.

Ma, proprio per questo ritirarsi dell’enigma come voce della natura superiore, prosegue la sua secolarizzazione. Agli inizi del ‘600 Giulio Cesare Croce, l’autore di Bertoldo e Bertoldino scrive due libri di enigmi: Notte sollazzevole di cento enigmi da indovinare, aggiuntovi altri sette sonetti del medesimo genere con le loro dichiarazioni nel fine (Bologna, 1594) e Seconda notte sollazzevole di cento enigmi da indovinare (Bologna, 1601). Nella seconda metà del ‘700 in Francia nasce la charade, indovinello la cui soluzione è composto da più enigmi concatenati, come nella trama dell’omonimo film di Alfred Hitchcock, con Cary Grant e Audrey Hepburn.

Nonostante quest’ultima filiazione: dalle parole oscure della divinità ad una intelligenza totalmente prodotta dall’uomo, l’enigma scivola verso i giochi di parole, oramai confinati nella pagina della Sfinge nella Settimana Enigmistica il settimanale, fondato negli anni ‘30 da Giorgio Sisini, più venduto in Italia. Eppure, al netto delle sue tante imitazioni, forse l’unica produzione di massa in cui si può ritrovare ogni giovedì, ora anche in rete, una lontanissima eco della temibile voce degli dei, rivivere a distanza di millenni il confronto tra Edipo e la Sfinge. Qualcosa, ombra nell’ombra di «quelle cose», ci affascina ora come allora con la sua oscura presenza. Nel profondo della nostra sensibilità desacralizzata la scintilla della saggezza che viene dal divino brilla sempre, attizzata seppur debolmente dal mistero che emana ancora da questi pallidi indovinelli.

Il Manifesto – 25 giugno 2016



Il Dio dei millennials

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Sempre più giovani (tre su dieci) si dichiarano non credenti. E tra chi continua a professare la fede cresce il disinteresse per la preghiera Il che non vuol dire la fine del sacro. Una serie di ricerche e di saggi indagano il fenomeno.

Simonetta Fiori

Il Dio dei millennials


Il Dio dei millennials è morto o sta poco bene. Così dicono le ultime inchieste sulla fede delle nuove generazioni. Sono sempre di più i ragazzi che si dichiarano atei, agnostici o indifferenti, pur provenendo non da un background laico ma da un’educazione cattolica (e mai da una mala educación). Quasi tre giovani su dieci, tra i diciotto e i ventinove anni, «sembrano aver rimosso dalla propria carta di identità un riferimento ultimo e trascendente ». E tra i tanti che continuano a professarsi credenti prevale un sostanziale disinteresse alla fede e alla preghiera: più che nella dimensione spirituale, il cattolicesimo sopravvive come eredità culturale o legame sociale, senza troppi coinvolgimenti interiori.

Pur con accenti diversi, l’aumento dei non credenti nel mondo giovanile viene registrato da libri e riviste che si interrogano sulla portata del fenomeno. Più interno alla Chiesa il saggio Dio a modo mio apparso sull’ultimo numero di Civiltà cattolica che fa riferimento a centocinquanta testimonianze raccolte da Rita Bichi e Paola Bignardi. D’impronta laica la nuova articolata indagine pubblicata dal Mulino a cura di Franco Garelli, il sociologo cattolico allievo di Luciano Gallino che ha interpellato quasi millecinquecento ragazzi rappresentativi delle varie aeree del paese ( Piccoli atei crescono).

Al di là del diverso metodo e della diversa ispirazione, non cambia la fotografia di un paesaggio giovanile sempre più secolarizzato, dove la fede anche quando c’è diventa sempre più soggettiva ed evanescente. Una generazione senza Dio? Il punto interrogativo è d’obbligo – così nel sottotitolo dell’inchiesta del Mulino - perché la ricerca del sacro è un tratto irrinunciabile tra i ragazzi, anche sotto forme imprevedibili. A latitare tra i più giovani è il Dio con la maiuscola, il Signore terrifico dell’antico Testamento, sostituito da un altro più dimesso, il dio minuscolo delle piccole cose, che non è più un’entità carica di mistero ma a che fare con la ricerca di un’armonia personale. Alla dimensione della trascendenza e della eternità subentra quella dell’immanenza e la temporalità.



E il Dio del timore cede il passo alla figura dell’amore. In fondo è capitato a Dio quello che è successo al padre, sostiene una delle ragazze intervistate da Garelli. «Un tempo erano più padri e padroni, ora sono più permissivi e si fanno sottomettere dagli stessi figli. Perché se pensiamo a Dio come nostro papà sappiamo che ci vuole bene anche se noi ce ne possiamo fregare di lui». Insomma, una generazione “scialla” più che convintamente agnostica. Ma attenzione a cedere al luogo comune sulla superficialità e sull’apatia morale dei più giovani: molti di loro rifiutano la primazia della non credenza, che restituiscono volentieri a chi li ha preceduti.

Noi «la prima generazione incredula»? Non scherziamo, risponde la maggior parte dei giovani interpellati. Quella dell’età dell’oro della fede - coltivata dai nonni, conservata dai genitori e dissipata dai figli - è una rappresentazione fuorviante che mette su una strada sbagliata. Perché a rompere il patto religioso, con i loro comportamenti ondivaghi e improntati al conformismo sociale, sono stati mamma e papà. E anche sul terreno della religiosità si ripropone l’alleanza generazionale con i nonni che spesso si verifica nella politica o in altre zone dell’esistenza: quello dei nonni è giudicato un modello criticabile e culturalmente lontano ma nitido e coerente.

Mentre il comportamento dei padri e delle madri risulta incerto, sfocato, intermittente. In una parola, deludente sul piano della testimonianza. «Noi portiamo a compimento ciò che è stato seminato nel passato», dice un ragazzo non credente. La rottura della tradizione è un’eredità, non una elaborazione originale. «La mia generazione non è incredula quanto piuttosto arrabbiata per il senso di abbandono profondo e viscerale», reagisce un altro millennial. E la sintesi arriva da una ragazza loro coetanea: la religione è mistero e fiducia, e noi non possiamo permetterci né il mistero né la fiducia.

Altro che generazione superficiale, abituata a surfare sull’onda del digitale. Altro che smarrimento etico. Vietato confondere la fuga da Dio con la perdita di una domanda spirituale. La ricerca di senso e oltre l’immanenza avviene attraverso modalità e rituali diversi. La preghiera, ad esempio. La ricerca di Garelli ci mostra che se è vero che trenta ragazzi su cento non pregano mai, la pulsione verso il Padre Eterno può muovere anche una parte dei giovani non credenti, che magari rinunciano al Pater Noster ma non al silenzio, alla meditazione, alla lettura della Bibbia o all’attraversamento dei meandri sconosciuti della propria interiorità. E il modo di pregare cambia anche tra i cattolici più convinti.



Tra credenti e non credenti possono esistere zone di contiguità impensabili qualche decennio fa. Ed è questa un’altra cifra originale dei millennials, che abbattono muri e perimetri del passato sostituiti con flussi continui tra un campo e l’altro «E’ una generazione postideologica », dice Garelli. «Questi ragazzi si sono liberati dalle zavorre della storia. E si aprono alle ragioni degli altri pur non condividendole ». L’anticlericalismo vecchio stile appare una moda decaduta, i professionisti dell’ateismo militante figure superate e un po’ indigeste. «Pur ben convinti di non avere un cielo sopra di sé, molti giovani non credenti ritengono legittimo credere in Dio anche nella società contemporanea, negando quindi l’assunto che la modernità avanzata sia la tomba della religione. E viceversa molti credenti sono consapevoli di quanto sia difficile professare una fede religiosa nelle attuali condizioni di vita».

Cosa induce un ragazzo ad allontanarsi da Dio? L’agnosticismo annida soprattutto tra i figli dei separati, «tra chi ha vissuto la rottura dei legami famigliari o la perdita della certezza affettiva», spiega Garelli. A incrinare la fede possono intervenire le fratture esistenziali, come la perdita del lavoro o una condizione precaria. Ma può incidere anche l’estraneità a una Chiesa percepita come pomposa e ingiusta gerarchia, regno del privilegio e della ricchezza e non degli ultimi. E questo nonostante la rivoluzione di Francesco, il papa delle periferie e dei semplici.

Anzi, un dato che sorprende è che vi siano sacche di resistenza verso una figura come Bergoglio, che però viene criticato non tanto dagli atei quanto da una piccola parte della minoranza dei credenti convinti. Ed è così che il papa argentino appare più avanti di alcune zone della società italiana che lo rimproverano di «privilegiare il sociale rispetto al sacro», «di mettere sullo stesso piano credenti e non credenti» e «di incoraggiare una presenza straniera sempre più ingombrante ». Contraddizioni interne a chi si professa cattolico praticante.



Il Dio dei millennials non sta troppo bene, ma restiamo pur sempre il paese dove «anche gli atei sono cattolici», si sposano in chiesa e preferiscono il funerale religioso. Il nostro zoccolo duro dei ragazzi non credenti (28%) resta poca cosa rispetto a paesi come Svezia, Germania, Olanda, Belgio e Francia, dove «il vento della morte di Dio è già soffiato con forza» raggiungendo tra i più giovani percentuali intorno al 50/65% (mentre nei fervidi Stati Uniti gli scettici non raggiungono quota 18%).

Quel che da noi colpisce è il ritmo di crescita degli agnostici (non arrivavano al 10% nel passaggio di secolo), forse favorito dal mutato clima culturale. Oggi i ragazzi italiani si sentono più liberi di negare Dio, avvertendo «che è venuto meno lo stigma che prima colpiva increduli e miscredenti». E poi la religiosità resta comunque sullo sfondo, «anche se è un fondale sempre più lontano dal palcoscenico della vita». Al momento, in sostanza, non si registrano tracolli. In attesa di vedere come sarà il prosieguo della recita.


La Repubblica – 3 luglio 2016

Elie Wiesel, l’uomo che vide Dio appeso a una forca

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Si è spento a Boston, a 87 anni, lo scrittore premio Nobel per la Pace. Nato in Romania, rinchiuso nel ghetto e poi ad Auschwitz. Rappresentò la voce più alta della Shoah . Non ha mai smesso di ricordarci che il silenzio e la neutralità favoriscono sempre gli oppressori, mai le vittime.


Elena Loewenthal

Elie Wiesel, l’uomo che vide Dio appeso a una forca



Ed è giunta anche per lui quella notte infinita di cui la sua scrittura aveva fatto cifra del male assoluto in terra e in cielo. No, qualcosa di più: La notte di Elie Wiesel è il ritratto del mondo che ha attraversato: il ghetto. Buchenwald. Auschwitz. «Dietro di me sentii il solito uomo domandare: Dov’è Dio. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Appeso a quella forca c’era un bambino, ancora vivo per un soffio di tempo.

Elie Wiesel ci ha lasciati: l’annuncio arriva dalla collina dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, ed è come un’eco triste che risuona ai quattro angoli del mondo, ovunque lui ha vissuto, scritto, lottato. Era nato nel 1928 a Sighetu Marmatiei, in Romania, anzi fra i monti Carpazi, là dove c’era un ebraismo remoto, distante da tutto nel tempo e nello spazio, quasi millenario. Un ebraismo di campagna e di montagne, fatto più di silenzi che di parole. Wiesel aveva attraversato l’infanzia insieme allo yiddish e a un chasidismo dolce, mite, condito di un umanesimo spontaneo, fatto di parole antiche. Aveva studiato tanta Torah, sia con il padre sia con la madre.

Nel 1944 lui, tutta la sua famiglia e la comunità ebraica erano stati rinchiusi nel ghetto. Anticamera di quello sterminio che da un campo all’altro, da una forca all’altra si portò via tutto il suo mondo. Dopo la guerra Wiesel cominciò a peregrinare: da un luogo all’altro, da una lingua all’altra, da una solitudine all’altra. Incominciò a scrivere, come giornalista e traduttore. Studiò il francese. Nel 1955 si trasferì a New York, ma in fondo ha continuato per tutta la vita a viaggiare fra le sue diverse esistenze, fra le sue lingue - yiddish, romeno, inglese, francese, ebraico -, a muoversi dentro il proprio passato, ad abitarlo con le parole, raccontarlo nello strazio, riviverlo nella consapevolezza che trasmettere la storia di quel male fosse una missione imprescindibile. Un dettato: non divino ma umano.

Ci mise però molti anni a raccontare. Diversamente da Primo Levi che, appena tornato a casa da Auschwitz sentì impellente il bisogno di scagliare sulla pagina quella esperienza, come unica strada per provare a ricominciare a vivere, Wiesel tacque per almeno dieci anni: non voleva né scrivere né parlare di quello che aveva attraversato durante la Shoah. Ma quando cominciò fu un fiume in piena, in yiddish, Un di velt hot geshiving (E il mondo tacque, una specie di immensa bozza di autobiografia sulla quale sarebbe poi tornato varie volte, affinando la scrittura, rendendo tutto via via più lucido. Da quelle originarie 900 pagine fu tratto La notte, uscito nel 1992 nella meritoria traduzione italiana di Daniel Vogelmann per La Giuntina editrice.



Da questo libro in poi, Elie Wiesel è diventato uno dei grandi cantori di quell’orrore. Ma è stato anche molto altro. Intellettuale militante, sempre pienamente coinvolto nell’attualità, sempre in dialogo con le grandi questioni del presente. E quando parlava, la sua voce aveva sempre uno spessore tutto particolare, fatto di impegno e pacatezza, di profonda partecipazione alla vita. Non a caso non vinse mai il Nobel per la Letteratura, ma nel 1986 ebbe quello per la Pace. Undici anni dopo gli fu offerta la carica di Presidente dello Stato d’Israele, ma declinò, cedendo così il passo a Shimon Peres.

Eppure Elie Wiesel è stato tutt’altro che un’icona, una figura «statica» dall’aura spirituale carica di sacralità. La sua vera cifra, come uomo e come scrittore, è l’umanità nel senso più pieno e anche più contraddittorio. Ricco di quelle contraddizioni che raccontano una complessità ricca di sfumature, capace di sfuggire sempre alle semplificazioni. Lui che era nato in un mondo ebraico così conservatore, così ai margini storici e geografici, divenne un ebreo cosmopolita, capace di abitare lingue e spazi diversi: un cittadino del mondo.

Si era formato in un ebraismo tradizionale, era cresciuto dentro la Torah e dentro il pietismo chasidico cui era rimasto in un certo senso fedele per tutta la vita, come testimoniano i suoi tanti scritti dedicati a quel mondo scomparso, da Il Golem. Storia di una leggenda alle Celebrazioni chasidiche. Aveva scritto anche tanto di Bibbia e Talmud, aveva una intimità profonda e spontanea al tempo stesso con tutta la tradizione d’Israele.

Eppure come pochi altri intellettuali aveva sfidato la fede, aveva sfidato Dio. Vuoi quando lo vede con rabbia e rassegnazione e un dolore indicibile appeso alla forca nel corpo di un bambino impiccato che lancia al mondo i suoi ultimi palpiti. Vuoi quando scrive Il processo di Shamgorod: un testo bellissimo e terribile sull’assenza di Dio, sull’ingiustizia del mondo, dove, a differenza del biblico Giobbe, all’uomo non resta rassegnazione ma solo un’interrogazione senza risposta. E uno sgomento muto di fronte al male, alla sua presenza così incomprensibilmente invadente.

Elie Wiesel è stato un grande testimone, un grande scrittore, uno straordinario uomo di spirito, e anche di azione. Ma è stato soprattutto una figura dalla complessità straordinaria, mai arreso di fronte all’incomprensibile, mai stanco di interrogare e interrogarci. Ci mancherà la sua parola. Ci mancherà la sua notte. Ci mancherà quel silenzio abissale che stava sempre lì, tra una riga e l’altra di testo.


La Stampa – 3 luglio 2016

Gli orrori di Dacca

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Si dice che davanti alla morte siamo tutti eguali. Niente di più falso. Ci sono morti che pesano come macigni e altri meno di una piuma. Ovviamente nulla giustifica l'orrore del massacro di Dacca, ma forse si dovrebbe incominciare a comprendere che in larga parte del mondo l'orrore è una realtà quotidiana (e non solo quando ne è vittima qualche occidentale).Riprendiamo un trafiletto di agenzia di tre anni fa.

Bangladesh, oltre mille morti. Coinvolto fornitore di Benetton

E' salito a oltre mille morti il bilancio delle vittime del crollo dell'edificio di otto piani alla periferia di Dacca, in Bangladesh, che ospitava cinque industrie tessili. Sono 1.032, secondo quanto riferito da un funzionario della sala controllo per la gestione delle emergenze, i corpi recuperati dalle squadre di soccorso dalle macerie del Rana Plaza, crollato il 24 aprile.

Nella tragedia sono rimaste ferite piu' di 2.400 persone e, come ha affermato Shahnewaz Zakaria, comandante dell'esercito, continuano le ricerche di altri corpi che potrebbero essere ancora intrappolati.

Nei giorni scorsi circa 400 sopravvissuti hanno inscenato un sit-in di protesta, bloccando l'autostrada che collega Dacca al sud e al sud-ovest del Paese asiatico: reclamavano dai proprietari degli opifici distrutti, anche a nome dei colleghi, il pagamento degli stipendi arretrati e la corresponsione dei risarcimenti per i danni subiti. Molti tra loro percepiscono in media addirittura meno di 30 euro mensili.

Sempre negli ultimi giorni, dall'Italia la Filctem ha chiesto di chiarire l'eventuale coinvolgimento di marchi italiani: il sindacato di categoria ha chiesto di specificare se aziende del nostro paese siano coinvolte nel crollo, come ipotizzato da alcuni organi di stampa.

Ieri la prima ammissione di Benetton: una delle fabbriche di camicie che avevano sede nel Rana Plaza crollato riforniva l'azienda tessile italiana. "La New Wave Style, al momento del disastro, non era uno dei nostri grossisti, ma uno dei nostri fornitori diretti in India aveva subappaltato due ordini all'azienda", ha dichiarato il gruppo.



rassegna.it 10 maggio 2013

Le verità nascoste dietro l’ossessione del corpo perfetto

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L’esibizionismo fisico è una delle tendenze più forti della nostra epoca: siamo continuamente osservati, fotografati, ridotti a oggetti. Da qui la mania dilagante della chirurgia estetica

Massimo Recalcati

Le verità nascoste dietro l’ossessione del corpo perfetto



Intruppamenti di corpi seminudi occupano le spiagge delle nostre vacanze, fanno capolino nelle città, appaiono in tutti i luoghi di villeggiatura. Non si possono non vedere. L’ontologia sartriana del corpo esposta ne L’essere e il nulla trova qui una sua verifica empirica: il nostro corpo è sempre visto, non può evitare di essere sottoposto allo sguardo dell’Altro che ci medusizza fatalmente trasformandoci da soggetti in oggetti.

Il nostro corpo non è infatti mai solo nostro. Per diverse ragioni: non abbiamo deciso le sue fattezze, si ammala e muore anche se noi non lo vogliamo. Ma soprattutto è sempre visto dallo sguardo degli altri. Sartre lo aveva messo in rilievo con forza: il nostro corpo è sempre guardato, fotografato, pietrificato dallo sguardo dell’Altro. Se ne accorgono talvolta traumaticamente le giovani donne quando fanno esperienza della voluttà dello sguardo maschile: il loro corpo appare per la prima volta come qualcosa che sfugge a se stesso.

L’esibizionismo prima di essere una patologia deriva da questo statuto sempre visibile del corpo. Il nostro corpo è gettato, gioco forza, in una continua esibizione. Si tratta di un esibizionismo che coincide con la vita stessa e che non possiamo evitare in nessun modo ma solo vivere con più o meno gioia o angoscia. Questo statuto necessariamente esposto, esibito, alienato del nostro corpo può però accentuarsi patologicamente. Le insistite diete quaresimali, gli esercizi fitness massacranti, l’ossessione per la propria forma, gli interventi di chirurgia estetica per modellare il corpo adattandolo ai suoi stereotipi sociali ne sono un esempio evidente.

Una paziente anni fa mi raccontava dell’effetto depressivo che il suo corpo allo specchio, superata la cinquantina d’anni, le faceva ogni volta. In particolare vedeva amplificarsi i numerosi interventi di chirurgia estetica ai quali si era sottoposta: alle labbra, agli zigomi, ai seni, alle gambe e ai fianchi. La sensazione estraniante che provava era quella di avere il corpo di un’altra. In effetti la sua domanda «per chi ho fatto tutto questo?» lasciava trapelare che non era certo per lei stessa, per piacersi di più che aveva offerto il suo corpo al bisturi.



Già Freud aveva messo in relazione l’esibizionismo con l’angoscia di castrazione: mostrare il proprio corpo perfettamente in forma esibendone la bellezza o la forza muscolare sono tentativi per ricoprire un senso profondo di inadeguatezza. L’eccessiva attenzione per la propria immagine, diversamente da quello che si può credere, non denuncia tanto il narcisismo del soggetto, ma una sua ferita che esige di essere compensata.

Questi soggetti per esistere devono conformarsi all’ideale che lo sguardo dell’Altro gli impone come normativo. Non ci vuole lo psicoanalista per cogliere che certe trasformazioni tramite chirurgia estetica a cui si sottopongono i corpi femminili non rispondono affatto al criterio dell’abbellimento del proprio corpo, ma a quello di una sua radicale metamorfosi al fine di renderlo il più possibile simile a quello che l’immaginario erotico maschile esige.

Il canone che si impone è solitamente quello delle commedie alla Alvaro Vitali. Il corpo si assimila a una bambola che deve soddisfare le esigenze sessuali del proprio partner. Il ritornello delle attricette di turno che parlano delle operazioni estetiche alle quali si sono sottoposte sostenendo di averlo fatto per stare bene con se stesse molto spesso non dice la verità. Si tratta in realtà di modificare il proprio corpo per renderlo più attraente per lo sguardo dell’Altro e non per il proprio. È l’essenza dell’esibizionismo narcisistico.



L’esibizionismo come forma specifica di perversione non ha però a che fare con tutto questo. Né con lo statuto ontologicamente sempre visibile del nostro corpo, né con il suo modellamento sullo sguardo e sul fantasma dell’Altro. L’esibizionismo diventa davvero perverso quando, come spiega lucidamente Lacan, non gode nel presentarsi allo sguardo dell’Altro, nel farsi vedere, come si dice, ma nel provocarne l’angoscia. L’immagine dell’esibizionista che gira nudo sotto il suo immancabile impermeabile per offrirsi allo sguardo dell’Altro deve essere ripensata. Non si tratta di godere nell’esporsi ma nello sconcertare chi osserva la scena, nell’infrangere non il proprio tabù ma quello dell’Altro.

È questo lo specifico della dimensione propriamente perversa dell’esibizionismo: più che sul bello, sulla seduzione, sulla compiacenza o sulla esibizione del proprio corpo per ammaliare lo sguardo dell’Altro, esso punta a impadronirsene, a scuoterlo per trascinarlo nell’angoscia, Esiste un godimento (inconscio o conscio) nel mostrare il proprio corpo divenuto mostro che consiste nell’impadronirsi dello sguardo dell’Altro.

È qualcosa che possiamo vedere all’opera in quei corpi che mostrano senza pudore le proprie deformazioni. Accade, per esempio, nelle grandi obesità o nelle forme gravi di anoressia o in quei corpi che portano su di sé alterazioni profonde della loro immagine resa marziana, per esempio, da un uso eccessivo e provocatorio di piercing.

È quello, infine, che si evidenzia in certe tendenze dell’arte contemporanea dove l’ostentazione del brutto, dell’orrido, dell’osceno e dell’abietto serve per fare abbassare lo sguardo dello spettatore, per riempirlo di angoscia.


La Repubblica – 3 luglio 2016

My home sweet home? La questione abitativa oggi.

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   "Proprietà della Banca" 

E' Savona la città record per gli sfratti. Negli Stati Uniti come in Italia la questione abitativa diventa lo specchio della crisi del ceto medio e delle nuove forme di esclusione sociale. Nulla di molto diverso da ciò che il vecchio Engels scriveva nel 1872 in “La questione delle abitazioni”. Cambiano i tempi e le ideologie, ma i problemi restano gli stessi: il lavoro, la casa, la salute.

Guido Caldiron

My home sweet home?


La vicenda è nota, anche perché le drammatiche conseguenze di quanto accaduto allora non hanno mancato di far sentire a lungo la propria eco sull’intera economia internazionale. Ma per gli Stati Uniti, quella che viene ricordata come la crisi dei mutui subprime, che iniziò a sconvolgere il sistema bancario, e quindi quello finanziario, tra il 2007 e il 2008, come effetto dell’implosione della bolla immobiliare che si era creata nel corso di più di un decennio, fu anche e soprattutto un disastro sociale di proporzioni talmente vaste da far evocare la grande crisi del 1929.

L’impossibilità di pagare le rate dei mutui contratti con le banche per l’acquisto di un’abitazione, a causa del forte rialzo, immediato e inaspettato dei tassi di interesse, ha infatti spinto oltre 2 milioni di famiglie americane sull’orlo del fallimento: e in molti non hanno finito solo per perdere la casa, ma anche il lavoro, la propria rete di relazioni e di affetti, il proprio status sociale.

Una totale e drammatica messa in discussione degli stili di vita e della percezione di sé che ha colpito in primo luogo, anche se non solo, la middle class bianca, quel ceto medio fatto di piccoli impiegati e lavoratori manuali specializzati che incarna ancora per molti versi il cuore dell’american way of life. E il cui malcontento e insoddisfazione, sentimenti che hanno in realtà rasentato talvolta anche forme di vero e proprio rancore, non ha mai smesso di farsi sentire lungo il decennio dell’amministrazione Obama e ora, come indicano tutti i sondaggi, rischia di essere attratto in modo cospicuo dal fenomeno Trump.



I costi «patologici» degli alloggi

Ciò che molti lavoratori bianchi e le loro famiglie hanno subìto sulla loro pelle alla fine dello scorso decennio con la perdita della propria dimora è però da tempo la norma per il resto della popolazione. E in particolare per i più poveri. Siano essi bianchi, ispanici o neri. Insieme al redditto, ma molto meno evidenziato perlomeno sui grandi media, quello della casa risulta infatti essere uno dei principali indicatori dello stato di salute, o meglio delle patologie che affliggono il sistema sociale statunitense.

Secondo una recente ricerca del Joint Center for Housing Studies dell’Università di Harvard, che pubblica annualmente il The State of the Nation’s Housing Report, una sorta di «stato dell’Unione» dal punto di vista abitativo, oltre 11 milioni e mezzo di famiglie americane spendono ogni anno più di metà delle loro entrate solo per sostenere i costi relativi alla casa, tra affitti e rate dei mutui; questo mentre le autorità federali di Washington indicano nella proporzione del 30% delle entrate il costo che ogni nucleo familiare può sostenere a questo scopo per fare fronte in modo adeguato al resto delle necessità dei propri membri. Il dato è inoltre in forte crescita. Basti pensare che solo nel 2001 erano circa la metà, poco meno di 7 milioni e mezzo, le famiglie che si trovavano in questa situazione.

La crisi dei subprime ha certo contribuito a questa situazione, ma il fenomeno, avverte ancora il centro studi della celebre università del Massachusetts, va considerato sul lungo periodo. Se negli ultimi anni chi ha perso la casa di proprietà è stato costretto a rivolgersi ad un mercato degli affitti dove vige la più totale deregulation e dove spesso gli alloggi più a buon mercato sono in pessime condizioni se non, in alcuni casi, addirittura insalubri, si deve anche tener conto del fatto che lungo l’arco degli ultimi 15 anni i prezzi medi di un contratto di locazione sono saliti del 10% mentre gli stipendi medi scendevano del 7%.

Un’evoluzione in negativo che ha finito per fare del «mattone» uno degli indicatori migliori dell’impoverimento di una fetta crescente di americani. Perché se nelle maggiori difficoltà che si registrano oggi nell’accesso alla casa si misura il grado di declassamento del ceto medio, presso i settori più deboli della società tutto ciò assume la forma della marginalità e dell’esclusione più totale.

   
 

Le storie di chi ha perso la casa

Una condizione che è stata descritta recentemente da Matthew Desmond, un giovane sociologo che ha già all’attivo uno studio sui meccanismi razziali tutt’ora presenti nella realtà statunitense, che ha seguito per due anni le vicende di alcune famiglie di Milwaukee che in seguito allo sfratto e alla perdita dell’abitazione sono state costrette a trasferirsi in veri e propri tuguri, in particolare dei ghetti neri, o in quartieri fatti di roulotte o mobil homes, condizione quest’ultima in cui vivono circa 20 milioni di statunitensi.

Evicted: Poverty and Profit in the American City (Penguin Random House, 432 pp., 18$), il libro, uscito da qualche mese, nel quale Desmond dà conto di questa sua indagine etnologica tra gli sfrattati della metropoli del Wisconsin, sta suscitando un certo dibattito nel paese. Attraverso le storie di Larraine, Arleen, Pam, Ned, Scott e Crystal, tutte persone sfrattate per motivi economici dai proprietari degli appartamenti in cui vivevano e che spesso oltre alla perdita dell’abitazione si sono dovute misurare anche con problemi di dipendenza da alcol o droghe o con gravi forme di disagio psicologico, il ricercatore ricostruisce infatti in modo meticoloso ciò definisce come «la dimensione politica del funzionamento del mercato immobiliare» e i suoi effetti sulla società americana.

Dal libro, ha sottolineato la studiosa progressista Barbara Ehrenreich dalle colonne del New York Times, emerge come non esista solo una estesa speculazione immobiliare che sfrutta il bisogno di alloggi, specie tra i settori sociali più deboli, ma anche il fatto «che perfino la povertà può produrre utili». Nel senso che se i proprietari che hanno sfrattato, con l’aiuto della polizia, Lamar, Larraine e tanti altri dalle loro case sono «abbastanza ricchi da potersi permettere le vacanze ai Caraibi mentre i loro ex inquilini battono i denti nell’inverno di Milwaukee», anche chi gestisce il terreno della zona povera del North Side destinato alle case mobili in cui molti di questi sfrattati si sono trasferiti, «può intascare fino a 400 mila dollari l’anno».

Dopo che qualcuno ha subìto il trauma dello sfratto, il senso di perdita dei propri punti di riferimento e degli affetti, specie per i bambini, suggerisce Ehrenreich, subentrano altri attori che «hanno saputo trasformare in oro il sudore e le lacrime degli esseri umani»; tra gli altri le società che prestano denaro e coloro che vendono ogni genere di cosa, a cominciare dai mobili, a credito.

E non importa quanto drammatiche siano le condizioni della famiglia che un bel giorno al primo mattino ha ricevuto la visita del proprietario di casa, in genere accompagnato da uno sceriffo e dai suoi uomini. Come nel caso di Lamar cui sono state amputate le gambe in seguito ad un incidente e che percepisce un salario sociale di 628 dollari, mentre la pigione che pagava fino a che non ce l’ha fatta più e ha accumulato una discreta morosità, ammontava a ben 550 dollari, il ché gli lasciava in tasca solo 2 dollari e 19 al giorno per poter vivere. In altri casi gli inquilini hanno smesso di pagare l’affitto solo per poter saldare le rate del riscaldamento.

    Roma, anni '70. Occupazione delle case sfitte

Lo sfratto in «sorte» alle donne

Certo, racconta Matthew Desmond, si può sempre fare appello contro questo genere di sfratti economici, anche se l’esito è comunque spesso favorevole ai proprietari, ma date le condizioni in cui vivono molti inquilini, la strada per i tribunali non potrebbe essere più impervia; «il 70% di loro non si presenta in aula perché non può assentarsi per alcun motivo dal lavoro o perché non sa a chi lasciare i figli piccoli nel frattempo o, semplicemente perché non ha in realtà mai ricevuto copia dell’atto di convocazione».

Proprio nelle aule del tribunale di Milwaukee che si occupa di sfratti, dove la maggior parte degli inquilini minacciati è composto da donne afroamericane e dove gli avvocati della proprietà «portano tutti dei gessati impeccabili e delle super cravatte», il giovane sociologo ha avuto una sorta di rivelazione. «Se l’esperienza del carcere definisce ormai da tempo la vita degli uomini dei quartieri poveri neri, lo sfratto è diventato la sorte che attende quasi inesorabilmente le donne di queste stesse zone. I neri poveri li si mette sotto chiave. Le nere, le si mette alla porta».

E ciò che Matthew Desmond ha visto e constatato di persona in una sola città trova conferma nei dati disponibili sull’intero paese: negli Stati Uniti una donna afroamericana su 5 subisce nel corso della sua vita almeno uno sfratto, proporzione che tra le ispaniche è di una su 12 e tra le bianche di una su 15. Se la «questione della casa» è uno dei volti della crisi sociale che colpisce ancora una parte della popolazione degli Stati Uniti, in molti casi questo volto ha anche un coloro ben preciso.


Il manifesto – 3 luglio 2016

Rivoltosi e cristiani Il caso dei Bagaudi

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Martiri o briganti? Una guerriglia cristiana sulle Alpi nel Terzo secolo d.C.

Marco Rizzi

Rivoltosi e cristiani Il caso dei Bagaudi


Negli ultimi decenni, il rapporto tra violenza e religione, il cristianesimo in particolare, è stato oggetto di molte indagini. Un caso del tutto peculiare in materia è quello illustrato da Alberto D’Incà nel volume Martiri e briganti (Il pozzo di Giacobbe, pp. 142, e 16).

Nella Gallia del III secolo, un gruppo di contadini diede vita ad un movimento di rivolta contro i grandi proprietari terrieri, destinato a protrarsi con alterne fortune per un paio di secoli. Le fonti coeve non ne segnalano alcuna dimensione religiosa. Invece, testi cristiani redatti in seguito sino all’Alto Medioevo trasformano questi briganti, chiamati «Bagaudi», in un gruppo di cristiani giustiziati nel corso delle antiche persecuzioni, promuovendone un culto specifico.

Formatosi alla scuola milanese di Remo Cacitti, D’Incà esplora il modo in cui la riflessione teologica sul martirio cristiano si è intrecciata con le tensioni tra proprietari e contadini, che continuarono a caratterizzare l’Occidente anche dopo la sua cristianizzazione. I Bagaudi divennero così gli eroi cristiani di una classe subalterna, in un sottile gioco di specchi con la cultura cristiana dei ceti dominanti, entro cui anche la violenza può venire ripensata.


Il Corriere della sera - 13 giugno 2016

Ocra e altre storie

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OCRA E ALTRE STORIE
Autoproduzioni remote

Entr’acte
Via sant’Agnese 19R – Genova
6 luglio – 5 settembre 2016
Mercoledì – venerdì 16 – 19 (dal 6 al 15 luglio)
dal 16 luglio su appuntamento
inaugurazione: mercoledì 6 luglio 2016, ore 18

Gli anni Ottanta sono stati per la scena artistica genovese un periodo estremamente vivace. Agli autori affermatisi nel secondo dopoguerra, ancora pienamente attivi, al gruppo dei poeti visivi e allefigure maggiori emerse nel decennio precedente, si veniva ad aggiungere una nuova generazione di performers, pittori, videoartisti di inusitata qualità e ampiezza, che trovava aperture in alcune gallerie consolidate e in una sorta di circuito off, e - accompagnata da critici impegnati e dall’impegno militante di docenti universitari e della locale Accademia di Belle Arti - saliva alla ribalta nazionale.

In questo clima, ricco di iniziative e di dibattiti, sovente polemici, puntualmente descritta nel volume Genova in mostra: Anni Ottanta, di Sonia Braga (ed. Falsopiano, 2014), una funzione non secondaria è stata svolta da Ocra, una rivista non ufficiale, o meglio una sorta di fanzine, che si definiva “circolare sui problemi dell’arte”, edita fra il 1982 e il 1989 a cura di Sandro Ricaldone.

Accanto a ricerche e documenti sulle avanguardie del secondo Novecento (Cobra, Lettrismo, Nouveau Réalisme, Fluxus), Ocra registrava l’evolvere della situazione genovese anche attraverso alcuni numeri monografici dedicati ai giovani artisti e alle relazioni tra questi e gli altri attori (museo, istituzioni, gallerie, critica) operanti nel settore.

Ad Ocra si affiancava poi, fra il 1986 e il 1989, Tract, newsletter dell’Ufficio di ricerche e documentazione sull’immaginario, frattanto creato da Carlo Romano (storico animatore, con il fratello Mario, della Libreria Sileno) con la collaborazione di Giuliano Galletta e di Sandro Ricaldone.

In mostra, nello spazio di Entr’acte, le raccolte di Ocra e Tract e altri materiali relativi a esposizioni e ad altre iniziative coeve, in vario modo connesse alle pubblicazioni od alle attività dell’Ufficio di ricerche e documentazione sull’immaginario.

Claudia Ruggerini. Vita di una partigiana

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Una donna straordinaria. Claudia Ruggerini, partigiana e neuropsichiatra


Marco Rovelli

Partigiana nella vita ordinaria



Claudia Ruggerini era una bellissima ragazza che a ventun anni decise di gettarsi nella lotta partigiana. E bellissima ragazza è rimasta fino alla fine della sua vita, che ha concluso ieri, a Milano, dove era nata nel 1922. È stata una donna che ha mostrato nella sua esistenza che scegliere è sempre possibile: non solo nei momenti dove la Storia si addensa, come appunto quelli della guerra e della Resistenza, ma anche dopo, quando la vita si fa quotidiana e ordinaria. Una testimonianza di vita, la sua, incredibilmente densa, e fatta di una sostanza etica che ci riguarda tutti, e che tutti dovrebbe continuare a toccare.

Claudia Ruggerini nacque in via Padova 36, che via di immigrati era già negli anni Venti. La sua famiglia veniva da vicino, dalla Brianza: sua nonna era una trovatella, e sua madre aveva fatto la massaggiatrice. Famiglia matrilineare, ché anche il padre socialista non era molto presente: tanto più che quando Claudia aveva dodici anni, lui morì, massacrato di botte dei fascisti davanti a casa. E lei vide il pestaggio dalla finestra.



Nonostante questo, non si sbandò: anzi, era molto studiosa, «una secchiona», come raccontava lei stessa. E fu proprio l’amore per l’arte a costituire l’innesco che determinò la consapevolezza del suo antifascismo: a Venezia, dove sua madresi recava per massaggiare i clienti ricchi, andava nelle chiese, alla Biennale d’arte, e a vedere i film del festival del cinema, che nell’Italietta fascista e provinciale non potevano circolare. Le si dischiusero allora allo sguardo mondi nuovi, nuove possibilità di vita. E quando all’università incontrò Hans, che fu il suo «fidanzatino», e (come avrebbe scoperto solo dopo la guerra) era emigrato da Vienna perché ebreo, tutto fu compiuto: perciò fu naturale, dopo l’8 settembre, diventare la partigiana Marisa. Prima fece la staffetta con la borsa carica d’armi e di documenti verso la val d’Ossola, e poi, aggregata alla brigata Garibaldi, la quinta colonna per conto del Cln dentro San Vittore.

Hans, infatti, era stato rinchiuso lì, e per una serie fortuita di eventi Claudia conquistò la fiducia dei tedeschi che gestivano il carcere. «Vivevo nello spavento», mi raccontò: nonostante lo spavento non mollò, rischiando il peggio. Poi entrò a far parte, unica donna, del comitato di iniziativa fra gli intellettuali che il comunista D’Ambrosio, membro del Cln, aveva messo in piedi. Claudia conobbe bene Vittorini, divenne amica di Alfonso Gatto, e con loro occupò la redazione del Corriere della Sera il 25 aprile, per fare uscire il primo numero del giornale non più fascista.

«L’ultima missione politica – raccontava Claudia – l’ho fatta nel ’53. Quando con D’Ambrosio e Reale siamo andati in Costa Azzurra da Picasso, per convincerlo a prestare Guernica a Milano per la mostra che gli dedicavano a Palazzo Reale. A un certo momento arrivò anche Jean Cocteau. Fu una giornata meravigliosa».



Dopo la guerra, Claudia si laureò con Cesare Musatti, e si avviò alla carriera di neuropsichiatra, per diventare primario di neurologia a Rho. Dove avrebbe fatto un’altra battaglia a tutti gli effetti partigiana, contro le scuole speciali, dove sarebbero dovute andare solo persone con problemi mentali gravi, e dove invece venivano segregati i bambini che arrivavano dal sud che secondo l’amministrazione scolastica non avevano i prerequisiti scolastici. Claudia fece sì che quella pratica di segregazione terminasse, e si praticasse quella che oggi si chiamerebbe «integrazione». «Devi fare il sociale nella comunità: questa è politica. E l’ho sempre fatta. Quindi sì, è stata lotta partigiana anche cercare di far sì che i genitori comprendessero i figli, che i mariti comprendessero le mogli… è stata lotta partigiana benedire le corna della gente senza colpevolizzarle… Avevo una capacità, che è la cosa che ho conquistato: la capacità che la gente fa quello che si sente di fare, che è libera di fare quello che fa, basta che se ne prenda la responsabilità. Io, per me, me la sono sempre presa la responsabilità».

Claudia ci lascia questa eredità: si è partigiani quando si rischia la vita lottando contro i tedeschi, ma anche quando si fa una battaglia educativa antirazzista. Perché l’esperienza del partigianato, tra le tante cose, fu una straordinaria esperienza di fraternità.



il manifesto – 5 luglio 2016

Se il poeta vive in una baracca. In morte di Valentino Zeichen

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Viveva in una baracca alla periferia di Roma. Caustico e ironico, guardava il mondo con un occhio distaccato.

Paolo Mauri

Addio Zeichen sapiente Peter Pan della poesia


Il poeta è morto ieri a 78 anni. Aveva esordito con una raccolta nel 1974. Ha pubblicato anche romanzi, l’ultimo è “La Sumera”

Esce di scena con la leggerezza di chi svolta l’angolo e scompare, agitando appena la mano. Un ictus lo aveva colpito alcune settimane fa e c’era stata una ripresa cospicua, con gli amici numerosissimi intorno al letto a rincuorarlo. Poi era arrivata la notizia che gli sarebbe stata concessa la legge Bacchelli: lui non la voleva, «mi rovina la biografia», diceva sorridendo, ma alla fine, sempre sorridendo, aveva accettato e del resto non l’aveva chiesta lui. Poi, ieri, il cuore lo ha tradito. Ma è vero che ti chiami Giuseppe Mario e non Valentino? Gli avevo chiesto durante una visita. Aveva spalancato gli occhi, senza rispondermi. Forse gli piaceva avere un nome segreto e una identità alternativa a quella del profugo, nato a Fiume nel ’38.

Valentino Zeichen è stato, me ne rendo conto adesso, una specie di Peter Pan aggrappato alla sua isola-che-non-c’è e al giardino misterioso di cui abitava le pendici, che non è quello di Kensington ma quello di Villa Borghese. Lì, al Borghetto Flaminio, aveva la sua baracca (una baracca vera con la lamiera al posto delle tegole) ma con il telefono e l’acqua corrente, baracca dalla quale usciva la sera, elegantissimo, per andare a cena da qualche amico o da qualche mecenate. Tutto quello che si diceva di lui era vero: non aveva praticamente mai lavorato, salvo da giovane, facendo qualcosa di saltuario e poi, ma ormai tanti anni fa, si era dedicato ai collages che qualcosa gli rendevano.



Villa Borghese, dove il padre era stato giardiniere, era il suo regno e la Galleria d’Arte Moderna, con quelle accoglienti scalinate, il suo teatro privato. È lì che comincia La sumera il romanzo da poco pubblicato da Fazi (al quale aveva anche affidato i suoi diari) che era stato presentato allo Strega. In realtà si trattava di un romanzo di vent’anni e più fa che si intitolava Tana per tutti (Lucarini).

Valentino aveva rinfrescato il titolo ed era piacevolmente sorpreso perché se ne vendeva persino qualche copia. I poeti, si sa, non vendono quasi nulla ed ora che l’aura letteraria è tutta per libri che vendono centinaia di migliaia di copie fruttando bei soldi, la poesia se ne sta in disparte aspettando che il tempo passi, perché il tempo, alla fine, è sempre stato dalla parte della poesia.

«Non appena fuori di casa / ci si chiede quale passo / si dovrebbe adottare / non avendo dove andare. / Lo stato d’animo detta il moto / perpetuo, alla vista del vuoto». Questi versi, da Casa di rieducazione (2012), potrebbero essere un suo ritratto. Come sempre il poeta è per via e si guarda intorno, annota e internamente sorride. Di lui si è detto che fosse un nipotino di Marziale e in effetti spesso sfiora l’epigramma o comunque il ritrattino caustico, mentre tiene d’occhio la città di Roma, di cui si sente padrone e guardiano.

Ricordo che una volta Franco Cordelli, anche lui vecchio amico di Zeichen, scrisse che a Ferragosto loro due non lasciavano mai la città deserta ed era come se si dividessero il territorio per controllare che tutto andasse come al solito. Nel suo ultimo romanzo, Una sostanza sottile, Cordelli racconta proprio di come soffrisse lontano da Roma al punto che, essendo ad Avignone per il festival, era capace di tornare a casa facendo mille chilometri in macchina se c’era un intervallo di un paio di giorni. In Casa di rieducazione Zeichen resuscita un poeta amico con il quale aveva diviso molte cose: Dario Bellezza. Parla,proprio lui!, della sua casa in disordine perenne e mette in bocca a Dario un giudizio sulla svogliatezza di Zeichen, che sarebbe anche un bravo poeta ma non si applica.

Valentino ha coltivato fino allo spasimo la propria pigrizia, grato agli dei che di volta in volta lo hanno protetto. «Si dice che la poesia / manchi di vero slancio, / che non sappia più volare / perché non più sorretta dai grandi angeli alati. / Che farci? È un mondo / di poeti atei che volano /preferibilmente in aereo».

Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio è uno dei suoi titoli più belli ed è dedicato a Carmelita Ferrari Dora, mecenate e amica della poesia, che «mi ha paracadutato grazioso soccorso nel deserto della pagina bianca, dove ero disperso». Tutto per Zeichen accade dentro la poesia. Se deve lamentarsi perché un amico (il poeta Giuseppe Conte) non si fa più vivo come una volta, scrive: «G. Conte, l’amico poeta / si è rinchiuso a Nizza / in ermetica avarizia ».



Zeichen esordì nel 1974 con Area di rigore ed era già lo Zeichen più maturo a scrivere «Sprezzante di belle lettere, le traccio nell’aria, svaniscono senza lasciare traccia». Ma i suoi primi versi risalgono a molto tempo prima e li ha riproposti qualche tempo fa la casa editrice La Cometa. In Scenario del 58 leggiamo «Rosoni di chiese esposte al tramonto /arrossiscono per miracolosi pudori». Nello stesso libretto c’è una prosa asciutta e indimenticabile in cui Zeichen, ospite di un colonia estiva, racconta la visita della madre malata di tisi e capisce che la sta vedendo per l’ultima volta.

Oggi chi voglia avere sottomano l’opera di Zeichen può profittare della seconda edizione ampliata di un Oscar a lui dedicato, con una bella prefazione di Giulio Ferroni che spesso gli ha dedicato attenzione critica, e con versi che vanno dal ’63 al 2014. Un bel ritratto gli ha dedicato un altro amico di sempre, Stefano Malatesta, nel suo recente

Quando Roma era un paradiso (Skira), dove tra l’altro ricorda come Hans Magnus Enzesberger lo abbia inserito in un’antologia della poesia contemporanea pubblicata in Germania dove figurano anche Primo Levi, Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto.

Valentino amava farsi tagliare i capelli alla tedesca con la sfumatura alta, era diventato un grande esperto di armi e di guerre e si atteggiava volentieri ad antidemocratico, credo soprattutto per far arrabbiare i suoi amici che magari lo avevano invitato a cena. In effetti conduceva le sue battaglie soprattutto nei ristoranti, convocando il cameriere e se possibile anche il cuoco per rimproverargli qualcosa che non andava nella salsa della pasta o nella cottura della carne. Spesso aveva ragione lui e una volta Sapo Matteucci, che di cucina e di bevande se ne intende, mi disse che temeva soprattutto il giudizio di Zeichen.

Adesso ripenso a due versi che mi sono capitati sotto gli occhi quasi per caso, se poi il caso esiste davvero: «Sono vissuto nei secoli / di due differenti millenni / eppure sono morto». Buona eternità, caro Valentino.


La Repubblica – 6 luglio 2016

Cesare Pavese Luigi Tenco. Last blues

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Poesia e Musica. Uno spettacolo e una riflessione su due grandi protagonisti della cultura italiana.

Pasquale Briscolini

Last blues. Ovvero, più in generale, un tentativo per avvicinarci alla poesia


Nella percezione più banale o più remota (cioè quella che resta dai più lontani ricordi di scuola) la poesia è caratterizzata di solito da due elementi:

  • la rima fra le parole terminali di alcune righe;
  • la presenza di “parole strane”, il cui significato non si capisce subito.
Da bambini, il primo di questi due elementi non dà fastidio, anzi. Non a caso le fiabe più facili che si propongono ai più piccoli sono “le filastrocche”, caratterizzate proprio dalle rime che conferiscono alla lettura una certa “musicalità”. In qualche caso, qui la lettura diventa una vera e propria “cantilena” che i bambini ascoltano con simpatia e memorizzano facilmente.

Ma delle “parole strane” si fa proprio fatica a capire la necessità. Anche perché il passo successivo che il maestro o la maestra proponeva ai bambini e poi richiedeva loro era “la prosa”, e cioè la traduzione della poesia in parole “normali”, messe in modo tale da fornire un significato “normale”. Almeno “una volta”, cioè “un po’ di tempo fa”, a scuola succedeva questo a proposito della poesia.

Allora la domanda sorgeva spontanea nella mente dei bambini (almeno di quelli che qualche domanda cominciavano a porsela da se’, oltre a quelle che in modo quasi rituale arrivavano dal maestro o dalla maestra): “ma perché il poeta ha un modo di dire le cose così strano, da richiedere una traduzione per far capire quello che vuol dire? E se vuol dire quello che poi si capisce dopo la “traduzione in prosa”, non poteva dirlo lui stesso in modo normale? Ma non sarà mica un sadico, uno a cui piace far soffrire la gente?”

Poi il tempo passa, i bambini diventano grandi ma il dubbio resta, anche perché non si hanno poi molte occasioni per poter chiarire, o meglio, per porre la domanda giusta: ma la poesia, cosa è davvero? Anzi, succede più spesso che il dubbio lo dimentichi anche chi l’aveva avuto, perché nella realtà di tutti i giorni di poesia non si parla più, e la riprova sta anche nell’estrema difficoltà che incontra, di questi tempi, chi tenta di pubblicare un libro di poesie.

Questa situazione consolidata innesca quello che si usa chiamare un “circolo vizioso”, che è quella situazione negativa che si stabilisce fra due condizioni per cui una è causa dell’altra e viceversa: in questo caso, il non aver capito cos’è la poesia (di fatto il non capirla) porta a non leggerla; d’altro canto, il non leggerla allontana sempre di più la possibilità di capirla, e quindi di capire “cosa è”.

Naturalmente, qui si parla in modo generico e con  esclusione delle “eccellenze”, cioè di coloro – e ce ne sono, ovviamente – che hanno consuetudine con le poesie (per un proprio talento innato nel capirne il linguaggio o per la fortuna di aver trovato un contesto che ha facilitato loro il compito), però sarebbe bello che questa consuetudine potesse estendersi a tante persone, a tutti coloro che forse la vorrebbero se solo ne intuissero la bellezza.

Per avvicinarci alla poesia, proviamo a servirci di Pavese che – si badi bene –  non ci aiuta direttamente dandoci magari consigli per la lettura o per l’ascolto, ma ci descrive  con grande profondità il suo rapporto con il “fare poesia”. Ci descrive in modo minuzioso il suo processo di produzione poetica, e anche la sua evoluzione all’interno di questo processo.



Ci riferiamo al saggio Il mestiere di poeta, che egli scrive nel 1934 sui tre anni di scrittura di Lavorare stanca. E’ sorprendente pensare che ha solo ventisei anni, e non solo ha già prodotto Lavorare stanca, ma è in grado di sviluppare una tale analisi del suo “processo di produzione poetica”, collegandolo con le sue altre attività e riflessioni. Quindi parliamo di quel livello di “capacità”, non solo nel linguaggio (poetico), ma anche nel meta-linguaggio che serve appunto per parlare e ragionare sul linguaggio.

Intanto egli, che dopo tre anni di lavoro considera ormai chiusa l’esperienza di Lavorare stanca, sostiene e dimostra che non si tratta di un “poemetto” ma che in essa si deve intendere “ogni poesia, un racconto”. In altre parole:


“Come due poemi non formano un unico racconto (si fermano tutt'al più a legami di parentela tra i rispettivi personaggi o consimili ripieghi), così due o più poesie non formano un racconto o costruzione, se non a patto di riuscire ciascuna per sé non finita. Dovrebbe bastare alla nostra ambizione, e basta in questa raccolta alla mia, che nel suo giro breve ciascuna poesia riesca una costruzione a sé stante.

Inizia poi a descrivere il suo processo di creazione, che ha preso spunto da un suo bisogno interiore “prima confuso poi via via più lucido”:

“Il mio gusto voleva confusamente un'espressione essenziale di fatti essenziali” mentre “andava intanto prendendo in me consistenza una mia idea di poesia‒racconto”.

Dopo molti tentativi alla ricerca di questo suo linguaggio specifico, finalmente riesce a trovare soddisfazione: “La prima realizzazione notevole di queste velleità è appunto la prima poesia della raccolta: I mari del Sud”. E spiega anche in che modo e con quali apporti sia passato “da un lirismo tra di sfogo e di scavo” “al pacato e chiaro racconto de I mari del Sud”. Il riferimento è “agli studi e alle traduzioni dal nord-americano”, ai contatti con il dialetto e con la composizione di ballate e canzoni per il soddisfacimento di un pubblico, sul quale aspetto aggiunge: “ragione pratica, questa di un pubblico, che mi pare da supporsi quasi concime alla radice di ogni vigorosa vegetazione artistica”.

Più avanti, particolarmente bella è la considerazione sul come “ravvivare” continuamente una lingua: “considerare ogni specie di lingua letteraria come un corpo cristallizzato e morto, in cui soltanto a colpi di trasposizioni e d'innesti dall’uso parlato, tecnico e dialettale si può nuovamente far correre il sangue e vivere la vita”.

    Alex Raso, Cesare Pavese

Insomma, in un modo o nell’altro, Pavese riesce con la prima poesia della raccolta, I mari del sud, a raggiungere un risultato soddisfacente: “mi ero altresì creato un verso”. Lontano sia dal verso libero, per il quale “mi mancava il fiato e il temperamento per servirmene”, e dai metri tradizionali, “nei quali non avevo fiducia”. “Così, senza saperlo, avevo trovato il mio verso”, “e questo considero il ritmo del mio fantasticare”.

Procede nel racconto lucidissimo della sua ricerca, che passa da una variabile all’altra. E’ riuscito a trovare “un proprio verso per il proprio narrare”, ma “narrare come?”. Riesce a farsi guidare dall’oggetto (di ogni singola poesia), ma poi scopre che l’oggetto stesso diventa troppo importante per essere “ridotto in fantasia”. Scopre allora l’immagine: nel “Paesaggio di alta collina” c’è l’eremita “colore delle felci bruciate”. Si accorge che questo gli accade dopo una “commozione pittorica” dovuta al fatto che poco prima “avevo veduto e invidiato certi nuovi quadretti dell'amico pittore, stupefacenti per evidenza di colore e sapienza di costruzione”.

Poi dall’immagine al rapporto fantastico, e così via. Ma non si può riassumere più di tanto “Il mestiere di poeta”, e sarebbe un peccato insistere: il saggio è da leggere parola per parola per la sua ricchezza e profondità. Certo, non è una di quelle letture che si addicono ai “lettori veloci”, quelli che in una notte leggono un libro e poi – per loro ammissione –  dimenticano tutto. E’ una di quelle letture in cui “le parole vanno fatte parlare”, e non sempre riescono con facilità ad esprimere tutto il potenziale della loro profondità.

Riprendiamo il filo del nostro ragionamento, nel quale ci eravamo posti il problema di avvicinarci alla poesia chiedendoci: “cosa è?”. Carmelo Bene, il grande attore di teatro scomparso ormai da tempo, dà questa definizione: “Poesia è risonar del dire oltre il concetto”.

Anche da queste parole capiamo che c’è qualche altra cosa “oltre il concetto”, e che quindi quella “traduzione in prosa” di cui parlavamo all’inizio sicuramente non basta perché al massimo fa capire cosa il poeta vuol dire, cioè “il concetto”. Oltre a questo, per Carmelo Bene c’è “il risonar del dire”, cioè qualcosa che ha a che fare con il suono della voce di chi legge la poesia, o con il “suono mentale” che deve ri-suonare nella mente di chi la legge anche nella lettura fatta senza voce. C’è poi un’altra considerazione da fare quando ammettiamo di dover andare “oltre il concetto”: se ci fosse solo “il concetto” potremmo dire di impegnare solo la “capacità razionale”, cioè il lato sinistro del nostro cervello, ma Pavese parla di “mistero, commossa perplessità, irrazionale”. Dobbiamo allora ammettere che con la poesia non dobbiamo soltanto “capire” ma dobbiamo “emozionarci”. Quindi, che è impegnata un’altra parte di noi oltre a quella razionale. E’ impegnata – se così possiamo dire – la parte di noi che ci porta a provare emozione.

A noi tutti (o almeno alla maggior parte di noi) capita più spesso di emozionarci con la musica, semplicemente ascoltando canzoni che ci sono particolarmente care o con la “musica colta” per chi ne ha consuetudine.


Mettendo insieme le due considerazioni appena riportate – che con la poesia dobbiamo puntare ad agire anche sul nostro “tasto emozione”, e che con la musica capita più frequentemente di emozionarci ( e quindi di “toccare” consapevolmente o no quel tasto) – la domanda sorge spontanea: perché non utilizzare della musica (opportunamente scelta con un po’ di studio e sperimentazione) per creare un alveo, un contesto, che faciliti la fruizione e l’interpretazione del testo poetico verso l’obiettivo della percezione soprattutto emotiva?

Se l’accostamento poesia-musica e il loro intreccio rientra in questa curiosità generale, c’è almeno un caso particolare di due nostri artisti –  dei due ambiti, poetico e musicale – che esprimono fra i loro ritmi una sicura sintonia. Parliamo di Cesare Pavese e Luigi Tenco, distanti trent’anni esatti come anno di nascita, ma incredibilmente vicini per luogo di nascita, sensibilità e modo di vedere e sentire il mondo.

Sono entrambi legati in modo indissolubile alla terra d’origine. “Queste dure colline che han fatto il mio corpo e lo scuotono a tanti ricordi,…”, dice Pavese in “Lavorare stanca”; e Tenco: “La solita strada, bianca come il sale, il grano da crescere, i campi da arare,….”. Di Tenco sappiamo, peraltro, l’amore per le opere di Pavese: “era un fanatico di Pavese. Abbiamo litigato un sacco di volte su Pavese, io e lui”, dice Gino Paoli parlando di Luigi.

Sulla “sintonia”  fra Cesare Pavese e Luigi Tenco si è parlato addirittura all’Università. “Il corso si propone di analizzare le problematiche esistenziali, psicologiche e sociali nella produzione artistica dello scrittore Pavese e del cantautore Luigi Tenco, entrambi anticipatori della modernità, nella denuncia disincantata del perbenismo ipocrita, della crisi dei valori morali e delle ideologie”: è la descrizione del Corso della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Genova, tenuto dalla Professoressa Graziella Corsinovi.


Ma anche qui, non si tratta di “solo razionale”, ma c’è sotto il ritmo poetico dell’uno e il ritmo musicale dell’altro, una sintonia complessiva che va soltanto “agita, sperimentata” (e non tanto “spiegata”) attraverso un’alternanza fra brani dell’uno e canzoni dell’altro. Quindi fra brani o poesie di Cesare Pavese e canzoni di Luigi Tenco.

E’ per questo che abbiamo lavorato con l’Associazione Musicarte di Lodi alla progettazione di uno spettacolo, che alterna appunto brani di Pavese e canzoni di Tenco, con una sola eccezione, cioè una canzone che non è di Tenco.  Dopo una presentazione del contesto da cui i due artisti provengono - soprattutto con immagini di Santo Stefano Belbo e Ricaldone - lo spettacolo si apre con una canzone scritta intorno agli anni ’60 da Mario Pogliotti e Anton Giulio Perugini, su testo di Cesare Pavese. Mario Pogliotti, scomparso nel 2006, è stato il primo capo-redattore RAI della Valle d’Aosta. Persona di grande cultura e anche musicista, amico fraterno di Piero Angela, ha fatto parte del gruppo dei Cantacronache di Torino, gruppo senza il quale Umberto Eco dice che non ci sarebbero stati i nostri grandi cantautori impegnati. Questa canzone – “Ricordo di Cesare Pavese” (o anche “Un paese vuol dire”) è una perla assoluta e adattissima ai nostri fini. Perché l’alchimia musica-parole che Pogliotti ha creato ci rende un effetto struggente, che pensiamo possa creare l’ascolto più adatto al Pavese-Tenco che ci accingiamo a proporre:

Ricordo di Cesare Pavese (Un paese vuol dire)

Un paese vuol dire non essere soli
Avere gli amici, del vino, un caffè.
Io vengo dalla città
Conoscevo le strade
Dalle buche rimaste
Dalle case sparite
Dalle cose sepolte
Che appartengono a me.

Al di la delle gialle colline c'è il mare
Un mare di stoppie, non cessano mai.
Il mare non voglio più
Ne ho visto abbastanza
Preferisco una tampa
E bere il silenzio
Quel grande silenzio
Che è la vostra virtù.

E in silenzio girare per quelle colline
Le rocce deserte, la sterilità
Lavoro non serve più
Non serve sfiancarsi
E le mani tenerle
Dietro la schiena
E non fare più niente
Pensando al futuro.

La sola freschezza è rimasta il respiro
La grande fatica è arrivare quassù
Ci venni una volta quassù
E quassù son rimasta
A rifarmi le forze
A trovarmi compagni
A cercarmi una terra
A trovarmi un paese
Un paese vuol dire non essere soli...

Lo spettacolo si sviluppa con questa alternanza:

Cesare Pavese
Luigi Tenco
C’è una ragione
da La luna e i falò
Un paese vuol dire
(di Pogliotti – Perugini)
Fumatori di carta
da Lavorare stanca
Danza occitana (strumentale)
Incontro
da Lavorare stanca

Ho capito che ti amo
In the morning you alwais come back
da Verrà la morte e avrà I tuoi occhi

Mi sono innamorato di te

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Io sì
Paesaggio VI
da Lavorare stanca

Vedrai, vedrai
I morti sconosciuti
da La casa in collina

Io vorrei essere là
Io non credo che possa finire
da La casa in collina
Un giorno dopo l’altro
(strumentale)
Lontano lontano
Last blues, to be read some day
da Verrà la morte e avrà I tuoi occhi

Ciao amore, ciao

Riprendiamo Pavese con la frase già citata poco fa, a proposito del pubblico che può condizionare in modo forte: “ragione pratica, questa di un pubblico, che mi pare da supporsi quasi concime alla radice di ogni vigorosa vegetazione artistica”. Nel nostro caso, ben più modestamente, non abbiamo una vera e propria “vegetazione artistica”; pur tuttavia anche per noi quello del gradimento del pubblico sarà il concime per la fragile pianticella del nostro omaggio a Cesare Pavese e Luigi Tenco. Più ancora, per il progetto ben più ambizioso di cercare legami e sinergie fra i ritmi poetici e musicali.



Dino Buzzati, l’ultimo sogno

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Rileggendo Dino Buzzati. La dimensione fantastica e surreale caratterizza le sue tavole a colori oltre che alcuni dei suoi romanzi tra cui non mettiamo "Il deserto dei tartari", opera per noi di un realismo esistenziale assoluto.

Orio Coldiron

Dino Buzzati, l’ultimo sogno


Quando nel dicembre 1946 con il taccuino in mano va al numero 40 di via San Gregorio a Milano, Dino Buzzati non sa ancora che si troverà di fronte alla sua prima scena del crimine. Sinistra e atroce come poche altre nella cronaca nera, tornata alla ribalta dopo il lungo silenzio stampa del regime fascista. Non è facile trovare le parole per il delitto di Rina Fort, la friulana trentunenne che approfittando dell’assenza dell’amante sale nel suo appartamento dove a colpi di spranga massacra per gelosia la moglie e i tre figli. Superato l’orrore, scrive alcuni dei suoi articoli più celebri seguendo il caso dall’arresto al processo.

Grande giornalista, affiderà alle colonne di piombo del “Corriere della Sera” – in cui è entrato nel 1928 a ventidue anni – i servizi sull’omicidio di Villa d’Este, il caso Fenaroli, la rapina di via Montenapoleone, l’arresto della banda Cavallero, il disastro del Vajont, la morte di Marilyn, l’assassinio di Kennedy, la strage di Piazza Fontana. Se è lui a rievocarli, non c’è differenza tra gli efferati delitti da prima pagina e le tragedie più sconcertanti perché diventano subito racconti in grado di coinvolgere il lettore, di fargli sentire sulla pelle il carattere disturbante dell’accaduto, mentre sullo sfondo incombono le segrete angosce del mondo.

Schivo, elegante, distaccato, è un mostro di bravura, può scrivere di tutto, dal Giro d’Italia, irresistibile il suo elogio delle gambe permalose e stanche degli eroi della bicicletta, alle trasferte a bordo delle volanti della polizia per vivere in diretta le notti della metropoli assediata dalla nuova criminalità e dai soprassalti improvvisi della violenza.

Giornalismo e letteratura procedono assieme, sono aspetti inscindibili della strategia narrativa in cui la cronaca lievita in mito, l’immaginario reimpagina le suggestioni della realtà, alimentando la dimensione fantastica sin dentro il quotidiano. Nelle forme dell’allegoria e della favola, i suoi due primi libri, Barnabo delle montagne (1933) e Il segreto del Bosco Vecchio (1935), rimandano al legame profondo con la montagna: “Le impressioni più forti che ho avuto da bambino appartengono alla terra dove sono nato, la Valle di Belluno, le selvatiche montagne che la circondano e le vicinissime Dolomiti. Un mondo complessivamente nordico al quale si è aggiunto il patrimonio dei ricordi giovanili della città di Milano, dove la mia famiglia ha sempre abitato d’inverno, nella casa di piazza San Marco, tra corso Garibaldi e piazza Castello”.



Il grande successo arriva con Il deserto dei Tartari (1940), il suo romanzo più significativo che ripercorre l’avventura del tenente Giovanni Drogo in servizio alla Fortezza Bastiani, l’ultimo avamposto alle soglie del deserto. Non sorprende che l’affabulazione prenda il via dall’autobiografia del cronista smarrito negli ingranaggi delle frustante monotonia redazionale, per cui la mitica fortezza rimanda, chi l’avrebbe detto, ai gelidi stanzoni del “Corriere” di via Solferino, restituendo perfettamente il clima italiano tra le due guerre, il tempo sospeso di un mondo chiuso in se stesso con le sue attese e i suoi trasalimenti.

Se fin da ragazzo ha sempre mescolato parole e immagini, il colpo di fulmine coincide con la scoperta di Arthur Rackham, il grande illustratore inglese che sembra dar corpo alle più intime fantasie dell’adolescente nei cui disegni spuntano rupi minacciose, guglie aeree, terrificanti abissi. La famosa invasione degli orsi in Sicilia appare a puntate sul “Corriere dei Piccoli” nel 1945.

La favola degli orsi che scendono dalle montagne e conquistano la città è felicissima per la ricchezza delle trovate e la leggerezza del racconto. Nelle tavole a colori si scatena l’estro del gioco, del puro divertimento, tipico di chi se ne infischia allegramente dell’impegno neorealista. Negli anni successivi scrive decine e decine di novelle, altrettante performance di alta acrobazia segnate dal senso d’angoscia, di rischio, di pericolo. Nei casi migliori il grande storyteller padroneggia con abilità il crescendo d’attesa e d’inquietudine, parte dal plausibile e va verso l’irreale. La scrittura si fa volutamente semplice, dimessa, burocratica. Se è abusato il richiamo a Kafka che lo perseguita come una maledizione, si avvertono piuttosto gli echi di Poe, Hoffmann e Conrad.



Un amore (1963) segna il ritorno al romanzo che fa scandalo per la scabrosità erotica della vicenda d’ispirazione in parte autobiografica. Nell’amore-passione dell’architetto Antonio Dorigo per la giovanissima squillo Laide si ritrova il tema della progressiva scoperta di sé tipico dell’autore, insieme alla rappresentazione di una Milano segreta, ambigua, misteriosa. La vera novità è che al centro di tutto s’impone per la prima volta l’immagine forte, devastante della donna come malattia, salvezza e dannazione, desiderio e solitudine, principio e fine.

Borghese stregato, stregato ma borghese, Dino Buzzati fatica a convivere con Buzzati Dino come il Dottor Jekyll aveva qualche problema con Mister Hyde, ma sa come uscirne: “L’unica, per salvarmi, è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia. E nello stesso tempo lei, incarnazione del mondo proibito, falso, romanzesco e favoloso, ai confini del quale era sempre passato con disdegno e oscuro desiderio”. Il libro ha gli accenti dell’autoanalisi dove con il fai da te della psicoanalisi selvaggia il protagonista si rivela a se stesso nella sua disarmante fragilità.

Senza l’impietosa denuncia della malattia non si capirebbe neppure l’esorcismo salvifico di Poema a fumetti, che esce con grande scalpore nel 1969, sconcerta i critici ma sfonda in libreria. Sulla storia di Orfi, che attraverso la piccola porta di via Saterna scende nell’aldilà per riprendersi Eura, aveva lavorato due anni, realizzando più di duecento tavole zeppe di citazioni e omaggi. Nel colophon si ringraziano, senza distinguere cultura alta e pratiche basse, Dalì, Friedrich, il magico Rackham, il simbolista Greiner, il Murnau di Nosferatu, Wilhelm Busch di Max und Moritz, i ragazzi dispettosi del protofumetto, Achille Beltrame della “Domenica del Corriere”, il fotografo Irving Klaw, i tre architetti Belgioiso, Peressutti e Rogers della Torre Velasca di Milano, attorno a cui svolazzano le diavolette impudiche. Ma sono molti di più i riferimenti sottotraccia che rimbalzano da una pagine all’altra, da De Chirico a Munch, da Escher a Breton, da Magritte a Lichtenstein, senza dimenticare l’amato Diabolik e gli eccessi visivi delle sexy-eroine in nero. Ma insomma che cos’è Poema a fumetti? Un film spiaccicato sulla carta? Uno storyboard? Un oggetto misterioso che apre la strada alla graphic novel?

La passione per la pittura si ritrova in I miracoli di Val Morel, l’ultimo libro che esce nel 1971. Spiazzante galleria di ex-voto per i prodigiosi miracoli attribuiti a Santa Rita da Cascia, è un racconto in trentanove capitoli risolti più con le immagini che con le parole. Le tavole sono strepitose, altrettante istantanee dell’impossibile, popolate di personaggi e apparizioni dove il gusto naïf, e finto naïf, convive con l’allusione maliziosa e la citazione erudita.

Come dimenticare il mostruoso colombre terrore dei mari, il gatto mammone che spaventa le contadine, il diabolico porcospino che tenta il monsignore, il formicone libidinoso, il robot intraprendente, gli incubici vespilloni, i diavoletti manigoldi, i marzianetti all’assalto, le formiche mentali, i gatti vulcanici? Se affrontando le proprie ossessioni ha cercato di sconfiggere la malattia, lo scrittore-pittore ringrazia per la guarigione e festeggia il miracolo della vita con lo stupore contagioso di sempre.

Nell’insolito poema a fumetti di pochi anni prima non mancava neppure qualche scheggia del lavoro a quattro mani con Federico Fellini per Il viaggio di G. Mastorna, il film sull’aldilà sempre rimandato e poi scaramanticamente messo da parte. Il suo primo contatto con il cinema risale a Il postino di montagna (1951), il bel documentario di Adolfo Baruffi dedicato a un minuscolo paese nel cuore delle Dolomiti.



Nello spolvero delle uniforme austroungariche e degli impeccabili sbattere di tacchi, è molto buzzatiano Il deserto dei Tartari (1976) che Valerio Zurlini gira con sontuosa lentezza quando finalmente a Arg-e-Bam nell’Iran sud-orientale trova il vecchio presidio militare che assomiglia alla Fortezza Bastiani. Il romanzo l’avrebbero voluto portare sullo schermo in tanti – Miklòs Jancsò, Michelangelo Antonioni, Jorge Semprun, Franco Brusati – ma prevale la tenacia di Jacques Perrin che si assicura i diritti e il ruolo di Drogo.

Ha i suoi estimatori anche Il segreto del Bosco Vecchio (1993), il cinguettante cartone animato firmato Ermanno Olmi con un Paolo Villaggio da teatro kabuki. Il migliore? Barnabo delle montagne (1994) di Mario Brenta. Severo, asciutto, essenziale come una scalata in quota, dove la magia nasce dalla fatica della realtà.


Il Manifesto – 25 giugno 2016

Le guerre inventate di Bush e Blair

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Afganistan, Iraq, Somalia ieri, Siria oggi. Paesi distrutti dalle “missioni umanitarie” delle grandi potenze (Italia compresa) diventati focolai di terrorismo e di violenza. Milioni di morti in nome di una “pace” che ha l'odore del petrolio. Ma gli imbecilli dicono che la causa di tutto sta nel Corano.

Bernardo Valli

Un’antica verità e la condanna di Bush



Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l’invasione dell’Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto.

Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per “crimine di guerra” a carico dell’inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l’autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra.

Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per «l’aggressione militare basata su un falso pretesto». E ha parlato di «violazione della legge internazionale», da parte di un primo ministro laburista, quel era all’epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l’inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l’obbediente Tony Blair fosse il “barboncino”.

Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell’Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l’invasione di allora. La situazione era pronta per un’esplosione. È vero. La guerra nell’Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l’Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l’Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli ottanta, tra l’Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l’Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell’Islam adesso in aperto confronto.



Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c’era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall’iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c’erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L’uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto.

La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l’altro, quando era in guerra con l’Iran, un alleato obiettivo.

L’irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L’ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c’erano gli americani, sia a Bassora dove c’erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza.



L’esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un’amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori.

L’impatto dell’intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell’impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l’Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L’intervento americano con l’appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d’accusa sul piano politico e morale, ma l’analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l’amico Blair hanno ignorato la Storia.


La Repubblica – 7 luglio 2016

“Mercoledì d’arte da Donna Riccarda”.

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Nuova iniziativa di eredibibliotecadonne in collaborazione con il ristorante sito in Darsena Donna Riccarda.

Partono la prossima settimana, mercoledì 13 luglio, i “Mercoledì d’arte da Donna Riccarda”.

Parteciperanno per questa estate 2016 cinque artiste già presenti alla mostra collettiva “Il Segno Femminile” che si è tenuta a giugno presso i locali dell’associazione Il Labirinto.

Le cinque personali avranno durata di due settimane ciascuna.

L’artista che inaugurerà il progetto sarà Rosanna La Spesa.

Pagani e cristiani. La storia di un conflitto

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I tentativi d’incontro e le persecuzioni nel rapporto tra l’impero e i cristiani

Paolo Mieli

Paganesimo al tramonto


La memoria, sostiene Giancarlo Rinaldi nell’introduzione a Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I – IV) di imminente pubblicazione per i tipi dell’editore Carocci, «condanna gli sconfitti». È capitato alla vasta produzione pagana di contenuto anticristiano, che pure ha avuto una parte fondamentale nella cultura dei quattro secoli iniziali del primo millennio. I documenti della «reazione pagana» sono scomparsi e quella che era la «voce della parte soccombente», all’indomani del trionfo della Chiesa, fu «deliberatamente ostracizzata e cancellata perché ritenuta perniciosa». Sicché gli storici sono costretti a lavorare su frammenti e citazioni «tutte punte di iceberg che ci fanno intravedere la profondità e la vivacità di un dibattito» che in quei quattrocento anni fu «ampio e serrato».

Ma, a dispetto di questa ricchezza, nei manuali si è soliti ricavare un misero capitoletto nel quale vengono confusamente ricordati i principali polemisti anticristiani, relegandoli così «in una sorta di circoscritta riserva indiana». Per di più in «note avulse dal complesso della ricostruzione storica generale la quale è invece ricavata di norma da fonti cristiane». A guardar bene, però, molte delle argomentazioni anticristiane messe in campo, secoli dopo, dall’Illuminismo fino ai nostri giorni, «possono considerarsi alla stregua di ombre sbiadite delle riflessioni di un Celso, un Porfirio o un Giuliano imperatore».

Il libro davvero importante di Rinaldi costituisce, perciò, un doveroso tentativo di avviare una ricostruzione dell’identità pagana. E, nel contempo, di comprendere come fu possibile che una forma di cultura religiosa così ben radicata del mondo antico, sia potuta soccombere di fronte all’avanzata di un nuovo credo religioso. Il cristianesimo era allora «una variante marginale della religione del popolo giudaico», il quale, a sua volta, veniva considerato «un’etnia esotica e circoscritta prodotta dalla piccola provincia della Giudea, detta poi Siria Palestina, terra estremamente periferica mortificata dal fallimento delle insurrezioni del 66-70, del 115-117 e del 132-135». In più, quella cristiana, a differenza della religione giudaica, non «ebbe carattere di liceità», se non dall’epoca dell’imperatore Gallieno (260) e poi da Galerio (311) e, in modo più definitivo, dall’editto di Costantino (313) in poi.



Che cosa fu allora che rese a tal punto fragili i culti pagani da farli soccombere sotto i colpi di una religione all’epoca minoritaria e praticata fuori dalle leggi? E che cosa fu in sé il paganesimo? Questi temi sono stati ben affrontati, tra gli altri, da Pierre Chuvin in Cronaca degli ultimi pagani (Paideia) e, in tempi più remoti, da Pierre De Labriolle, da Wilhelm Nestle nella Storia della religiosità greca (La Nuova Italia) e da Robert Louis Wilken in I cristiani visti dai romani (Paideia). Ma è solo con il saggio di Rinaldi che si tenta di dare una risposta definitiva e compiuta agli interrogativi di cui sopra.

Ai pagani, scrive l’autore, parve che la religione predicata da Gesù e tramandata dai suoi seguaci fosse una proiezione del giudaismo. I cristiani furono «schiacciati dall’ingente coacervo di giudizi e pregiudizi antigiudaici diffusi nel mondo ellenistico romano e dalla loro carenza del requisito dell’antichità che i giudei invece possedevano». Giudei nei confronti dei quali la polemica pagana era stata reiterata nei tre secoli che precedettero la nascita di Cristo. Da parte di Ecateo di Abdera all’epoca di Tolomeo I Sotere (323-283 a.C.), da Manetone, sacerdote di Eliopoli e collaboratore dello stesso Tolomeo per la promozione del culto di Serapide. E ancora da Lisimaco, che descrisse gli ebrei come un popolo di accattoni malati dediti all’assassinio e alla profanazione. Da Timagene, un personaggio influente nella Roma augustea.

I cristiani avrebbero potuto non essere contagiati da quel pregiudizio. Secondo l’ Apologeticum del cartaginese Tertulliano (155-230), l’imperatore Tiberio avrebbe ricevuto da Ponzio Pilato una relazione quasi rivoluzionaria in margine proprio al processo a Gesù. Pilato che, secondo Tertulliano, «già nel suo intimo era divenuto cristiano», avrebbe spiegato all’imperatore che i seguaci di Gesù non avevano, a differenza dei giudei, atteggiamenti antiromani e lo esortava, di conseguenza, a sottoporre al Senato un parere di legittimità a favore del nuovo culto. Tiberio avrebbe fatto sua l’iniziativa suggerita da Pilato, ma il Senato avrebbe respinto la proposta, ritardando di due secoli e mezzo la conciliazione di Roma con il cristianesimo. Una grande quantità di storici ha preso le distanze da questa ricostruzione ritenendola «inficiata da una finalità apologetica». Ma altri si sono spesi a favore della credibilità di queste tesi: Giovanni Papini, Luigi Pareti, Carlo Cecchelli, Edoardo Volterra e, in modo assai argomentato, in I cristiani e l’impero romano (Jaca Book), Marta Sordi.



Pilato «divenuto cristiano»? Come si concilia quel che scrisse Tertulliano con il processo a Gesù? E perché sarebbe stato deciso di incolpare gli israeliti? In un notevole libro appena pubblicato, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria (Einaudi), Aldo Schiavone scrive che Tertulliano probabilmente sapeva del processo a Gesù cose che non ci sono state tramandate. In particolare, che gli fosse nota una tradizione secondo la quale il comportamento di Pilato veniva spiegato come «un arrendersi alla potenza della profezia di Gesù su se stesso, all’inevitabilità della morte del prigioniero». Era, sostiene Schiavone, una verità complicata da raccontarsi, che poteva essere facilmente fraintesa, e «spezzare quel delicato bilanciamento tra libero arbitrio e precognizione del disegno di Dio». Un equilibrio fra natura umana e divina di Gesù, che faceva del sacrificio del Figlio «una tragedia senza confronti e non la recita di un copione prestabilito». E qui si giunge alle «colpe» degli ebrei.

Perché il rischio di cui sopra venisse evitato, prosegue Schiavone, occorreva che fossero indicati chiaramente e senza dubbi i responsabili della morte di Cristo, che erano stati liberi di decidere: fra Pilato e i sacerdoti la scelta non poteva che restare ambiguamente aperta; senza dire dell’idea, maturata subito, di spostare sull’intero popolo di Giudea la colpa per quanto era accaduto. Se si fosse ammesso che il prefetto aveva ceduto a quel che aveva ritenuto la manifesta volontà di Gesù, si sarebbe aperta la strada a mille interpretazioni, tutte potenzialmente fuorvianti rispetto all’impianto teologico della nuova religione. Interpretazioni che avrebbero potuto sminuire il valore di quel gesto letteralmente senza eguali: il martirio del Figlio di Dio per la salvezza dell’intera umanità. Sarebbe insomma venuta alla luce una «tacita intesa» tra Pilato e Gesù, «favorita dalla stessa asimmetria fra i due interlocutori». In seguito le due tradizioni, quella pagana e quella cristiana, avrebbero fatto di tutto per occultare questa intesa «anche se al prezzo di rendere l’intera vicenda quasi inspiegabile e di gettare su di essa l’ombra dell’enigma e dell’incomprensibilità». Convincente.

Tanto più che, ricorda Schiavone, la decifrazione di questa vicenda aveva continuato «a rimanere per un certo tempo nell’aria, invisibile per la sua stessa trasparenza, ma non del tutto cancellata». La prova? Alla fine del IV secolo la Chiesa stabilì di aggiungere al ricordo della morte di Gesù una curiosa menzione del nome del prefetto — «fu crocefisso per noi sotto Ponzio Pilato» — senza peraltro indicarlo come responsabile dell’uccisione del figlio di Dio. Schiavone giustamente ritiene che ciò non sia accaduto per fissare una cronologia (nel caso sarebbe stato indicato Tiberio), ma «per qualcosa di più sostanziale». In quella scelta «c’era l’eco ormai lontana di un ricordo, di un conto da chiudere, di una verità da non perdere del tutto». Quei nomi «dovevano stare insieme, come in quella mattina in cui si consumò l’indicibile».



Convinto da Pilato, riprende Rinaldi sulla scia degli studi di Marta Sordi, Tiberio avrebbe voluto favorire la diffusione del pacifico «movimento gesuano», conferendogli uno status di religio licita . Ma il Senato si sarebbe opposto. C’è una prova logica della plausibilità di questa tesi? Sì. Tertulliano era un apologeta cristiano e non gli avrebbe fatto comodo rievocare una «bocciatura da parte del Senato della religione che difendeva». Marta Sordi ha inoltre ipotizzato che Tertulliano avrebbe derivato le notizie di cui qui si parla dagli Atti del martire Apollonio, il quale nell’età di Commodo sarebbe stato messo a morte proprio in virtù del senatoconsulto negativo.

Dopo questo mancato incontro iniziale la storia dei rapporti tra pagani e cristiani si è tradotta in una complicata partita durata appunto quattro secoli, nella quale era parso a lungo che gli antichi culti fossero destinati a prevalere. Persino all’epoca di Costantino, cioè all’inizio del quarto secolo. Costantino infatti non represse i culti pagani, ma si limitò a disciplinarli. L’ excursus di Rinaldi degli anni che precedettero la svolta costantiniana è davvero accurato nella descrizione dei dettagli di questo tortuoso tragitto, tra persecuzioni, tolleranza, accettazione.

Dalla dichiarata ostilità di Marco Aurelio (161-180) del quale Rinaldi scrive eufemisticamente che «non nutrì soverchia simpatia nei riguardi del fenomeno cristiano». All’aggressione del filosofo platonico Celso, che (intorno al 178) prese di mira la pluralità dei Vangeli: «Alcuni dei fedeli poi, come se in seguito all’ubriachezza arrivassero ad azzuffarsi tra loro, riscrivono tre, quattro, tante volte la primitiva stesura della buona novella e la rimaneggiano al fine di poterla rinnegare di fronte alle confutazioni», ironizzò. Dall’apertura di Settimio Severo (193-211), ingiustamente consegnato alla memoria di un editto che vietava le conversioni al giudaismo e al cristianesimo ma che, in realtà, si avvalse della collaborazione del cristiano Marco Aurelio Pròsene. Alla «cordialità» dei rapporti tra cristiani e domus imperiale ai tempi di Alessandro Severo (222-235). Per concludersi con un singolare punto di convergenza che si ebbe al momento della battaglia di Adrianopoli (378), allorché i goti sconfissero sul campo i romani e uccisero il loro imperatore, Valente.

In questa occasione cristiani e pagani ebbero un’identica reazione alla tragedia. Gli uni e gli altri si persuasero, a un tempo, che si trattasse di un castigo divino. Una vendetta, ritennero i seguaci di Cristo, contro chi aveva favorito la fazione ariana. Una punizione per non aver ostacolato la «novità cristiana», sostennero i pagani. Che insistettero su questa tesi nel 410, quando Alarico, alla testa degli stessi Goti, mise a ferro e fuoco Roma. «Il sacco di Roma», precisa Rinaldi, «in sé e per sé non sembra aver avuto alcun effetto di spartiacque nella storia». Ma, se si esaminano le riflessioni dei pagani, ci si può rendere conto che l’avvenimento «fece emergere un fiume carsico di paure e polemiche che partivano tutte dalla convinzione che l’abbandono dei culti tradizionali aveva comportato per Roma (e il suo impero) la rottura della pax deorum , dando la stura a un declino che si stava trasformando in catastrofe». Catastrofe per Roma. E anche, pressoché definitiva, per il mondo pagano.


Il Corriere della sera – 29 marzo 2016

Estate alle antiche mura

Morte di Davide Lazzaretti, il Cristo del Monte Amiata

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Sono stato sul Monte Amiata
dove è nato Gesu Cristo
che fu il primo socialista
e morì per la libertà”

Sono le parole di un vecchio canto popolare.
Uno spettacolo narra ora il sogno del barrocciaio nato ad Arcidosso, in Toscana, nel 1834 e ucciso nel 1878 con una palla di fucile in fronte. Per i suoi seguaci “Il Cristo dell'Amiata”, per lo Stato un sovversivo e un folle.


Laura Zangarini

Il Vangelo di David Lazzaretti secondo figlio di Dio




«La tua vita è un mistero che un giorno ti sarà svelato». È questa la profezia che un vecchio frate fa a David Lazzaretti nel bosco di Macchiapeschi, nelle vicinanze di Cana, in Maremma. È la primavera del 1848, David ha 14 anni. Trent’anni dopo, davanti a una folla adorante di tremila persone, David proclamerà di essere la reincarnazione di Cristo.

Alla figura complessa di David Lazzaretti — predicatore, eretico, utopista — è ispirato Il secondo figlio di Dio. Vita, morte e miracoli di David Lazzaretti , il nuovo spettacolo di canzoni e narrazione scritto da Simone Cristicchi e Manfredi Rutelli con musiche originali dello stesso Cristicchi e del maestro Valter Sivilotti. Affidata alla regia di Antonio Calenda, la produzione firmata CTB Centro Teatrale Bresciano e Promo Music in collaborazione con Mittelfest debutterà in prima nazionale il 23 luglio a Cividale del Friuli.

L’«antiquario della memoria», come si definisce Cristicchi, e il barrocciaio di Arcidosso si incontrano per la prima volta nel 2008, a Santa Fiora, sulle pendici del Monte Amiata, in provincia di Grosseto. In questo paesino Cristicchi ha scoperto il Coro dei Minatori, un ensemble di musica popolare (14 elementi tra i 19 e gli 81 anni con cui ha costruito lo spettacolo Canti di miniera, d’amore, di vino e anarchia ) che, spiega a «la Lettura», «di generazione in generazione si tramanda i canti di quelle terre, intonate per lo più nelle osterie o nelle piazze di paese. Scavando nelle tradizioni e nelle leggende locali mi sono imbattuto in Lazzaretti, oggetto non solo di culto popolare ma anche dell’attenzione di storici, scrittori e letterati, da Guy de Maupassant a Benedetto Croce, da Giovanni Pascoli ad Antonio Gramsci. Se ne interessò anche Tolstoj nel corso dei suoi incontri con Cesare Lombroso, che ne studiava il cranio per dimostrarne scientificamente la follia».

Nel suo vagabondare artistico, incappare nel passato è una costante: cosa l’attrae? «Mi spinge l’urgenza di raccontare delle storie, di restituire in qualche modo una “giustizia” ai dimenticati. In Magazzino 18 era il dramma delle foibe e l’esodo di istriani e giuliano-dalmati, era spiegare come gli oggetti che lasciamo dopo il nostro passaggio su questa terra parlano di quello che siamo stati; in Li Romani in Russia era la necessità di cercare le mie radici attraverso la storia di un uomo straordinario, mio nonno, tornato a piedi a Roma dalla ritirata di Russia». Riflette: «Mi ritrovo nella sua ostinazione. Più in generale mi rispecchio in quella feroce volontà di farcela a tutti i costi, di raggiungere un obiettivo: nel caso di mio nonno quello di salvare la pelle. Ma se lui non fosse stato costretto a quel tragico ritorno, io non avrei mai potuto essere qui».



E nel caso di Lazzaretti quale urgenza l’ha spinta? «Volevo raccontare una storia che forse è solo una follia, una storia che se non te la raccontano, non la sai: perché quella di Lazzaretti è la storia di un’idea, di un sogno. Di un’utopia. Lo hanno definito “folle”, “eretico” “socialista”. Ma lui non aveva niente a che fare col socialismo, per lui la “condivisione” era molto semplicemente uno strumento per elevare lo spirito».

La visione del vecchio frate nel bosco di Macchiapeschi per anni deve essere apparsa a David come un sogno. La sua vita prosegue secondo le linee tradizionali di quella di un giovane montanaro: il lavoro, la famiglia (nel 1856 sposa una donna che gli dà cinque figli), l’impegno civile e politico (nel 1859 entra nella cavalleria del generale Enrico Cialdini; l’anno dopo combatte contro le truppe pontificie). Tuttavia, il 25 aprile 1868, esattamente vent’anni dopo quel primo incontro, ecco che il vecchio frate gli appare ancora. Lo spinge a recarsi dal Papa per «esporgli la sua missione»; quindi a «ritirarsi in un convento». È qui che «divine» visioni gli fanno visita e torna a parlargli il «santo vecchio». Quando, dopo un altro soggiorno eremitico, David riappare tra le popolazioni dell’Amiata con il suo nuovo ruolo di «uomo santo», gode ormai di un ampio e profondo prestigio sociale.

Numerosi fedeli si raccolgono intorno a lui per ascoltare la sua predicazione e seguirne i consigli. «Ad amarlo furono soprattutto poveri e bisognosi, che si affidarono a lui non solo perché annunciava l’avvento dello Spirito Santo che avrebbe cambiato il volto del mondo, ma anche per il suo carisma. Pio IX, vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica, gli concesse udienza privata. Rimase talmente colpito dalla personalità del predicatore che lo protesse fino al giorno della sua morte, il 7 febbraio 1878. Lazzaretti verrà ucciso qualche mese dopo, in agosto, sotto il pontificato di Leone XIII».

La vita messianica di Lazzaretti, e la sua fama anche Oltralpe, mettono in allarme le autorità ecclesiastiche e civili. Scomunicato dal Sant’Uffizio, il predicatore vede messi all’Indice i suoi libri e scritti. «Ma infastidiva anche lo Stato, che lo considerava un agitatore di masse, un rivoluzionario. Il giorno in cui venne assassinato, il 18 agosto 1878, stava guidando la processione per la Festa dell’Assunta verso Arcidosso. Ai piedi del Monte Labbro lo attendeva una pattuglia di carabinieri.



Spararono, una palla di fucile colpì David proprio in mezzo alla fronte. Morì dopo nove ore di agonia. Con lui rimasero uccisi anche tre poveri montanari, semplici spettatori della processione».
Antonio Gramsci scrisse che quella di Lazzaretti fu una fucilazione senza processo, premeditata a freddo. «I sospetti che possa essere stato un omicidio politico non sono mai venuti meno. Era diventato un personaggio scomodo. La vera frattura si aprì quando cominciò a predicare la “sua” teologia, a sostenere che la teoria del libro della Natura fosse l’unica Bibbia. Affermava che la divinità non è fuori ma dentro l’uomo, una tesi per la Chiesa intollerabile. Per me, la portata rivoluzionaria del suo dogma risiede nella sua capacità di ripensare il mondo, di credere di poterlo cambiare a partire da noi stessi».

Che cosa rimane oggi di quell’utopia, di quel sogno? «Fino agli anni Sessanta David aveva ancora dei seguaci. Oggi la sua eredità è un museo dove sono conservati oggetti d’epoca, cimeli e documenti, e un centro studi che edita pubblicazioni e ricerche sul “santo”. Per me del suo “messaggio” resta soprattutto la visione di ogni uomo come tessera di un grande mosaico, indispensabile a tutti gli altri».

    Monte Labro. Ruderi del Santuario davidico

Dal testo dello spettacolo verrà tratto il libro omonimo che uscirà in coincidenza con l’inizio della tournée (sono già previste una sessantina di repliche). Cosa vedranno in scena gli spettatori? «Al centro del palco ci sarà un barroccio che diventerà via via una macchina teatrale, mentre alcune videoproiezioni mostreranno i luoghi in cui si svolge la storia di David: l’Amiata, un ex vulcano ora a riposo, è considerato un monte misterioso, dalle forti “energie”; rimanda ad alchimie arcane, è la zona del cinabro, del mercurio... Qui sorge il più importante tempio buddhista d’Italia, Merigar, letteralmente la “residenza della montagna di fuoco”, simbolicamente “dimora dell’energia”. Ad Arcidosso sono tuttora visibili particolari simboli scolpiti nella pietra che richiamano una sapienza antica, la presenza dei templari…». E le canzoni? «Saranno accompagnate da un coro polifonico.

Darà allo spettacolo una sacralità molto suggestiva, con canti in stile gregoriano e musiche dal vivo eseguite da quattro musicisti». Cosa vorrebbe che il pubblico portasse con sé, a casa, della sua storia? «La storia di Lazzaretti è la metafora di quello che è capace di fare un uomo: solo i pazzi, i rivoluzionari e i poeti non smettono mai di dare ascolto alla voce che li spinge a inseguire il sogno».


Il Corriere della sera – 26 giugno 2016

Bruno Cassaglia e Gianni Bacino ai mercoledì di Pozzo Garitta

Puglia: fatalità o spia del malessere di un paese in crisi?

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E' vero: la tragedia avvenuta in Puglia è il simbolo di un Paese allo sbando. Questa volta però non si può dare la colpa all'Europa delle banche né alla destra. I fondi per il raddoppio e la messa in sicurezza (europei, appunto) c'erano inutilizzati da anni. E governava la sinistra di Nichi Vendola. Che senso ha poi parlare di Sud dimenticato o addirittura, come qualcuno ha scritto, di razzismo antimeridionale? Dopo settant'anni di autonomia (Sicilia) e di finanziamenti a pioggia (Cassa del Mezzogiorno prima, fondi europei poi) vanificati da incapacità gestionale, incuria, malaffare e corruzione, i piagnistei meridionalisti suonano davvero stonati. Considerato anche che da De Nicola a Mattarella, passando per Moro, De Mita e Leone,gran parte della classe di governo è stata espressione proprio di quel Sud che ci si ostina, per pigrizia mentale, a definire dimenticato. Forse sarebbe meglio riflettere sulla gestione del potere locale e sui rapporti con mafie e malaffare diffuso nei decenni DC, ma anche in quelli attuali della sinistra al governo in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Sbaglieremo certamente, ma nei governi PD non ci pare di vedere grandi segni di cambiamento rispetto a quel passato.

Linda Laura Sabbadini

È una spia del malessere del Paese


Un incidente terribile, ma evitabile in Puglia tra due treni incanalati sullo stesso binario e la vita dei pendolari, lavoratori e studenti appesa ad una telefonata. Non ci si può neanche credere. Sembra un incubo. Un bimbo appena nato che muore in Sardegna per la mancanza di elisoccorso dopo che la sua mamma partorisce prematuramente in traghetto. Che cosa sta succedendo nel nostro Paese? Episodi che non vorremmo vedere. Gli epidemiologi li chiamerebbero eventi sentinella. Sintomi di qualcosa di profondo che non va.

Si tratta di mortalità evitabile che il nostro Paese deve puntare ad azzerare. Per mortalità evitabile si intendono quegli eventi che potrebbero essere contrastati con azioni mirate, soprattutto nell’ambito della prevenzione e della sicurezza, e del potenziamento di servizi e infrastrutture, come in questi casi. E si deve farlo sapendo che su questi fronti i rischi non sono equamente distribuiti. Stiamo parlando di Sud, parte fondamentale del nostro Paese e dell’Europa. In Italia la mappa dei bisogni presenta già alcuni squilibri, perché non coincide con la mappa dei servizi e delle infrastrutture presenti.

Gli anziani, ad esempio, sono in peggiori condizioni di salute al Sud, ma hanno minore assistenza sociale e sanitaria. I poveri sono di più, ma ricevono di meno. Attribuire la responsabilità a inefficienze di natura locale o all’incapacità di gestire fondi da parte delle amministrazioni del Sud non aiuta a mettere a fuoco soluzioni efficaci, anzi, si rivela spesso controproducente. 

Il punto è piuttosto quello di ricostruire opportunità adeguate per la popolazione del Sud, tenendo a mente che le croniche «dispari opportunità» che si sono perpetrate negli anni non permettono di valorizzare le grandi risorse umane e del territorio pur presenti in quelle zone. E’ un gap che va colmato, in fretta, prima che le disparità aumentino ulteriormente, ad esempio con la fuga dei giovani, e prima che i settori più dinamici del Sud siano costretti ad abbandonarlo.

Non si possono fare risparmi sulla sicurezza dei cittadini, né accumulare ritardi sull’assistenza sanitaria, da sempre un pilastro del nostro Paese: si è fin troppo tagliato su prevenzione, sicurezza e sanità, adesso è il momento di investire. La mortalità evitabile al Sud è un fattore che si aggiunge e si sovrappone a un quadro già disagiato. Il disastro ferroviario in Puglia e il mancato elisoccorso in Sardegna colpiscono territori già pesantemente provati, ed è su questo secondo aspetto che bisogna lavorare.

Quando si comincerà a investire - più che a tagliare - per ridurre le disuguaglianze di opportunità tra Nord e Sud? Non ci si può lavare le coscienze ricordando le inefficienze e gli sprechi. Il Sud ha bisogno di essere sostenuto nel recupero del gap che lo separa dal resto del Paese. E il nostro Paese deve ritrovare le sue priorità. La crescita dell’Italia è strettamente connessa alla crescita del Sud. Eliminare la mortalità evitabile, puntare sulla prevenzione e sulla sicurezza, partire dai bisogni di coloro che hanno sempre avuto meno, questo è il compito.


La Stampa – 14 luglio 2016

Beppe Fenoglio. Partigiano e scrittore

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"E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevano sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo, e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita".

Italo Calvino


Giorgio Amico

Beppe Fenoglio. Partigiano e scrittore

Nel giugno 1964 Italo Calvino nella prefazione ad una nuova edizione del suo primo romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno”, tira un bilancio definitivo del rapporto fra Resistenza e letteratura. Dopo aver narrato i tentativi frammentari, spesso ingenui, di raccontare l'epopea partigiana nei primi anni del dopoguerra e il successivo ripiegamento negli anni Cinquanta con l'abbandono quasi generale del tema, Calvino conclude con grande determinazione indicando in Beppe Fenoglio il vero, grande, cantore del movimento partigiano:

“Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più isolati, i meno “inseriti” a conservare questa forza. E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevano sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata. Una questione privata [...] è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché. È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio”.

Un giudizio da allora mai rimesso in discussione e che anzi il trascorrere del tempo e la conoscenza più approfondita dello scrittore piemontese ha semmai sempre più confermato. Dunque in campo letterario la Resistenza porta il nome di Beppe Fenoglio che la narrò in quasi tutte le sue opere, dai primi “Appunti partigiani” del 1946, ai racconti de “I ventitre giorni della città di Alba” del 1952, ai romanzi “Primavera di bellezza” del 1959 e “Una questione privata” del 1962, per culminare poi nel grande affresco incompiuto de “Il partigiano Johnny”.



Ma chi era Beppe Fenoglio? In una lettera inviata proprio a Italo Calvino, che gli chiedeva i dati biografici in vista della pubblicazione del suo primo libro “I ventitre giorni della città di Alba”, lo scrittore si raccontava in due scarne righe:

“Circa i dati biografici, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno. Nato trent’anni fa ad Alba ( primo marzo 1922) – studente (Ginnasio-liceo, indi Università, ma naturalmente non mi sono laureato) – soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota Ditta enologica. Credo che sia tutto qui”.

Qualcosa di più del personaggio e della sua idea di scrittura comprendiamo da un'altra sua dichiarazione autobiografica pubblicata postuma nel 1964:

“Scrivo per un'infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un'infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”.
Da queste due scarne testimonianze emergono gli elementi centrali della vita e dell'opera di Fenoglio: Alba con le Langhe e la Resistenza. Figlio di un contadino di langa in fuga dalla fame sceso ad Alba a fare il macellaio, prima liceale povero nella scuola dei figli dei ricchi, poi studente universitario a Torino, richiamato a inizio del ’43, frequentante il corso d’allievi ufficiali, Fenoglio viene sorpreso dall’otto settembre a Roma, dalla quale fortunosamente riesce a rientrare nella sua città (bellissimo in “Primavera di bellezza” il suo schizzo della stazione di Savona occupata dai tedeschi), per entrare poi nella Resistenza, prima nelle Brigate Garibaldi e poi nelle formazioni monarchiche. Un'esperienza fondamentale, tanto che già nel 1946 egli scrive una serie di racconti, gli “Appunti partigiani”, dedicati “ A tutti i partigiani d'Italia. Morti e vivi”, mai pubblicati in vita e recuperati per puro caso molti anni dopo.



Su quattro piccoli taccuini, registri dei conti del padre che teneva casa e bottega a fianco della cattedrale, su fogli sormontati da un casellario che definisce data, carne, prezzo e importo, il giovane Fenoglio inizia il suo racconto della Resistenza che è prima di tutto descrizione di un paesaggio amato. “le Langhe del mio cuore – scrive Fenoglio nel primo capitolo – quelle che da Ceva a Santo Stefano Belbo, tra il Tanaro e la Bormida, nascondono e nutrono cinquemila partigiani e gli offrono posti unici per battagliarci, chi ne ha voglia. E suonano male a chi i partigiani li vuole morti ammazzati”.

Perchè è stata la Langa, antica terra madre, a proteggere i partigiani e a sconfiggere i nazifascisti:

“Loro – scrive in un passo bellissimo degli “Appunti” - avevano ammazzato, più borghesi che partigiani, avevano fatto falò di cascine, e razziato, avevano sforzato donne, intruppati uomini e preti perchè gli portassero le cassette delle munizioni e gli facessero scudo da noi. Erano venuti in tre divisioni, per setacciare tutto e tutti. Ma, chiedo perdono ai morti e alle loro famiglie, scusa a quelli che ci han perduta la casa e il bestiame, ma io credo che allora tedeschi e fascisti non si siano salvate le spese. Non fu abilità nostra, né che loro fossero tutte schiappe. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa”.

E stato Calvino a notare come la Resistenza abbia rappresentato “la fusione tra paesaggio e persone" Non c'è espressione migliore che possa definire la guerra partigiana come la racconta Fenoglio. Una guerra feroce che nasce e si svolge tra i boschi, le colline, nei luoghi più nascosti di quella terra fra Tanaro e Bormida chiamata Langa. “Un mondo fatto per vivere in pace”, scrive ne “I ventitre giorni”, sconvolto dalla violenza cieca della guerra. Niella Belbo,Mombarcaro, San Benedetto Belbo, Mango, Murazzano, borghi senza tempo persi in un mare di colline, diventano testimoni e attori di una storia grande e terribile di ribellione e di riscatto.

In questo paesaggio si inseriscono le vicende dei partigiani ed in particolar modo l'esperienza del partigiano Johnny (alter ego dello scrittore). E' il grande romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1968 (e in una nuova versione, forse definitiva, nel 2015) che racconta l'epopea partigiana di Johnny/Fenoglio dal suo ritorno a casa dopo l'8 settembre fino allo scontro di Valdivilla del 24 febbraio 1945.



Poco compreso ai suoi inizi letterari, duramente criticato da sinistra, Fenoglio fu accusato addirittura di aver denigrato la Resistenza, di averla raccontata in modo farsesco e poco eroico. Principale accusatore Davide Lajolo, allora direttore dell'edizione milanese de “l'Unità” che anni dopo riconoscerà il suo errore e farà ammenda scrivendo una biografia di Fenoglio, un sincero e fraterno omaggio allo scrittore rappresentato come un puritano, “un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe”.

“Eravamo tra quelli – scrive Lajolo – che si sono adontati e non riconoscemmo in Fenoglio il cantore della Resistenza (…) ci diede l'impressione che non avesse capito né durante né dopo cos'era stata quell'unica guerra patriottica”.

Colpiva negativamente nella sua scrittura la assoluta mancanza di retorica resistenziale, quella retorica propagandistica, ammetterà Lajolo, retaggio del passato fascista e che Fenoglio non conosceva proprio per essersi formato negli anni delle parate e delle divise, da autodidatta nel piccolo mondo di Alba sui testi dei grandi classici inglesi, Shakespeare e Milton soprattutto.

Per cui (e riprendiamo Lajolo) “Oggi, a distanza di anni, appare ancor più vera la Resistenza così come l'ha narrata Fenoglio perchè se fosse stata quale noi l'abbiamo descritta (…) non avrebbe potuto essere messa da parte dal ritorno conservatore del prefascismo, dall'arroganza antidemocratica di chi l'ha perseguitata e esclusa dalle scuole. (…) Anche in questa luce Fenoglio vide giusto e fu lo splendido cantore del nostro autentico risorgimento”.

Beppe Fenoglio muore di tumore all'Ospedale Molinette di Torino il 18 febbraio 1963. Non aveva ancora compiuto quarantuno anni. Con lui sparisce forse il più grande scrittore nel dopoguerra. Muore semplicemente, come semplicemente era vissuto. Il giorno prima di morire lascia scritto al fratello: “Funerale civile, di ultimo grado, domenica mattina, senza soste, fiori e discorsi”.

Sulla sua tomba vuole sia scritto: “Beppe Fenoglio. Partigiano e scrittore”




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