Maestro di Saliceto: San Martino ( metà del XV secolo)
San Martino rappresenta una delle più importanti feste autunnali. Guido Araldo ne racconta la storia con un particolare riguardo ad usanze e credenze diffuse un tempo nel mondo di Langa.
Guido Araldo
San Martino
Una delle più importanti feste autunnali, non soltanto sulle Langhe e in Piemonte, ma in tutta l’Europa, era quella di San Martino: occasione di grandi fiere che coincidevano con la fine dei raccolti. Una festa che, peraltro, coincide con l’ultimo sprazzo dell’estate, solito a manifestarsi nei giorni attorno all’11 novembre, noto come “l’estate di San Martino”.
Il nome del santo deriverebbe da Marte, il dio della guerra, attribuitogli da suo padre che era un ufficiale romano: lui stesso militò nella cavalleria imperiale durante l’adolescenza e la giovinezza. Un nome, per la verità, sicuramente non casuale: Marte apre la bella stagione, con l’equinozio di primavera, e Martino la chiude. Si può ben affermare che tra Marte e Martino Persefone tornava sulla terra.
Il gesto più famoso di san Martino, ripetuto in migliaia di affreschi che hanno accompagnato la storia della cristianità occidentale, fu il taglio del mantello da cavaliere: “la cappella”, per offrirne una parte a un povero questuante seminudo e infreddolito. Un simbolo di pietas e caritas di grande effetto e suggestione: connubio tra morale antica e morale cristiana.
La leggenda vuole che la notte successiva al taglio del mantello Martino avesse sognato Gesù che gli restituiva la parte tagliata e sussurrava: “Ecco Martino! Il soldato romano che non è battezzato e che mi ha vestito”. Subito dopo, svegliatosi di soprassalto, Martino aveva trovato il mantello integro.
Da allora, similmente al mantello del Profeta nell’Islam, quel mantello fu considerato una reliquia miracolosa, tra le principali della cristianità: affidata dapprima ai re Merovingi e poi agli imperatori Carolingi, quindi ai re di Francia. Lo stesso termine latino “cappella”: “il mantello corto militare” tipico della cavalleria imperiale, passò ai guardiani che avevano l’incarico di custodirlo e che per questo erano chiamati cappellani. Al tempo stesso la parola cappella trasmigrò all’oratorio, dove questi guardiani erano soliti pregare, per poi estendersi a tutte le piccole chiese della cristianità. Purtroppo la preziosa chiesa (la prima cappella a fregiarsi di questo nome) che conteneva il mitico mantello di san Martino, a Tours, fu distrutta durante la rivoluzione francese.
San Martino divenne così famoso che l’11 novembre, giorno a lui consacrato, era considerato una festa canonica, con la stagione dei raccolti giunta al termine, durate la quale non si doveva lavorare. Una festa che chiudeva l’annata agricola: occasione d’incontri e festeggiamenti che duravano tutta la notte, fino all’alba.
Per la verità, san Martino non fu soltanto vescovo, ma anche monaco: a lui viene fatta risalire la prima esperienza del monachesimo nelle Gallie; un monachesimo sui generis, avulso dalla liturgia (la regola benedettina doveva ancora venire), impegnato principalmente nella lotta al paganesimo che manteneva profonde radici nell’Europa Occidentale. Proprio a san Martino è attribuita l’evangelizzazione delle campagne francesi e della Val Padana. I suoi monaci, più che le preghiere, usavano nodosi bastoni per convertire i pagani. Furono molti i templi che andarono distrutti: più, forse, delle chiese che vennero edificate.
Sicuramente la fama di san Martino non sarebbe stata tale, se il santo non fosse stato considerato un grande taumaturgo: un eccellente guaritore. Non a caso il monastero dove egli visse lungamente, noto come maius monasterium (il monastero grande), ora Marmoutier, divenne ben presto meta di pellegrinaggi da tutta l’Europa Centrale.
La grande diffusione del culto di san Martino derivò dal fatto che il santo andò configurandosi come il “protettore” dei Franchi e dell’impero di Carlo Magno; come san Michele Arcangelo lo fu per Bizantini, Longobardi, Vichinghi e Normanni.
Una leggenda postuma vuole che, restio ad abbandonare il suo ruolo di monaco per diventare vescovo, Martino si sia nascosto in una stalla piena di oche e che sarebbe stato tradito dal loro starnazzare. Da allora, l’oca al forno divenne il piatto tradizionale nel giorno di San Martino.
A proposito della cappa di San Martino… Siamo sicuri che sia andata proprio così? “Per un punto Martin perse la cappa!” E se quella benedetta cappa se la fosse giocata ai dadi, perdendone la metà? Poi, tornato in caserma, per non sfigurare s’inventò l’esaltante storiella del poverello incontrato per strada… Le storie dei santi sono molto imprevedibili. Considerata l’ammirazione che ne derivò, invece del biasimo, ci provò gusto a rivestire il ruolo del caritatevole, per omnia sæcula sæculorum.
Un tempo erano famose le grandi processioni serali che si snodavano la sera dell’11 settembre: data della sepoltura di San Martino e non della sua morte. Processioni diffuse in tutta l’Europa Occidentale con lanterne, lumini e candele, per rievocare la grande fiaccolata lungo la Loira che aveva accompagnato il suo corteo funebre. Per la verità, queste grandi fiaccolate avevano un precedente: in epoca precristiana si tenevano alle idi di novembre (il 13 novembre), ed erano caratteristiche dei popoli celtici e germanici, in concomitanza con l’ultimo “colpo di coda dell’estate”.
Queste fiaccolate pagane avevano un recondito scopo: ravvivare ancora una volta la bella stagione prossima a sopirsi. Una tradizione, quella della fiaccolata, che si mantenne inalterata nei secoli: dalle Fiandre al Tirolo; così radicata che fu rispettata anche dai protestanti, notoriamente allergici ai santi.
Un tempo, durante le fiere di San Martino era tradizione rinnovare i contratti di mezzadria e di servitù, saldare i debiti e reclutare nuovi servitori. “Fè san martin” nella tradizione popolare piemontese significa traslocare: infatti, alla festa di San Martino i mezzadri cambiavano cascinale, in base ai contratti di mezzadria. Ancora cent’anni fa nel giorno di san Martino non era raro trovare i carri di masserizie lungo le strade.
A San Martino tradizionalmente si conclude il ciclo della vendemmia e già si possono assaggiare i primi boccali di vino novello.
Motto dissacrante, ma significativo di una certa mentalità langarola: san Marten u-i’ha dä méza sò mantlena ä ‘n puj, e adess a bazurè e-son in dui = san Martino ha donato metà del suo mantello a un pidocchioso, e adesso a tremare per il freddo sono in due.
À san Marten tüt ër musct u-diventa ven = a san Martino tutto il mosto diventa vino. Soltanto dopo l’11 novembre si potrebbe bere il vino novello, che in Francia ha una grande tradizione con il Beaujolais nouveau.
E-son parti a san Marten, lasciandi pan e ven; e-son turnâ a l’Annunziâ, per truvè ra fnera ruinâ = sono partita a san Martino, lasciando pane e vino; sono tornata all’Annunziata per trovare il fienile rovinato. Lamentazione di una rondine che non trova più il proprio nido: lamentazione che ben si addice all’incuria dell’uomo verso gli animali, anche i più innocui e poetici. Una realtà estremamente drammatica nell’età contemporanea.
Come non citare infine i prüz d’ San Marten noti anche come i Martin sec? Le pere di San Martino piccole, dure come pietre, tra il rossiccio e il marrone, che sono una prelibatezza se cotte nel vino con cannella, chiodi di garofano e cosparse di zucchero dopo la cottura.
(Dal volume: Mesi Miti Mysteria)